Il palazzo Carmagnola, poi Broletto
Una modesta facciata
ottocentesca sostituisce la rustica fronte del palazzo, che il duca Filippo
Maria Visconti donò nel 1415 al conte di Carmagnola: il quale lo abbellì o
forse lo rifabbricò (ma non è certo) fra il 1420 e il 1425. Dell’edificio del
Carmagnola rimanevano ai tempi del Torre alcuni «finestroni alla gottica»;
nulla o quasi oggidì, salvo una targa araldica quadrilobata recante la biscia
viscontea e le iniziali, in lettere gotiche, CO FR, cioè «Comes Franciscus»;
descritta da Diego Sant’Ambrogio, la targa è infissa nel portico di ponente del
palazzo.
Quando il Carmagnola
passò al servizio di Venezia (1423), il palazzo fu confiscato, poi reso allo
stesso Carmagnola (1428). Nella divisione ereditaria passò alle figlie Antonia,
moglie del conte Francesco Castiglioni, e Luchina, moglie di Luigi Dal Verme.
Questa riscattò la parte della sorella e divenne unica proprietaria. Caduti in
disgrazia i Dal Verme e dichiarati ribelli (1485), il palazzo nuovamente
confiscate passò alla Camera ducale, e subì diversi trapassi, finché nel 1494
Ludovico il Moro ne rivendicava la proprietà, per farne poi dono alla sua
favorita Cecilia Gallerani, che sembra vi albergasse anche il marito, il conte
Ludovico Bergamini.
La casa fu rifatta a
nuovo nelle delicate forme del primo rinascimento con l’assistenza
dell’architetto Giovanni di Busto, mentre al proprietario spodestato, tale
Antonio Saronno, fu dato in compenso un reddito sul dazio della macina.
L’edificio conobbe
allora tempi di splendore: feste, trattenimenti intellettuali, concerti,
richiamavano il ceto eletto della città nelle sale dove splendeva la grazia, il
brio, la bellezza di Cecilia. Ivi fu probabilmente ospite anche Leonardo (C. Amoretti, Memorie storiche di Lionardo da Vinci, 1804, p. 39). Vi ebbe stanza
lo storico Giorgio Merula dal 1491 fino al sopraggiungere degli eserciti di
Francia. Ludovico XII diede altra destinazione all’edificio, che per concorde
testimonianza dei contemporanei doveva essere fra i più ricchi della città.
Nel 1505 apparteneva
a Francesco Beolco, maestro delle entrate regie e ducali, che ne trattò la
cessione, per 25.000 lire imperiali, al governatore Carlo d’Amboise; se non che
sorgevano da parte dei confinanti numerose contestazioni per pretese o reali
usurpazioni d’aree da parte del Moro; contestazioni appianate nel 1507, sicché
nel 1509 il palazzo dal Beolco poteva essere ceduto al senatore Sebastiano
Ferreri, il quale a sua volta lo cedette al Comune di Milano. La proprietà del
Comune fu poi contestata più volte: innanzi tutto i Dal Verme, nel 1540,
mossero lite alla Città, adducendo che il palazzo fosse stato indebitamente
confiscato al loro antenato; la lite durò fino al 1633 (A. Cavagna-Sangiuliani, Il
Broletto e i Dal Verme, Milano, 1870).
Frattanto, nel 1618,
il Magistrato Ordinario moveva un’altra lite, dichiarando l’edificio spettante
alla R. Camera come parte delle regalie ducali. Ma nel 1637 il Senato pronunciò
sentenza favorevole al Comune.
Nel 1605 ai piani superiori
furono costruiti vasti granai per la scorta del grano da smaltire in tempi di
carestia. Nei cortili si teneva il mercato dei grani, delle farine e delle
vettovaglie.
L’anno 1714 fu
trasportato in questo palazzo il Banco di S. Ambrogio e furono adattati
all’uopo diversi locali; in una sala G. B. Parodi dipinse il Santo protettore.
Finalmente nel 1770
il conte Giorgio Giulini, lo storico di Milano, che abitava il palazzo sulla
via omonima (demolito nella seconda metà dell’Ottocento) provvide ad un radicale
restauro e vi fece sistemare l’archivio civico. Fu l’inizio della rinascita
dello storico edificio. Poco dopo, nel 1786, il Comune abbandonava il vetusto
Broletto di piazza Mercanti e si trasferiva in questa sede, ove risiedette per
quasi un secolo.
Ai tempi della
Cisalpina e del Regno Italico il Broletto fu rimaneggiato e sistemato; nel 1848
qui fu costituita la Guardia Civica e si formò uno dei centri del movimento di
liberazione della città.
Ma nel 1861
l’edificio fu ceduto in cambio del palazzo Marino, dove il Comune trasferì la
sua sede. Divenuto sede dell’Intendenza di Finanza, il Broletto fu in parte
rifabbricato fra il 1890 e il 1892, quando fu allargata la via del Broletto. Il
cortile maggiore, nonostante le proteste di qualche solitario, fu mutilato e il
corpo di fabbrica verso questa via fu ricostruito più addentro. Nuovi
rimaneggiamenti e nuove mutilazioni subì il palazzo nelle opere di riforma
condotte fra il 1938 e il 1939.
L’organismo
sforzesco, parzialmente scomposto, appare integro in un disegno del tardo
Cinquecento nel tomo I della raccolta Bianconi: è un vasto edificio raccolto
intorno a due cortili, il minore, volto verso la via Rovello, è quello ancora
conservato, di pianta quadrata, girato da portico di sei arcate su ciascun lato.
Il maggiore, provvisto su tre lati di portici, ciascuno di 8 arcate, uscì
mutilato e irriconoscibile dalla riforma del 1891.
I portici andarono
sommersi nelle murature della ricostruzione. Nel disegno della Bianconi è ancor
visibile una scala esterna che portava al piano superiore ed un pozzo in angolo
al cortile, con una vera di pianta quadrata. Rimangono del primo cortile, a
testimonianza del senso d’arte di Ludovico il Moro, le svelte colonne di
perfetta misura e i mirabili capitelli marmorei di squisita esecuzione che
strapparono accenti di ammirazione incondizionata al Mongeri, non alieno dallo
scorgervi l’influsso del Bramante. «Noi vi vediamo, ci sia lecita cotesta
illusione, una creazione sua (del Moro) di predilezione, uno di quei lavori in
cui mise più che altrove a contributo l’alta virtù del maestro d’Urbino e dove
tutta la pleiade luminosa degli artisti che in quel momento illustravano l’arte
dello scalpello, i Mantegazza, i Cazzaniga, i Busti, i Solari, i Caradosso, il
Dolcebono, il Fusina, il Briosco, e soprattutto l’Omodeo, si erano dato
convegno per gareggiare d’operosità e di fantasia...». Ricordava il Beltrami
che in epoca non remota un ingegnere dell’Intendenza, preposto alla
conservazione dell’edificio, proponeva, per «purgare» i capitelli della patina
del tempo, una opportuna ripassatura alla martellinatura (il principale nemico
dei monumenti non è l’erosione del tempo, ma l’ignoranza dell’uomo).
La targa araldica
attesta che il Carmagnola si valeva di un privilegio, dai Signori di Milano
concesso a poche famiglie fedeli, di fregiare il proprio stemma della biscia
Viscontea. (L’insegna araldica gentilizia dei Bussone da Carmagnola era la
banda coi tre caprioli).
Gli architetti Mezzanotte e Bascapè citano
due autori: l’abate Amoretti e Antonio Cavagna-Sangiuliani. Quel che scrive il
primo - tutto da prendere con le pinzette - è già da tempo in rete. Il Cavagna-Sangiuliani
è invece una novità, e siccome nella mia rifornita biblioteca di casa non manca
una copia del suo Studi storici, edito dalla Tipografia Letteraria di Milano nel 1870, non mi resta che
aprire il volume e riportare quel che leggo alle pp. 119-129.
IL PALAZZO DEL
BROLETTO IN MILANO
E I CONTI DAL VERME
Lettera diretta al
D.r G. Fortis, direttore del Pungolo.
Chiarissimo Signor
Direttore,
Avendo letto nella Cronaca cittadina del N. 71, 1869, del
suo pregiato giornale, l’annunzio della collocazione d’iscrizioni che
rammentano alcune obliate nostre glorie, rinvenni una inesattezza storica
riguardo al conte di Carmagnola e al palazzo del Broletto.
Mi faccio quindi un
dovere di sottoporle poche osservazioni e alcuni schiarimenti, appoggiati a
documenti autentici.
Là, dopo aver
discorso delle altre iscrizioni commemorative, parlando di quella che deve
essere collocata su duplice marmo all’ingresso del Broletto in via Giulini, e
verso la corsia intitolata dal nome stesso di Broletto, e dopo accennato come
il palazzo avesse appartenuto a Francesco Bussone, conte di Carmagnola, celebre
capitano di ventura, e avesse a lui servito d’abitazione dal 1413 al 1425;
forse con la scorta di Andrea Biglia e del rapporto della Commissione
incaricata dal nostro Municipio di proporre le iscrizioni commemorative di
fatti e d’uomini illustri di Milano, è detto che, «tutti i beni del Carmagnola, furono confiscati, allorché egli passò al
servizio della Republica Veneta», e dopo «il palazzo, confiscato pure al Carmagnola, fu donato alla città di
Milano...», il che dai documenti ci è pienamente contrastato, e in quella
vece dimostrato che il palazzo del Broletto passò alle due figlie del
Carmagnola, Antonia e Luchina, indi
in proprietà ereditaria alla famiglia Dal Verme, e solo alla fine del XVI
secolo pervenne al Comune di Milano; ed ecco in qual modo:
Il conte Francesco
Bussone di Carmagnola s’avea per moglie Antonietta Visconti, parente del duca
di Milano Filippo Maria; e lasciava quattro figlie, cioè: Margherita maritata a Bernabò Sanseverino; Elisabetta condotta in moglie da Francesco Visconti, consigliere
ducale; Luchina sposata al conte
Luigi Dal Verme, e Antonia moglie del
magnifico dottor in legge Garnerio de
Castiliono.
Carmagnola fece il
suo testamento alli 8 settembre 1429, per rogito di Martino de Gavastis de Claris, notaio publico, e
per esso il palazzo suo, esattamente indicato con particolare descrizione e
colla precisa indicazione delle coerenze, che lo addimostra identificato
nell’attuale palazzo chiamato Broletto,
toccò in eredità alle figlie sue Luchina Dal Verme e Antonia de Castiliono; il palazzo era stimato 19,000
fiorini, e la somma divisa rispettivamente fra loro in giusta metà, e così egli
trasmetteva questo ente, non confiscato, alle due figlie, come loro quota
ereditaria.
È pur vero che il
conte Luigi Dal Verme, genero del Carmagnola, cadesse in disgrazia della Veneta
republica, ciò che si ha dall’atto con cui il doge Foscari confisca al suddetto
il feudo di Sanguinetto dandolo a Gentile Leonessa; ma per contrario il duca di
Milano investiva con privilegio del 23 maggio 1436 il conte Luigi Dal Verme dei
feudi di Bobbio, Voghera e Castel S. Giovanni, e poi nel 1451 Francesco Sforza,
fattosi signore di Milano, riconfermava a Luchino Dal Verme e alla sua famiglia
tutti i beni del defunto genitore; e più ancora: nell’anno 1464, con atto
conchiuso il 19 di marzo, la proprietà del palazzo del Broletto venne riunita
nelle mani della contessa Luchina Dal Verme, mediante il pagamento alla sorella
Antonia Castiglioni di 9,500 fiorini, rispettiva metà di valore dell’intiero
palazzo.
Con quest’ atto si
viene a conoscere che la contessa Luchina era obbligata a pagare la detta somma
nel corso di otto anni o in denaro o in beni immobili o in livelli , alla
sorella sua Antonia; che si era scelto arbitro fra esse un Giovanni Corio, e
che concorsero la madre Antonietta Carmagnola Visconti, le altre sorelle e un
Matteo Carmagnola, altro delli eredi o legatari del celebre condottiero, e
rimane confermato che il palazzo del Broletto continuò ad appartenere agli
eredi del Carmagnola.
In seguito per
successione ereditaria passò nella assoluta proprietà del figlio di Luigi e
Luchina Dal Verme, il conte Pietro, che moriva avvelenato in Voghera nel 1485.
Lui vivente, si ha documento che negli anni 1476, 77, 78, 79, col mezzo del suo
cancelliere Beltramino de Castelletis,
riceveva da Battista e Luigi Castiglioni il fitto livellano annuo della casa quæ vocatur magnifici
Comitis Carmagnolæ, vel Broleti.
Alla morte del conte
Pietro Dal Verme, Ludovico il Moro ne confiscava i beni e faceva dono del
palazzo a Cecilia Gallarani sua amante, moglie a Ludovico Bergamini; in seguito
passò a Giorgio Merula; poi nelle mani di Carlo d’Amboise de Chaumont,
maresciallo di Francia e supremo capo delle truppe di S. M. Cristianissima in
Italia; indi a Francesco Bebuleno; dipoi a Sebastiano de Ferrari, che lo
vendette al magnifico Battista Visconti , e lo riebbe da questo, per cederlo
poscia con suo arbitrio al comune di Milano. Senonchè il conte Federico e il
fratello suo conte Marcantonio Dal Verme ne rivendicarono la proprietà; e nel
1513, quando vennero cacciati d’Italia i Francesi, la famiglia Dal Verme poté
ritornare nel libero possesso dei suoi vasti feudi e delle proprietà sparse nel
ducato e sui primi colli dell’Appennino a Voghera, Bobbio e Castel S. Giovanni,
e riebbero eziandio il palazzo del Broletto, e a tale effetto v’ha appunto un
atto autentico esistente nell’Archivio dei conti Dal Verme e da me esaminato,
con il quale vien fatta la debita presa di possesso del nominato palazzo al 28
novembre dell’anno 1513 per parte del conte Marcantonio Dal Verme, a nome anche
del fratello Federico.
Nel volgere degli
anni successivi fino allo scorcio del XVI secolo la famiglia Dal Verme patì
varie confische, interpolatamente ritornando nel possesso del palazzo; finché
questo passò al Governo spagnolo, e da Filippo III nell’anno 1605 venne donato
alla città di Milano, che vi collocò il mercato dei grani, e dopo altre
vicissitudini li uffizii municipali sino al 1861.
La cappella fatta
erigere dal Carmagnola nella chiesa di S. Francesco, ove veniva deposto colla
moglie, rimase invece in patronato della famiglia Dal Verme fino alla
demolizione di quella chiesa, avvenuta nel 1813, e l’iscrizione in onore del
celebrato guerriero veniva riposta nel cortile della Biblioteca Ambrosiana.
Riepilogando: col
testamento di Francesco Carmagnola (1429), con la sua designazione alle figlie
Antonia e Luchina del palazzo come quota ereditaria; coi privilegi concessi da
Francesco Sforza, nell’anno 1451, a Luchina Dal Verme; con la convenzione
stipulata alli 19 marzo del 1464, per la quale Luchina rilevava la parte del
palazzo pervenuta in eredità alla sorella Antonia; con le confessioni di fitti
livellarii del detto palazzo del conte Pietro Dal Verme fino al 1479; e
finalmente con la presa di possesso del palazzo nel 1513 dai conti Marcantonio
e Federico Dal Verme, noi abbiamo i più sicuri documenti che affermano la
conservazione della proprietà del Broletto nelli eredi del Carmagnola, e indi
nella famiglia Dal Verme in successione di quelli, fino alli ultimi anni del
XVI secolo, e con ciò viene contradetta l’asserzione che il Broletto fosse
stato confiscato nel 1425, quando il Carmagnola passava al servizio della
Veneta republica.
Perdonerà,
chiarissimo signore, se l’argomento mi condusse tanto per le lunghe, ma
l’importanza storica delle cose in questione, l’interesse che prendo a questo
genere di studi, e il desiderio di veder corretto un errore, saranno cause che
mi varranno, spero, la sua indulgenza; e con ciò la prego a volermi credere
con la massima stima
Suo dev. servitore
A.
Cavagna Sangiuliani
Milano, marzo 1869.
E anche qui del Bramante non trovo che esili
tracce… stilistiche, ma tant’è: a Milano c’è ancora chi scrive che i Navigli e le conche siano
un’invenzione di Leopardo da Vinci, quindi… balle per balle per tre e
quattordici e il Circo resta sempre aperto: venghino signori venghino, che più gente entra e più bestie si vedono….
LE FOTOGRAFIE DI GIANCARLO MAURI