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venerdì 26 agosto 2016

Milano: il Palazzo Carmagnola, già di Cecilia Gallerani



Dopo la corte in stile bramantesco dell’ex palazzo Dal Verme ho pensato fosse cosa buona e giusta rivedere il palazzo Carmagnola, quello che oggi ospita il Piccolo Teatro, a due passi dal Broletto. Anche qui a farmi da guida è il testo estrapolato dal volume firmato da Mezzanotte e Giacomo C. Bascapè: Milano nell’arte e nella storia, a cura di Gianni Mezzanotte. Carlo Bestetti - Edizioni d’Arte - Milano-Roma 1968, aperto alle pp. 145-147.

Il palazzo Carmagnola, poi Broletto

Una modesta facciata ottocentesca sostituisce la rustica fronte del palazzo, che il duca Filippo Maria Visconti donò nel 1415 al conte di Carmagnola: il quale lo abbellì o forse lo rifabbricò (ma non è certo) fra il 1420 e il 1425. Dell’edificio del Carmagnola rimanevano ai tempi del Torre alcuni «finestroni alla gottica»; nulla o quasi oggidì, salvo una targa araldica quadrilobata recante la biscia viscontea e le iniziali, in lettere gotiche, CO FR, cioè «Comes Franciscus»; descritta da Diego Sant’Ambrogio, la targa è infissa nel portico di ponente del palazzo.
Quando il Carmagnola passò al servizio di Venezia (1423), il palazzo fu confiscato, poi reso allo stesso Carmagnola (1428). Nella divisione ereditaria passò alle figlie Antonia, moglie del conte Francesco Castiglioni, e Luchina, moglie di Luigi Dal Verme. Questa riscattò la parte della sorella e divenne unica proprietaria. Caduti in disgrazia i Dal Verme e dichiarati ribelli (1485), il palazzo nuovamente confiscate passò alla Camera ducale, e subì diversi trapassi, finché nel 1494 Ludovico il Moro ne rivendicava la proprietà, per farne poi dono alla sua favorita Cecilia Gallerani, che sembra vi albergasse anche il marito, il conte Ludovico Bergamini.
La casa fu rifatta a nuovo nelle delicate forme del primo rinascimento con l’assistenza dell’architetto Giovanni di Busto, mentre al proprietario spodestato, tale Antonio Saronno, fu dato in compenso un reddito sul dazio della macina.
L’edificio conobbe allora tempi di splendore: feste, trattenimenti intellettuali, concerti, richiamavano il ceto eletto della città nelle sale dove splendeva la grazia, il brio, la bellezza di Cecilia. Ivi fu probabilmente ospite anche Leonardo (C. Amoretti, Memorie storiche di Lionardo da Vinci, 1804, p. 39). Vi ebbe stanza lo storico Giorgio Merula dal 1491 fino al sopraggiungere degli eserciti di Francia. Ludovico XII diede altra destinazione all’edificio, che per concorde testimonianza dei contemporanei doveva essere fra i più ricchi della città.
Nel 1505 apparteneva a Francesco Beolco, maestro delle entrate regie e ducali, che ne trattò la cessione, per 25.000 lire imperiali, al governatore Carlo d’Amboise; se non che sorgevano da parte dei confinanti numerose contestazioni per pretese o reali usurpazioni d’aree da parte del Moro; contestazioni appianate nel 1507, sicché nel 1509 il palazzo dal Beolco poteva essere ceduto al senatore Sebastiano Ferreri, il quale a sua volta lo cedette al Comune di Milano. La proprietà del Comune fu poi contestata più volte: innanzi tutto i Dal Verme, nel 1540, mossero lite alla Città, adducendo che il palazzo fosse stato indebitamente confiscato al loro antenato; la lite durò fino al 1633 (A. Cavagna-Sangiuliani, Il Broletto e i Dal Verme, Milano, 1870).
Frattanto, nel 1618, il Magistrato Ordinario moveva un’altra lite, dichiarando l’edificio spettante alla R. Camera come parte delle regalie ducali. Ma nel 1637 il Senato pronunciò sentenza favorevole al Comune.
Nel 1605 ai piani superiori furono costruiti vasti granai per la scorta del grano da smaltire in tempi di carestia. Nei cortili si teneva il mercato dei grani, delle farine e delle vettovaglie.
L’anno 1714 fu trasportato in questo palazzo il Banco di S. Ambrogio e furono adattati all’uopo diversi locali; in una sala G. B. Parodi dipinse il Santo protettore.
Finalmente nel 1770 il conte Giorgio Giulini, lo storico di Milano, che abitava il palazzo sulla via omonima (demolito nella seconda metà dell’Ottocento) provvide ad un radicale restauro e vi fece sistemare l’archivio civico. Fu l’inizio della rinascita dello storico edificio. Poco dopo, nel 1786, il Comune abbandonava il vetusto Broletto di piazza Mercanti e si trasferiva in questa sede, ove risiedette per quasi un secolo.
Ai tempi della Cisalpina e del Regno Italico il Broletto fu rimaneggiato e sistemato; nel 1848 qui fu costituita la Guardia Civica e si formò uno dei centri del movimento di liberazione della città.
Ma nel 1861 l’edificio fu ceduto in cambio del palazzo Marino, dove il Comune trasferì la sua sede. Divenuto sede dell’Intendenza di Finanza, il Broletto fu in parte rifabbricato fra il 1890 e il 1892, quando fu allargata la via del Broletto. Il cortile maggiore, nonostante le proteste di qualche solitario, fu mutilato e il corpo di fabbrica verso questa via fu ricostruito più addentro. Nuovi rimaneggiamenti e nuove mutilazioni subì il palazzo nelle opere di riforma condotte fra il 1938 e il 1939.
L’organismo sforzesco, parzialmente scomposto, appare integro in un disegno del tardo Cinquecento nel tomo I della raccolta Bianconi: è un vasto edificio raccolto intorno a due cortili, il minore, volto verso la via Rovello, è quello ancora conservato, di pianta quadrata, girato da portico di sei arcate su ciascun lato. Il maggiore, provvisto su tre lati di portici, ciascuno di 8 arcate, uscì mutilato e irriconoscibile dalla riforma del 1891.
I portici andarono sommersi nelle murature della ricostruzione. Nel disegno della Bianconi è ancor visibile una scala esterna che portava al piano superiore ed un pozzo in angolo al cortile, con una vera di pianta quadrata. Rimangono del primo cortile, a testimonianza del senso d’arte di Ludovico il Moro, le svelte colonne di perfetta misura e i mirabili capitelli marmorei di squisita esecuzione che strapparono accenti di ammirazione incondizionata al Mongeri, non alieno dallo scorgervi l’influsso del Bramante. «Noi vi vediamo, ci sia lecita cotesta illusione, una creazione sua (del Moro) di predilezione, uno di quei lavori in cui mise più che altrove a contributo l’alta virtù del maestro d’Urbino e dove tutta la pleiade luminosa degli artisti che in quel momento illustravano l’arte dello scalpello, i Mantegazza, i Cazzaniga, i Busti, i Solari, i Caradosso, il Dolcebono, il Fusina, il Briosco, e soprattutto l’Omodeo, si erano dato convegno per gareggiare d’operosità e di fantasia...». Ricordava il Beltrami che in epoca non remota un ingegnere dell’Intendenza, preposto alla conservazione dell’edificio, proponeva, per «purgare» i capitelli della patina del tempo, una opportuna ripassatura alla martellinatura (il principale nemico dei monumenti non è l’erosione del tempo, ma l’ignoranza dell’uomo).
La targa araldica attesta che il Carmagnola si valeva di un privilegio, dai Signori di Milano concesso a poche famiglie fedeli, di fregiare il proprio stemma della biscia Viscontea. (L’insegna araldica gentilizia dei Bussone da Carmagnola era la banda coi tre caprioli).

Gli architetti Mezzanotte e Bascapè citano due autori: l’abate Amoretti e Antonio Cavagna-Sangiuliani. Quel che scrive il primo - tutto da prendere con le pinzette - è già da tempo in rete. Il Cavagna-Sangiuliani è invece una novità, e siccome nella mia rifornita biblioteca di casa non manca una copia del suo Studi storici, edito dalla Tipografia Letteraria di Milano nel 1870, non mi resta che aprire il volume e riportare quel che leggo alle pp. 119-129.

IL PALAZZO DEL BROLETTO IN MILANO
E I CONTI DAL VERME
Lettera diretta al D.r G. Fortis, direttore del Pungolo.

Chiarissimo Signor Direttore,
Avendo letto nella Cronaca cittadina del N. 71, 1869, del suo pregiato giornale, l’annunzio della collocazione d’iscrizioni che rammentano alcune obliate nostre glorie, rinvenni una inesattezza storica riguardo al conte di Carmagnola e al palazzo del Broletto.
Mi faccio quindi un dovere di sottoporle poche osservazioni e alcuni schiarimenti, appoggiati a documenti autentici.
Là, dopo aver discorso delle altre iscrizioni commemorative, parlando di quella che deve essere collocata su duplice marmo all’ingresso del Broletto in via Giulini, e verso la corsia intitolata dal nome stesso di Broletto, e dopo accennato come il palazzo avesse appartenuto a Francesco Bussone, conte di Carmagnola, celebre capitano di ventura, e avesse a lui servito d’abitazione dal 1413 al 1425; forse con la scorta di Andrea Biglia e del rapporto della Commissione incaricata dal nostro Municipio di proporre le iscrizioni commemorative di fatti e d’uomini illustri di Milano, è detto che, «tutti i beni del Carmagnola, furono confiscati, allorché egli passò al servizio della Republica Veneta», e dopo «il palazzo, confiscato pure al Carmagnola, fu donato alla città di Milano...», il che dai documenti ci è pienamente contrastato, e in quella vece dimostrato che il palazzo del Broletto passò alle due figlie del Carmagnola, Antonia e Luchina, indi in proprietà ereditaria alla famiglia Dal Verme, e solo alla fine del XVI secolo pervenne al Comune di Milano; ed ecco in qual modo:
Il conte Francesco Bussone di Carmagnola s’avea per moglie Antonietta Visconti, parente del duca di Milano Filippo Maria; e lasciava quattro figlie, cioè: Margherita maritata a Bernabò Sanseverino; Elisabetta condotta in moglie da Francesco Visconti, consigliere ducale; Luchina sposata al conte Luigi Dal Verme, e Antonia moglie del magnifico dottor in legge Garnerio de Castiliono.
Carmagnola fece il suo testamento alli 8 settembre 1429, per rogito di Martino de Gavastis de Claris, notaio publico, e per esso il palazzo suo, esattamente indicato con particolare descrizione e colla precisa indicazione delle coerenze, che lo addimostra identificato nell’attuale palazzo chiamato Broletto, toccò in eredità alle figlie sue Luchina Dal Verme e Antonia de Castiliono; il palazzo era stimato 19,000 fiorini, e la somma divisa rispettivamente fra loro in giusta metà, e così egli trasmetteva questo ente, non confiscato, alle due figlie, come loro quota ereditaria.
È pur vero che il conte Luigi Dal Verme, genero del Carmagnola, cadesse in disgrazia della Veneta republica, ciò che si ha dall’atto con cui il doge Foscari confisca al suddetto il feudo di Sanguinetto dandolo a Gentile Leonessa; ma per contrario il duca di Milano investiva con privilegio del 23 maggio 1436 il conte Luigi Dal Verme dei feudi di Bobbio, Voghera e Castel S. Giovanni, e poi nel 1451 Francesco Sforza, fattosi signore di Milano, riconfermava a Luchino Dal Verme e alla sua famiglia tutti i beni del defunto genitore; e più ancora: nell’anno 1464, con atto conchiuso il 19 di marzo, la proprietà del palazzo del Broletto venne riunita nelle mani della contessa Luchina Dal Verme, mediante il pagamento alla sorella Antonia Castiglioni di 9,500 fiorini, rispettiva metà di valore dell’intiero palazzo.
Con quest’ atto si viene a conoscere che la contessa Luchina era obbligata a pagare la detta somma nel corso di otto anni o in denaro o in beni immobili o in livelli , alla sorella sua Antonia; che si era scelto arbitro fra esse un Giovanni Corio, e che concorsero la madre Antonietta Carmagnola Visconti, le altre sorelle e un Matteo Carmagnola, altro delli eredi o legatari del celebre condottiero, e rimane confermato che il palazzo del Broletto continuò ad appartenere agli eredi del Carmagnola.
In seguito per successione ereditaria passò nella assoluta proprietà del figlio di Luigi e Luchina Dal Verme, il conte Pietro, che moriva avvelenato in Voghera nel 1485. Lui vivente, si ha documento che negli anni 1476, 77, 78, 79, col mezzo del suo cancelliere Beltramino de Castelletis, riceveva da Battista e Luigi Castiglioni il fitto livellano annuo della casa quæ vocatur magnifici Comitis Carmagnolæ, vel Broleti.
Alla morte del conte Pietro Dal Verme, Ludovico il Moro ne confiscava i beni e faceva dono del palazzo a Cecilia Gallarani sua amante, moglie a Ludovico Bergamini; in seguito passò a Giorgio Merula; poi nelle mani di Carlo d’Amboise de Chaumont, maresciallo di Francia e supremo capo delle truppe di S. M. Cristianissima in Italia; indi a Francesco Bebuleno; dipoi a Sebastiano de Ferrari, che lo vendette al magnifico Battista Visconti , e lo riebbe da questo, per cederlo poscia con suo arbitrio al comune di Milano. Senonchè il conte Federico e il fratello suo conte Marcantonio Dal Verme ne rivendicarono la proprietà; e nel 1513, quando vennero cacciati d’Italia i Francesi, la famiglia Dal Verme poté ritornare nel libero possesso dei suoi vasti feudi e delle proprietà sparse nel ducato e sui primi colli dell’Appennino a Voghera, Bobbio e Castel S. Giovanni, e riebbero eziandio il palazzo del Broletto, e a tale effetto v’ha appunto un atto autentico esistente nell’Archivio dei conti Dal Verme e da me esaminato, con il quale vien fatta la debita presa di possesso del nominato palazzo al 28 novembre dell’anno 1513 per parte del conte Marcantonio Dal Verme, a nome anche del fratello Federico.
Nel volgere degli anni successivi fino allo scorcio del XVI secolo la famiglia Dal Verme patì varie confische, interpolatamente ritornando nel possesso del palazzo; finché questo passò al Governo spagnolo, e da Filippo III nell’anno 1605 venne donato alla città di Milano, che vi collocò il mercato dei grani, e dopo altre vicissitudini li uffizii municipali sino al 1861.
La cappella fatta erigere dal Carmagnola nella chiesa di S. Francesco, ove veniva deposto colla moglie, rimase invece in patronato della famiglia Dal Verme fino alla demolizione di quella chiesa, avvenuta nel 1813, e l’iscrizione in onore del celebrato guerriero veniva riposta nel cortile della Biblioteca Ambrosiana.
Riepilogando: col testamento di Francesco Carmagnola (1429), con la sua designazione alle figlie Antonia e Luchina del palazzo come quota ereditaria; coi privilegi concessi da Francesco Sforza, nell’anno 1451, a Luchina Dal Verme; con la convenzione stipulata alli 19 marzo del 1464, per la quale Luchina rilevava la parte del palazzo pervenuta in eredità alla sorella Antonia; con le confessioni di fitti livellarii del detto palazzo del conte Pietro Dal Verme fino al 1479; e finalmente con la presa di possesso del palazzo nel 1513 dai conti Marcantonio e Federico Dal Verme, noi abbiamo i più sicuri documenti che affermano la conservazione della proprietà del Broletto nelli eredi del Carmagnola, e indi nella famiglia Dal Verme in successione di quelli, fino alli ultimi anni del XVI secolo, e con ciò viene contradetta l’asserzione che il Broletto fosse stato confiscato nel 1425, quando il Carmagnola passava al servizio della Veneta republica.
Perdonerà, chiarissimo signore, se l’argomento mi condusse tanto per le lunghe, ma l’importanza storica delle cose in questione, l’interesse che prendo a questo genere di studi, e il desiderio di veder corretto un errore, saranno cause che mi varranno, spero, la sua indulgenza; e con ciò la prego a volermi credere
con la massima stima
Suo dev. servitore
A. Cavagna Sangiuliani
Milano, marzo 1869.


E anche qui del Bramante non trovo che esili tracce… stilistiche, ma tant’è: a Milano c’è ancora chi scrive che i Navigli e le conche siano un’invenzione di Leopardo da Vinci, quindi… balle per balle per tre e quattordici e il Circo resta sempre aperto: venghino signori venghino, che più gente entra e più bestie si vedono….

LE FOTOGRAFIE DI GIANCARLO MAURI


































martedì 27 gennaio 2015

Santa Maria della Fontana, a Vigadore



Invitato dalla locale Pro Loco, la sera del 24 febbraio 2012 a Varano de’ Melegari (Parma) ho tenuto una conferenza illustrata da diapositive sul tema: Tre vallate dell’Himalaya indiano. Come sempre, le mie argomentazioni si fondano sulle esperienze etno-antropologiche, con mirata attenzione agli arcaici culti rituali.
Commentando l’area del Nag Tibba, non mi ero scordato di illustrare e commentare l’uso di costruire dei templi sopra le polle d’acqua sorgiva, un metodo che ha due giustificazioni: 1) conservare integra la purezza dell’acqua alla fonte, un dovere per chi non dispone di un acquedotto e di una distribuzione capillare controllata; 2) far guadagnare quanto più denaro possibile alla casta clericale che ha in esclusiva gli affari del tempio.
In un'altra vallata, invece, le giovani madri mi venivano appresso e si slacciavano le vesti per mostrarmi i loro seni carichi di latte, chiedendomi di toccare con mano. Un segno d’orgoglio per loro: ho il latte per nutrire mio figlio.

Qui aggiungo il testo della mail da me inviata il 12 agosto 2000:

Panthwari. Il cielo è ingrigito dalle nuvole monsoniche, quindi passo alcune ore gironzolando per le stradine della parte più antica del villaggio, quella a valle della strada sterrata. È molto, molto interessante, con le sue tipiche case di legno ornate d’intarsi. Come da contratto, sono subito circondato da un gruppo di bambini e tutti vogliono una loro foto ricordo.
Poco dopo mezzogiorno rompo gli indugi e m’incammino verso il Nag Tibba, il monte sulla cui vetta - a 3048 metri - vi è un arcaico tempio dedicato al culto del Naga, il serpente-padre degli umani, esportato nei paesi vicini - Cina, Birmania, Thailandia e altri - sotto forma di dragone. Procedo veloce. Il sentiero sale in direttissima verso l’alto, senza andirivieni inutili. Sui 2500 metri di quota entro nella zona della pioggia, ma ormai ci ho fatto il callo. Pochi minuti prima delle 15, avvolto dalle nebbie arrivo al tempio, una costruzione di pochi metri quadrati circondata da un bianco muro di cinta. Nel mezzo del cortile (il tempio occupa l’angolo sinistro, in fondo) sgorga dell’acqua sorgiva, elemento prezioso sia per gli umani sia per abbeverare (incanalata e portata all’esterno del recinto sacro) le mandrie di bufali che i Gujjars - nomadi musulmani provenienti dai lontani monti pakistani - portano fin qui ogni anno da tempo immemore.
Scattate le foto esco dal recinto del tempio, dove trovo ad aspettarmi un giovane pastore Gujjars con una grossa roncola in mano. Mi fa cenno di seguirlo, io esito a farlo. Forse intuendo l’origine del mio disagio, il ragazzo posa l’attrezzo su di un sasso; adesso possiamo andare, e insieme valichiamo un costone erboso. Un centinaio di metri più in basso vi sono le tende nere dei nomadi. Tolgo le scarpe infangate ed entro in una di queste. Il tempo di adattare la vista al buio e mi ritrovo - seduto per terra, su di un tappeto - a bere latte appena munto in compagnia di uomini, donne e bambini. Alla faccia di chi, in India, mi aveva sempre dipinto i Gujjars come un’efferata banda di ladri e di assassini.
Più scendo a valle e più apprezzo il sole e il caldo. I contadini - sembra che nessuno ti veda, ma non fai un passo senza essere sotto il loro controllo - mi vengono incontro e tutti vogliono offrire qualcosa allo straniero che si è fatto oltre 1500 metri di dislivello per rendere visita al “loro” tempio. Chi mi porta del latte cagliato, chi delle pannocchie di mais abbrustolite, chi una tazza di the. Rientro a Panthwari giusto in tempo per la puja al tempio dedicato a devta Nag e a sua moglie devi Tilka. All’interno, le loro statue si trovano in due stanze separate, ai lati di un’impetuosa sorgente d’acqua. In queste valli è uso che tutte le strutture religiose dedicate ai Naga siano erette a protezione delle sorgenti, e questo perché mantenere la purezza dell’acqua alle sue origini è una ricchezza per la vita collettiva. In altre parole: gli spiriti degli antenati sono messi a difesa della vita futura.

* * *

Il giorno seguente, tornando da Varano de’ Melegari ho introdotto una deviazione, uscendo dall’autostrada al casello di Lodi per raggiungere una sua frazione, Vigadore. Il perché è subito detto: da tempo raccolgo materiale inedito su Giovanni Gavazzi Spech, l’uomo che ha firmato il primo articolo inerente un’ascensione alpinistica nel Gruppo delle Grigne - (L’Alpinista, anno 1875, n. 6) - la cui vita chiuderà la serie di libri sul tema Scienziati e Letterati Esploratori del Gruppo delle Grigne, una collana da me ideata e di cui ho già pubblicato le monografie dedicate a Leonardo da Vinci, Paride Cattaneo della TorreNiccolò Stenone, Lazzaro Spallanzani, Mario Cermenati e al Parlaschino.
L’articolo di GGS, possidente che agli affari di famiglia preferì la letteratura, è scritto con taglio giornalistico e risente delle frequentazioni da lui avute con la Scapigliatura milanese e con gli autori che ronzavano attorno alla Cronaca bizantina dell’editore Sommaruga.
Apriti cielo. Letto l’articolo di GGS, nelle Sedi delle prime Sezioni del giovane Club Alpino Italiano - provinciale imitazione dell’Alpine Club di Londra - immediata s’innalza al cielo la domanda-protesta: Carneade, chi è costui!
Da Lecco, il politicante socialista Mario Cermenati, già membro di un reale governo, lancia la sua dolorosa frecciatina contro il Gavazzi sotto forma di nota inserita a piè di pagina in uno dei suoi troppi scritti.
L’onere di dare una solenne risposta ufficiale all’incauto GGS se l’accolla il botanico Vincenzo Cesati - al tempo docente universitario presso l’ateneo di Napoli, uomo che si fregia del titolo acquisito di barone di Vigadore – anch’essa pubblicata sulla rivista del C.A.I. (L’Alpinista, anno 1875, n. 11).
La carriera alpinistica di GGS – sempre che lui avesse inteso di darle un seguito – è definitivamente stroncata: che ogni uccello svolazzi pure nello spazio a lui destinato, ma che lasci liberi i cieli più alti, più tersi, più blu, area di competenza degli aquilotti C.A.I.ni.

* * *

Oggi come allora, Vigadore è una frazione prettamente agricola, che così ho descritto in una mail:

[…] Stamattina, strada facendo, ho fatto una deviazione per visitare la cascina Vigadore, un tempo baronia dei Cesati, di cui uno, Vincenzo, è coinvolto nella mia storia dell’esplorazione delle Grigne. [...] Prima di salutarci, mi è stata indicata una vicina chiesa dedicata a Santa Maria della Fontana: come da me raccontato e dimostrato parlando del Nag Tibba, anche questa chiesa “inferiore” è stata costruita a custodia di una sorgente. L’interno e l’esterno è tutto affrescato, e un cameo pare riprodurre, con molta fantasia, le due Grigne ed i Corni di Canzo. Sopra l’altare, vi è una vergine che allatta, chiaro legame al culto del latte materno, la prima fonte nutriente, come sopra ricordato parlando dell’Har-ki-dun. Ai suoi piedi, un tombino copre la fonte d’acqua. Migliaia di km di distanza, ma stessi culti e stessi simboli. La conferma di ciò che affermo da una vita: studiare i popoli tribali per capire noi stessi.

© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri















mercoledì 21 maggio 2014

Giuseppe Meda e il Naviglio di Paderno


Un giorno, in India qualcuno m’insegnò che “Gandhi è morto e dimenticato, come lo può essere colui al quale si erigono monumenti”. Per le masse, anche senza un suo monumento, Giuseppe Meda è rimasto un perfetto sconosciuto. Eppure a Milano lui aveva eretto cupole e chiese, disegnato il gonfalone cittadino (quello esposto nel Museo del Castello) e preziosi stalli lignei, salvato l’economia cittadina dopo che una piena del Ticino aveva rotto l’incile del Naviglio Grande lasciando senz’acqua centinaia di mulini e di opifici. A tutto questo s’aggiungano i sacrifici e le umiliazioni subite per la realizzazione del Naviglio di Paderno, ideato con soluzioni mai sperimentate da altri prima di lui. Lo fermò soltanto la carente tecnologia del suo tempo e l’invidia delle mezze tacche al servizio dei politicanti bugiardi perché ladri.

Ma procediamo con ordine: già a partire dal secolo XII Milano si serviva dei suoi Navigli artificiali per far arrivare in città frutta fresca e verdura, ma anche pietra, legna, mattoni, carbone e ogni materiale ferroso utile alla creazione di armature e di spade di grande qualità e quindi esportate in ogni parte d’Europa, commercio che risentiva dei costi di trasporto da e per la Germania. Ai tempi, due erano le possibilità: o si seguiva la via di terra passante per Como (resa pericolosa dagli assalti dei predoni), oppure si navigavano le acque della Martesana fino all’Adda, raggiunta poco a valle di Trezzo. Da qui le merci continuavano via terra fino a Brivio, porto d’imbarco per Capolago, il capolinea lariano a valle di Chiavenna. Questo costoso (e pericoloso) trasbordo era imposto dal letto dell’Adda, ricco di sassi (i Tre Corni) e di rapide in territorio di Paderno d’Adda.
Il problema di questo Naviglio era già stato vagamente analizzato da Leonardo, il quale aveva immaginato di costruire una conca a pozzo, con paratoia a saracinesca per regolare il deflusso dell’acqua, e una galleria per la fuoriuscita/entrata delle barche a valle della località Rocchetta. Poi, come sempre, i suoi disegni non andarono oltre la carta.

Il da Vinci è lontano, in terra francese, quando nel 1516 a Milano si costituisce la Commissione Pagnani, incaricata di studiare un possibile Naviglio atto a superare i Tre Corni. Finanziato dal re di Francia, nel 1519, di fronte al Sasso di San Michele, l’ing. Missaglia inizia la costruzione del cosiddetto sperone dei Francesi, lavoro propedeutico alla pubblicazione (1520) del Rapporto Pagnani, che propone la realizzazione di un Naviglio corto e dieci conche di altezza media pari a 2,67 metri cadauna. Gli avvenimenti politici - nel 1525, dopo la sconfitta di Pavia, ai francesi di Francesco I subentrano gli Spagnoli - non aiutano e tutto resta fermo fino all’anno 1562, quando il frate Giovan Francesco Rizzi avanza un’idea bizzarra: perché non tagliare i Tre Corni dell’Adda e costruire due grandi chiuse per annegare gli altri sassi che impediscono la navigazione? Idea scartata. Sette anni dopo Martino Bassi propone un Naviglio da Brivio alla Rocchetta, con sette conche affiancate da sette mulini. Silenzio. Nell’anno 1570 Cesare Corio si offre di ridurre da 8 a 2 miglia il percorso via terra delle merci da Brivio a Porto, intagliando a sue spese un Naviglio breve. Se paga di tasca sua non c’è trippa per i gatti dei politicanti …quindi avanti un altro.

E siamo all’anno 1574, quando ai Sessanta Decurioni di Milano arriva un anonimo memoriale dove si promette loro la costruzione del Naviglio con una spesa di 32 mila scudi. Stavolta i Sessanta annuiscono e chiedono all’estensore di rivelarsi. Il pittore Giuseppe Meda (l’anonimo) capisce che per dare credibilità al suo progetto deve prima entrare a far parte della corporazione degli “ingegneri, architetti e agrimensori” e tacendo supera l’esame d’ammissione.

Autunno 1576. La peste colpisce Milano e l’ingegnere idraulico Meda si dedica alla miglioria della circolazione delle acque interne, sospettate di essere nocive. Passata la bufera, nel 1578 lo stesso rivela al Tribunale di Provvisione di essere lui l’autore del memoriale inviato nel 1574. Risultato: il 5 marzo 1580 l’ingegnere comunale sottoscrive la Capitulatione, impegnandosi a superare entro 4 anni il dislivello dei Tre Corni con due salti, uno di 6 metri e l’altro (spaventosamente ardito) di 18, previa autorizzazione reale. Purtroppo Madrid è sempre più lontana e il nullaosta arriverà “soltanto” 10 anni dopo.

Agosto 1585: una piena del Ticino rompe lo Sperone del Naviglio Grande lasciando senz’acqua i campi, 300 mulini e un centinaio di opifici: l’industria milanese è rovinata. L’ing. Meda studia il da farsi e già a dicembre il problema dell’incile del Ticino è risolto. I commercianti “tirano il fiato”.

2 gennaio 1591: col nullaosta di Madrid sul tavolo e una seconda Capitulatione firmata, i lavori del Naviglio di Paderno possono iniziare, ma i problemi non tardano ad affiorare: la roccia ai lati dell’Adda non è delle più solide e le violente piene del fiume facilmente distruggono quanto costruito. Inoltre, nel 1597 gli ingegneri Meda e Bisnati - il suo braccio destro - si devono difendere con le armi dall’aggressione di alcuni lavoranti e per questo portati alla Malastalla, la prigione che Milano riserva ai commercianti falliti, dove si ritrovano a bere l’acqua presa da un pozzo che raccoglie anche i rifiuti organici degli altri carcerati. I due ne escono assolti qualche mese dopo, ma il Meda è costretto a letto da una violenta infezione intestinale.

Primavera 1598. Ancora una volta la piena dell’Adda distrugge gran parte del lavoro fatto. I prefetti inviano in ricognizione gli ingegneri Barca e Rinaldi e questi scaricano tutta la responsabilità dei guasti sulle spalle di Meda, sebbene lui avesse già riparato i danni con soldi suoi, presi a prestito. Credendo solo a Barca e Rinaldi, gli interessati giudici contestano i termini di consegna del lavoro finito e condannano il Meda a restituire i soldi esborsati dall’erario. Senza più beni al sole e cacciato dal padrone di casa, Meda ritorna in prigione.

Marzo 1599. L’ing. Francesco Romussi, subentrato a Meda per volere del Tribunale di Provvisione, visita i lavori del Naviglio e il 7 maggio invia una relazione dichiarandosi in sintonia con il progetto di Meda. Questi viene scarcerato, ma la sua malattia intestinale, aggravatasi in prigione, ben presto lo porta alla morte.

L’anno dopo (1600) gli ing. Bisnati, Campanazzo e Turati rendono possibile la navigazione tra il Sasso San Michele e (quasi) la prima conca. L’euforia dura poco: nel 1602 le ruberie e l’incuria faranno decidere per la sospensione dei lavori. Nel 1617 Bisnati torna per interrare il canale e vendere i materiali inutilizzati.

Anno 1750. Quando ormai il Naviglio di Paderno, sepolto dalle erbacce, non è più visibile neppure dall’alzaia, tale Pietro Banfi avanza un progetto di riapertura, seguito in questo (1758) da Antonio Rusca da Lugano, che propone di allungare il canale e di mettervi tre conche. Nel 1761 Dionigi Maria Ferrari propone al conte Carlo di Firmian di riprendere l’opera ideata da Meda. Firmian annuisce e nel 1773 fa bandire l’appalto per la costruzione del Naviglio di Paderno. All’appello rispondono sia l’abate Lecchi, che rispolvera il progetto Missaglia del 1518 con dieci conche, sia il tedesco Robert Spalart, che idealizza un canale ex-novo. L’intelligente Firmian ritiene che sia meglio tenere lontani gli ingegneri dal Naviglio e ne affida la realizzazione ad un imprenditore, il comasco Pietro Nosetti. Il brav’uomo si mette all’opera e tra il 1773 e il 1777 porta a termine il compito affidatogli, realizzando un canale più lungo, con sei conche, abbassando a 6 metri d’altezza l’audace Conca Grande (18 m) di Meda.

Epilogo: navigando da Brivio fino all’incile ai piedi della Rocchetta, l’11 ottobre 1777 l’arciduca Fernando d’Asburgo Este inaugura il Naviglio di Paderno, ma anche, seppur inconsciamente, il monumento acqueo dedicato a Giuseppe Meda, un Grand’Uomo intelligente e onesto, quindi “giustamente” da dimenticare.

© testo e foto di Giancarlo Mauri

lo Sperone dei Francesi

incile a monte

località Tre Corni


qui vi era la prima conca del Meda, alta 6 m




la Rocchetta

qui il Meda costruì la seconda conca, alta 18 m

le conche del Nosetti


l'incile a valle

una rara copia della Capitulatione del 1580

pianta della prigione della Malastalla di Milano