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domenica 22 gennaio 2017

Metti una sera a Guwahati


Questa storia è datata 1982, l’epoca di mezzo del mio periodo indiano. A Roma, il Consolato della Repubblica indiana mi aveva assicurato che avrei potuto mettere piede nel Nagaland, lo Stato ai confini con la Birmania-Myanmar. Anzi, erano andati oltre la promessa, autorizzandomi ad acquistare in Italia il biglietto del volo interno che mi avrebbe portato in quei luoghi da me tanto desiderati … perché interdetti ai turisti stranieri.
Una volta a Delhi, una visita al Ministero degli interni subito mi raggela gli ardori: per loro il Nagaland è e resta forbidden area, terra proibita. Mostro i biglietti aerei acquistati in Italia, il burocrate fa spallucce: qui la musica la scrivono e la suonano loro.
Non demordo: il 21 dicembre sono all’aeroporto di Delhi, voli nazionali. Al momento del chek-in il funzionario ha dei dubbi e chiede l’intervento di un suo superiore e questi, per non creare inciampi alla sua carriera, altro non sa fare che negarmi l’imbarco. Io non sono d’accordo e chiedo ed ottengo un colloquio col responsabile più alto in grado, dal cui ufficio esco solo dopo aver raggiunto un compromesso: niente Nagaland, ma potrò viaggiare fino e non oltre Guwahati, la capitale dell’Assam. Di natura pragmatico, faccio buon viso a cattivo gioco: dopo tutto non mi è andata poi male, visto che in quegli anni Guwahati e l’Assam non erano posti facilmente concessi agli stranieri. Aggiungo: a Guwahati sorge l’unico tempio tantrico esistente al mondo e questo è già un fatto di notevole importanza.

A Guwahati, presa una stanza in un sordido albergo nel cuore del bazaar - col pavimento e le pareti ricche di piccola fauna locale - decido di non perdere tempo e subito m’incammino in direzione del Neel Parvat, la collina su cui sorge il tempio di Kamakhya, uno dei luoghi più sacri dell’India. Leggenda vuole che dal cosmo qui cadde il “reperto” più importante del sacro corpo di Satì, la dea affettata in 51 pezzi dal chakra Sudarsan, l’affilato disco lanciato da Visnu allo scopo di porre fine al dolore di Shiva, ipocritamente sconvolto per il suicidio sul rogo della sua prima moglie, la Madre Terra che da morta assume l’epiteto di Satì, Virtuosa. Di fatto, agitandosi come un folle, Shiva stava creando gravissimi problemi all’equilibrio del nostro pianeta, minacciando di portarlo alla distruzione. Sì, perché se la Terra fosse schizzata nello spazio, tutti i suoi abitanti sarebbero morti, sacerdoti inclusi. E senza i sacerdoti - gli unici capaci di mantenere in vita gli dèi tramite i riti e le offerte sacrificali - anche i divini sarebbero morti, al pari dei comuni mortali. Da qui la loro preoccupazione...
Cadendo al suolo, i 51 pezzi del corpo di Satì crearono il presupposto per la costruzione di 51 sacri luoghi di pellegrinaggio, di cui il Neel Parvat di Gauhati (oggi Guwahati) è di certo il più importante, dove si venera lo Yoni Mudra, la vulva di Satì. Altra leggenda vuole che questo tempio sia stato costruito da Kamdev, il dio della lussuria che Shiva aveva ridotto in cenere per aver ostacolato la sua meditazione nella foresta. In seguito, Kamdev venne a patti col suo distruttore: se tu mi ridai la vita io costruirò un tempio a ricordo di Satì-Parvati e questa è l’origine del nome Kamakhya o Kamrup.
Varcare la soglia del recinto sacralizzato ed entrare in un macello è tutt’uno: ovunque vi sono fedeli che tengono al laccio i capri da portare al luogo del sacrificio, dove vi sono dei rettangoli scavati nel suolo, con due legni verticali separati tra di loro quanto basta per introdurvi la testa della vittima - oggi i capri e i buoi, ma un tempo non mancavano gli uomini che si offrivano volontariamente. Un assistente del boia prende il capro per le terga, tirandolo così che il collo resti ben teso. Il sacrificante lascia cadere la mannaia e il corpo, separato dalla testa, cade riempiendo di sangue il rettangolo.
Come una catena di montaggio, appena il sangue di un capro è defluito attraverso i fori di scarico ecco pronto il suo successore: la Madre Terra deve restare sempre umida e madida di sangue e la ragione è subito spiegata. La dea primordiale - Kali (la “nera”) - è qui vista come una figura della Madre Terra e come tale (come femmina) deve essere sempre umida e mestruata, sinonimo del suo periodo di fertilità, situazione indispensabile per produrre frutti, erbe e raccolti utili a mantenere in vita le masse contadine e le caste parassite.
Più addentro, locali appositi sono dedicati al rito vero e proprio, dove i sacerdoti del Tempio - previa preparazione psicologica - usano stendersi sulla schiena permettendo così alle donne in età fertile di portarsi sopra di loro, i piedi a lato dei fianchi, per poi calarsi in modo che il sesso eretto del sacerdote officiante entri nella vagina della postulante. Il cosiddetto “smorza candela”, per intenderci. Ovviamente, il tantrismo prevede che il sacerdote non partecipi emotivamente e il rituale esclude in modo assoluto l’eiaculazione.

A margine di quanto fin qui descritto, trovo il modo di fermarmi a discutere con alcuni sacerdoti circa le origini buddhiche del tantrismo arcaico, del suo perché e dei suoi percome. In una sala il mio occhio cade sull’immagine della dea Kali che calpesta il corpo emaciato e prossimo alla morte di Shiva. Chiedo loro di spiegarmi le vere ragioni di questo simbolismo e qui nasce un vivace diverbio: chi mi dice una cosa, chi mi racconta dell’altro, ma nessuno riesce ad andare oltre i limiti dell’interpretazione sempliciotta da dare in pasto al popolo fedele. Capisco che sono di fronte a pujari che poco o nulla sanno - del resto è stato proprio un teologo indiano a scrivere che “chi non sa fare nessun mestiere ...accetta di fare il prete” ([1]) -, quindi racconto la mia versione, frutto di anni di studi e ricerche antropologiche. Ora sono i pujari a chiedermi una cortesia: adesso hanno da fare, mi dicono, non è che potrei tornare dopo cena, a tempio chiuso? Certo che posso e così è stato.
Alcune ore dopo torno a varcare la porta del tempio, dove degli uomini di bianco vestito - quindi non dei semplici pujari - mi accompagnano nella stanza col ritratto di Kali intenta a calpestare Shiva. Ci sediamo per terra in circolo e inizia il nostro colloquio. Alla fine dell’istruttivo dibattito seguito alle mie argomentazioni - e prima di accomiatarmi - chiedo se posso scattare una foto ricordo. Avuta risposta positiva, mi alzo, appoggio la fotocamera su di uno sgabello, attivo l’autoscatto e veloce riprendo la posizione.

Poi ...la mano lunga del destino è sempre in agguato: tre giorni fa sono in cantina deciso a scoprire cosa contengono alcuni scatoloni mai aperti dal tempo dell’ultimo trasloco. Due di essi si rivelano saturi di libri, documenti e fotografie. Li porto in casa e comincio a spulciare e che ti trovo? la fotografia (ricavata da una diapositiva) di quella sera a Guwahati, nel tantrico tempio di Kali. È in allegato.
In una seconda scatola, piena di libri e libretti portati dai miei tanti viaggi in India, ecco riaffiorare lo smilzo opuscolo - 12x17 cm, 37 pagine - da me acquistato a Guwahati (donation: Rs 2 only), arricchito da alcune illustrazioni.

Com’è finita questa esperienza in Assam è cosa da me già raccontata più volte. Dopo un viaggio ai confini col Bhutan, al mio rientro a Guwahati mi attende la carlinga di un vecchio Fokker ad elica. Chiusa la porta con del filo di ferro, il velivolo lascia l’Assam puntando a Calcutta (o Kolkatà, come si dice in loco). Su di un sedile trovo una vecchia rivista, la apro e mi metto a leggere. Un breve articolo è dedicato all’arcaico culto di Aiyanar. Colpo di fulmine. Metto la rivista nello zaino e una volta a casa questo “fortuito incontro celeste” darà vita ad altri viaggi e ad altre esperienze, ricercando gli ultimi seguaci di questo antichissimo culto che riporta alla prima figura antropomorfa di un dio sceso sulla Terra: il sasso nero infisso nel terreno, ovvero il fallo del dio procreatore - nero perché purificato dal fuoco - nell’atto di fecondare la Madre Terra. Nei secoli le teologie dominanti lo trasformeranno nel lingam di Shiva infisso nella yoni della sua paredra …ma anche, mutate mutandis, nelle nostrane pietre nere protettrici dalle febbri e nelle “madonne nere” di medievale retaggio. Ma questa è tutta un’altra storia - e chi vuole, su internet può trovare i miei scritti su Aiyanar, su Satì e altro ancora sull’India coi suoi miti e i suoi riti.

[1] “Normally only such person who are unable to find any worthwhile employment outside accept the job of priests.” Devender Nath Lungani, Complete Hindu Thought, Shri Krsnarpan Seva Sansthan, New Delhi, 2000.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI

per le fotografie da me scattate
nel tempio di Kamakhya Kamrup
rinvio al post Tantra
del 12 febbraio 2021






Finisce qui? Certo che no. Molti anni dopo, all’interno di una libreria antiquaria di Amsterdam trovo un volume sulle popolazioni Naga, illustrato con molte fotografie scattate tra gli anni 1873 e 1947. Visto, piaciuto, acquistato. Oggi ho passato allo scanner alcune di quelle immagini, le ho ridotte in formato web …ed eccole qui, in ordine cronologico.
Aggiungo: dal mio viaggio a cavallo tra il 1982 e il 1983, di cui sopra ho succintamente raccontato alcuni passaggi, non sono tornato con le mani vuote. Anche se non ho mai amato saccheggiare i tribali che mi hanno ospitato, una coperta Naga “da uomo” si era resa necessaria per coprirmi nelle giornate più fredde. E una coperta Naga “da uomo” dal 1982 in poi rallegra la mia casa, talvolta stesa sul divano, il più delle volte sulla chaise-longue che utilizzo per la lettura. Due sue fotografie chiudono questa serie di immagini.

























venerdì 5 giugno 2015

St-Gilles-du-Gard


A maggio, di primo mattino il visitatore ha il sole di fronte e per godere della visione dell’abbaziale di Saint-Gilles-du-Gard aiuta lo stretto passaggio che porta alla Maison Romane, struttura museale che una tradizione vuole sia stata la casa natale di Guy de Foulques, il Guido Fulcodi che resse la Chiesa romana dal 1265 al 1268 col nome di Clemente IV.

San Gilles: già il nome è tutto un programma. La storia c’insegna che il meridione francese mai fu evangelizzate dai vescovi inviati da Roma, bensì dal clero greco ortodosso, lo zoccolo duro su cui si è costruita nei secoli la Chiesa gallicana, e già questo spiega l’origine del mito di san Trophime di Arles, il protovescovo che la leggenda vuole sia stato unto direttamente dall’apostolo Pietro e da questi inviato a convertire le masse pagane del Sud della Gallia. Ma noi sappiamo che un san Trophime storico non è mai esistito e quindi sorvoliamo su queste baruffe tra galli interessati a godere le ricche prebende del grasso pollaio.
Si aggiunga: dalla lettura dei testi agiografici, dunque a lui favorevoli, si apprende che Trophime sarebbe morto tra l’anno 270 e l’anno 275 - e qui la storia dell’unzione dalle mani di san Pietro va a farsi benedire, in tutti i sensi.


Decisamente intrigante è l’analisi del nome: guarda caso, Gilles viene dal greco e significa l’Egeo, il greco, un nome a sua volta derivato da quello della capra, potente antenato simbolico: aiks quando è soggetto, aigos quando è complemento di nome. Il diminutivo è aigidion che diventa aegidius nel latino medievale. Uno degli appellativi degli antichi greci era Egei - figli della capra e chi si occupa di religiosità arcaica ben conosce che in Occidente i “capretti” erano una delle quattro tribù attiche primitive, così come lo stesso nome si ritrova nell’espressione “essere sotto l’egida di qualcuno”, dove l’egida indica la corazza protettiva in forma di mantelletto di capra con al centro la testa della Gorgone, che nella mitologia greca era portata in battaglia da Atena, da Zeus e da altri dèi.[1]
Vecchie storie, che riportano ai miti dell’Oriente: quante strutture religiose da me visitate tra la Svanezia e le terre tibetane portano all’esterno e/o all’interno le corna della capra o dell’ibex, il simbolo sacro per eccellenza? Ancora: in Svanezia, terra di sicura fede cristiana, le chiese più antiche, da cercare sui monti, non sono mai quadrate o rettangolari bensì rotonde - come lo sono le tende abitate - significando con ciò che entrare in chiesa è un tutt’uno coll’entrare nel grembo generativo della Madre che tutti nutre. Le più antiche tra le strutture rimaste presentano due giri di mura: il fedele deve dapprima deambulare in senso orario all’esterno, poi nel corridoio tra le due mura, infine può entrare nel cerchio sacro, dove sopra l’altare non vi è la statua di una vergine o un uomo crocifisso ma un bel paio di corna di caprone, il fecondatore. Questo spiega la ragione per cui in queste chiese possono entrare solo gli uomini - e mai in un numero superiore a sette: potenza dei numeri sacri! -, mentre le donne devono limitarsi al giro delle mura esterne e sostare di fronte alla porta. Il perché di questa proibizione è subito spiegato: è il maschio - il montone, l’ibex, l’uomo - che feconda, quindi solo i maschi possono/devono entrare. Un’esperienza importante, perché riporta al cristianesimo arcaico adottato dal mondo rurale, privo delle pesanti sovrastrutture dei riti e dei dogmi teologici imposti nei secoli successivi.
Chi è interessato al tema della capra - e non solo - consiglio vivamente la lettura de Gli indù, prezioso libro firmato da Wendy Doniger - un nome, una garanzia - tradotto da Anna Bertolino e pubblicato nel 2015 da Adelphi nella collezione Il ramo d’oro.





[1] Si veda il Vocabolario della lingua italiana dell’Istituto Treccani, II, D-L, p. 224, mentre altre informazioni locali le riprendo da San Gilles. L’abbatiale romane di Jean-Marie Marconot, RIRESC-recherches sociales, 2008.


Gilles, il greco, il figlio della capra.[1] Corro il rischio di ripetermi, ma il pensiero mi riporta ad alcune delle mie esperienze vissute deambulando, il più delle volte solitario, tra i monti dell’Himalaya indiano e nepalese per condividere vita miti e riti delle popolazioni abitanti le terre ai confini politici col Tibet, oppure vagando per il Caucaso o tra le vallate dell’America latina e le lande desertiche dell’Africa mediterranea, inseguendo i miti più antichi, dove il culto per le vergini dee madri, le pietre nere e i serpenti mi hanno insegnato l’importanza dell’intersecazione dei simboli forti delle corna col legno e col ferro. Sì, perché l’arcaico senso del sacro pretende che i templi debbano essere costruiti soltanto col legno del cedro, l’albero sacro in assoluto, e che il ferro sia l’unico metallo da utilizzare nei riti sacri. Più sacra ancora - retaggio mnemonico della scoperta che il fuoco si poteva utilizzare anche per nutrirsi e difendersi - è la pietra nera, quella rimasta a diretto contatto con la fiamma, quindi da questa resa pura. Aiyanar, il sasso nero infisso a mo’ di pene eretto nella Madre Terra, primo concetto antropomorfo di una divinità che mente umana ricordi, insegna. Non pochi millenni dopo arriveranno le madonne nere.
Restando al legno e al ferro, la teologia cristiana si è adeguata trasformando il padre putativo del Messia (Xristòs, in greco) da carpentiere (muratore, costruttore - masson in francese, termine adottato dai fratelli muratori o massoni) in falegname e facendo morire il Figlio inchiodato con tre chiodi di ferro a una croce di legno. Ancora una volta l’India precede i miti e i riti: migliaia di anni prima di Cristo un’altra divinità, Krisna (nome dalla radice simile a Xristòs), aveva vissuto una vita che ricorda sia quella Mosè che quella di Gesù: una madre vergine resa gravida dal verbo divino; la profezia che da lei nascerà il nuovo re destinato a spodestare il tiranno sul trono; l’abbandono del neonato, posto in una cesta di vimini lasciata trasportare dalla corrente del fiume; il suo ritrovamento da parte di una famiglia di pescatori, mentre sull’altra sponda imperversa la strage degli innocenti; una vita vissuta in famiglia, salvo emergere pubblicamente negli ultimi anni della sua breve esistenza, conclusa immolandosi per la redenzione del suo popolo, trafitto da tre frecce ad un albero. Una storia, questa, che aveva toccato il cuore delle tribù dei vaccari abitanti sulle terre bagnate dalla Yamuna, nel regno di Mathura.

Torno a san Gilles. Come ho già scritto, la Chiesa gallicana è stata fondata dai Greci, commercianti ed artigiani, ed è rimasta a lungo di rito orientale prima d’essere condotta alla chiesa latina soggetta al potere del vescovo di Roma e i monaci di Provenza in questo hanno avuto una loro importanza. A Costantinopoli, nel 402 il marsigliese Jean Cassien conosce Giovanni Crisostomo e i monasteri poi da lui aperti a San Victor di Marsiglia e sulle isole di Lérins ne risentono non poco: la loro resistenza alle novità apportate da Agostino l’Africano sono celebri. È un periodo dove il dissidio tra Oriente e Occidente è forte, tanto che nella diocesi di Arles il futuro san Césaire impone la predicazione ai preti “secondo i luoghi”, riservando ai soli vescovi il rituale romano.





[1] Dal Dizionario dei santi, UTET-TEA1989: Egidio. Ateniese, secondo la tradizione sarebbe passato in Francia tra i sec. VII e VIII, ed avrebbe fondato a Nîmes il monast. Benedett. dei Ss. Pietro e Paolo, presso il quale sorse poi la città di St. Gilles (forma franc. di E.). tra i Santi più noti e venerati del Medioevo (uno dei così detti Ausiliatori), ebbe in Roma 2 chiese. Festa 1/9.
Dal Dizionario Oxford dei santi di David H. Farmer, Franco Muzzio1987, traduzione di Luigi Zappalà: Egidio (Ægidius) (m. c. 710), eremita. Ciò che si conosce di questo santo, divenuto estremamente popolare nel Medioevo, è che nacque all’inizio del VII secolo e che fondò un monastero, nel luogo successivamente chiamato Saint-Gilles (Provenza), sulle terre donategli dal re Wamba. Il sepolcro divenne un importante centro di pellegrinaggio, anche perché situato sulla strada per Compostela e per la Terra Santa. Secondo una leggenda del X secolo (un insieme di prestiti da altre Vite) era nato ad Atene ed era diventato eremita alle foci del Rodano, non lontano da Nîmes, dopo essere stato attirato in quella regione dalla fama di Cesario di Arles. Durante una partita di caccia re Wamba stava inseguendo una cerbiatta: l’animale cercò rifugio presso Egidio nel momento in cui il re stava lanciando una freccia che andò, così, a colpire l’eremita, rendendolo zoppo. Un’altra leggenda narra che un imperatore (erroneamente identificato con Carlomagno) si fosse recato da Egidio per ottenere il perdono di un peccato che non aveva osato confessare; il giorno successivo, mentre diceva messa, Egidio apprese da un pezzo di carta scritto da un angelo la natura del peccato in questione: le preghiere del santo furono efficaci a tal punto che le lettere, a una a una, scomparvero dalla carta. Verso gli ultimi anni della sua vita Egidio andò a Roma e offrì al papa il monastero che aveva fondato (ottenendo, in questo modo, privilegi e protezione); il papa gli fece dono di due porte in legno che il santo gettò in mare e che il mare trasportò fino ad una spiaggia vicino al suo monastero. Dalla Provenza (chiamata provincia Sancti Aegidii) il culto di Egidio si diffuse per l’Europa, soprattutto per merito dei Crociati. Alla sua popolarità contribuì notevolmente la protezione di zoppi, lebbrosi e balie (quest’ultima credenza si basava sulla leggenda che raccontava dell’aiuto dato alla cerbiatta), e la supposizione che l’invocazione del santo fosse così efficace da rendere superflua la confessione auricolare dei suoi protetti. In Inghilterra erano dedicate a lui 162 chiese antiche e almeno 24 ospedali. Le chiese più famose in Gran Bretagna sono St. Giles ad Edimburgo e St. Giles, Cripplegate, a Londra. La sua festa era celebrata in tutti i monasteri benedettini e in larga parte d’Europa. Nelle rappresentazioni artistiche è raffigurato come un semplice abate con il bastone pastorale; esistono anche cicli della sua vita (nelle vetrate risalenti al XIII secolo a Chartres ed Amiens e negli affreschi della cripta di Saint-Aignan-sur-Cher) e immagini di avvenimenti che riguardano la protezione data alla cerbiatta (mensola dello stallo nella cattedrale di Ely) o la Messa di Sant’Egidio (National Gallery, Londra).
La diffusione della venerazione per il santo non impedì la decadenza del centro di culto, avvenuta nel tardo Medioevo, quando diminuirono le offerte fatte al sepolcro, principale fonte di sostentamento dei monaci. La comunità cercò di ristabilire le entrate con straordinarie esposizioni delle reliquie e con indulgenze papali. Almeno due famose fiere inglesi sono in relazione alla festa di Egidio: una, a Winchester, che ormai non si tiene più; l’altra a Oxford, che ha perso i connotati originali di compra-vendita dei prodotti locali ed è stata trasformata in luna-park. In Germania, alla fine del Medioevo, Egidio venne riconosciuto come uno dei quattordici santi protettori.
Le chiese a lui consacrate sorgono spesso nei pressi di incroci stradali: «i viaggiatori potevano visitarle mentre i loro cavalli venivano ferrati dai fabbri delle vicinanze, anch’essi protetti dal santo». Festa: 1° settembre.



La Vita scritta da Jean Stilting ci informa che Gilles è nato ad Atene verso l’anno 640, che i suoi genitori sono ricchi e che lui ha frequentato buoni insegnanti; che verso il 660 lascia la Grecia e che verso il 684 incontra a Toledo il re dei Visigoti. Apprendiamo anche che la sua santità è precoce: come il Cristo anche Gilles guarisce gli epilettici, i malati e salva le flotte dal mare in tempesta (in Francia, le onde grosse del mare sono anche dette chévres intese come le capricciose, quelle che saltano). L’imitazione continua: Gesù cammina sulle acque del lago di Galilea? Anche Gilles usa lo stesso metodo per andare velocemente a Roma e subito rientrare ad Arles.
Alla morte dei suoi genitori Gilles regala tutti i beni ereditati ai poveri e deciso a vivere una vita eremitica e non desiderando per sé alcuna dignità ecclesiastica, trova rifugio nella foresta “gotica” - terreno di caccia riservato al re dei Visigoti - che occupa il territorio dell’attuale comune di Saint-Gilles-du-Gard, a quel tempo bagnato dal mare.

Più sopra ho citato l’arrivo dei cacciatori e questo ha a che fare con la sua decisione di farsi sacerdote. Nella foresta, Gilles è l’amico degli animali: le cerbiatte gli offrono il loro latte, i cervi si lasciano accarezzare, i cani furiosi si placano di fronte a lui. Storie che Lamartaine metterà in versi nel suo poema Jocelyn, dove la Provvidenza insegna agli eroi
«À ravir le chevreau pendant qu’il tette encore,
Pour que sa mère aussi vienne, au cri de sa faim,
Tendre pour le nourrir sa mamelle à la main.»
Ed è per proteggere la sua cerbiatta prediletta dalle frecce scagliate dai cacciatori del re che Gilles resta ferito. Il re Wamba ritiene che il dono di un terreno sia il giusto compenso per il danno subito, ponendo una condizione: su quella terra vi sia costruita un’abbazia, condizione che obbliga Gilles ad accettare la tonaca di abate.
Intorno al 700 i Saraceni invadono queste lande e distruggono la primitiva abbazia. Provvede Carlo Martello a sconfiggere i mauri e a ricostruire la struttura monastica con una chiesa dedicata a san Pietro e agli apostoli. La dedicazione non è casuale: capita l’antifona, Gilles prende le distanze dalla Chiesa greca di Arles e pone i suoi monaci sotto la doppia protezione del vescovo di Roma e dei sovrani di Francia.
Vissuto a lungo per i suoi tempi, l’Egeo - figlio della capra, mago e grande conoscitore di erbe, muore attorno agli anni 721-725.


Per la città che porta il nome del santo altre date importanti sono:
- 817: il Concilio d’Aix la Chapelle riconosce “il monastero di S. Gilles nella valle flavienna” (Flavien era il nome che si dava il re dei Visigoti).
- Tra il 900 e il 1000: viene redatta la Vie de S. Gilles, testo che ha saputo mantenere il ritmo tipico della tradizione orale (scrivere come si parla).
- 1046: un documento officiale cita le sedi dei quattro grandi pellegrinaggi di quel tempo: “tanto le chiese della beata Maria e di san Pietro a Roma, che di S. Giacomo e di S. Gilles”.
- 1066: Almodis, la madre di Raymond IV affilia Saint-Gilles a Cluny, ma Roma mantiene i privilegi dell’abbazia (cfr.: la bolla d’Innocenzo II del 1132).
- 1116: le tre vecchie chiese sono distrutte e al loro posto sorge l’abbazia attuale, ricca di testimonianze dei tempi vissuti, con ispirazioni celtiche, romane, provenzali, bizantine e talvolta arabe, mentre le sculture del portale evidenziano l’influenza dell’Apocalisse giovanneo, arricchito dalle figure di animali tipici della foresta abitata da Gilles, ma anche (e soprattutto) dei legami esistenti tra i mitologici animali mostruosi che terrorizzavano queste terre, bestie immancabilmente domate dai santi della Chiesa romana.
- 1138 o 1139: Pierre de Bruys, accusato di eresia, viene bruciato vivo sul piazzale antistante la chiesa di Saint-Gilles. A questo crimine - come sempre approvato e impunito - faranno seguito la crociata contro i Catari, le epidemie di peste, le guerre di religione, la Rivoluzione del 1793, che tanti danni arrecheranno alla popolazione e alla struttura artistica.
- 1842: l’abbazia viene classificata monumento storico.
- 1865: Henry Revoil, architetto diocesano, ritrova nella chiesa inferiore la lapide tombale di sant’Egidio. Sebbene gli scarsi reperti ossei indicati come quelli di Gilles siano già dal 1562 a Toulouse, chiesa di Saint Sernin, i pellegrinaggi alla vuota tomba del santo riprendono.


© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri
NOTA: per altre immagini inerenti al tema rinvio a
Il Tempio di Lanleff

 
Timpano nord: l'Epifania, la manifestazione di Cristo

Fregio superiore, lato sinistro

Timpano centrale:
la parusia, il ritorno di Cristo alla fine dei tempi

Fregio superiore, lato destro

Timpano sud: la morte gloriosa di Cristo sulla croce

L'arcangelo Michele

Matteo, Bartolomeo, Tommaso e Giacomo minore

Giovanni e Pietro

Giacomo il maggiore e Paolo

Quattro apostoli non identificati

Donna con vesti d'arcangelo (vestita di sole)

Leone che divora un uomo

Un caprone tiene testa a un leone

Le scimmie legate e il dromedario

Leone che divora un leone

I due sacrifici di Caino e di Abele

Caino uccide Abele

Leoni divoranti

Leoni divoranti, dettaglio

Leoni divoranti, dettaglio

David, il pastore musicista

Centauro che caccia - e un cervo

Chimera o Sansone - a dx un leone (sic!) che allatta

Davide decapita Golia

Orsi portanti

Orsi portanti

Atlanti

Atlanti

Leoni divoranti

Un leone divora un uomo




Mura del lato nord dell'abbaziale

I resti del vecchio coro

La scala a chiocciola

Sarcofagi romani

I resti del vecchio coro