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venerdì 5 giugno 2015

St-Gilles-du-Gard


A maggio, di primo mattino il visitatore ha il sole di fronte e per godere della visione dell’abbaziale di Saint-Gilles-du-Gard aiuta lo stretto passaggio che porta alla Maison Romane, struttura museale che una tradizione vuole sia stata la casa natale di Guy de Foulques, il Guido Fulcodi che resse la Chiesa romana dal 1265 al 1268 col nome di Clemente IV.

San Gilles: già il nome è tutto un programma. La storia c’insegna che il meridione francese mai fu evangelizzate dai vescovi inviati da Roma, bensì dal clero greco ortodosso, lo zoccolo duro su cui si è costruita nei secoli la Chiesa gallicana, e già questo spiega l’origine del mito di san Trophime di Arles, il protovescovo che la leggenda vuole sia stato unto direttamente dall’apostolo Pietro e da questi inviato a convertire le masse pagane del Sud della Gallia. Ma noi sappiamo che un san Trophime storico non è mai esistito e quindi sorvoliamo su queste baruffe tra galli interessati a godere le ricche prebende del grasso pollaio.
Si aggiunga: dalla lettura dei testi agiografici, dunque a lui favorevoli, si apprende che Trophime sarebbe morto tra l’anno 270 e l’anno 275 - e qui la storia dell’unzione dalle mani di san Pietro va a farsi benedire, in tutti i sensi.


Decisamente intrigante è l’analisi del nome: guarda caso, Gilles viene dal greco e significa l’Egeo, il greco, un nome a sua volta derivato da quello della capra, potente antenato simbolico: aiks quando è soggetto, aigos quando è complemento di nome. Il diminutivo è aigidion che diventa aegidius nel latino medievale. Uno degli appellativi degli antichi greci era Egei - figli della capra e chi si occupa di religiosità arcaica ben conosce che in Occidente i “capretti” erano una delle quattro tribù attiche primitive, così come lo stesso nome si ritrova nell’espressione “essere sotto l’egida di qualcuno”, dove l’egida indica la corazza protettiva in forma di mantelletto di capra con al centro la testa della Gorgone, che nella mitologia greca era portata in battaglia da Atena, da Zeus e da altri dèi.[1]
Vecchie storie, che riportano ai miti dell’Oriente: quante strutture religiose da me visitate tra la Svanezia e le terre tibetane portano all’esterno e/o all’interno le corna della capra o dell’ibex, il simbolo sacro per eccellenza? Ancora: in Svanezia, terra di sicura fede cristiana, le chiese più antiche, da cercare sui monti, non sono mai quadrate o rettangolari bensì rotonde - come lo sono le tende abitate - significando con ciò che entrare in chiesa è un tutt’uno coll’entrare nel grembo generativo della Madre che tutti nutre. Le più antiche tra le strutture rimaste presentano due giri di mura: il fedele deve dapprima deambulare in senso orario all’esterno, poi nel corridoio tra le due mura, infine può entrare nel cerchio sacro, dove sopra l’altare non vi è la statua di una vergine o un uomo crocifisso ma un bel paio di corna di caprone, il fecondatore. Questo spiega la ragione per cui in queste chiese possono entrare solo gli uomini - e mai in un numero superiore a sette: potenza dei numeri sacri! -, mentre le donne devono limitarsi al giro delle mura esterne e sostare di fronte alla porta. Il perché di questa proibizione è subito spiegato: è il maschio - il montone, l’ibex, l’uomo - che feconda, quindi solo i maschi possono/devono entrare. Un’esperienza importante, perché riporta al cristianesimo arcaico adottato dal mondo rurale, privo delle pesanti sovrastrutture dei riti e dei dogmi teologici imposti nei secoli successivi.
Chi è interessato al tema della capra - e non solo - consiglio vivamente la lettura de Gli indù, prezioso libro firmato da Wendy Doniger - un nome, una garanzia - tradotto da Anna Bertolino e pubblicato nel 2015 da Adelphi nella collezione Il ramo d’oro.





[1] Si veda il Vocabolario della lingua italiana dell’Istituto Treccani, II, D-L, p. 224, mentre altre informazioni locali le riprendo da San Gilles. L’abbatiale romane di Jean-Marie Marconot, RIRESC-recherches sociales, 2008.


Gilles, il greco, il figlio della capra.[1] Corro il rischio di ripetermi, ma il pensiero mi riporta ad alcune delle mie esperienze vissute deambulando, il più delle volte solitario, tra i monti dell’Himalaya indiano e nepalese per condividere vita miti e riti delle popolazioni abitanti le terre ai confini politici col Tibet, oppure vagando per il Caucaso o tra le vallate dell’America latina e le lande desertiche dell’Africa mediterranea, inseguendo i miti più antichi, dove il culto per le vergini dee madri, le pietre nere e i serpenti mi hanno insegnato l’importanza dell’intersecazione dei simboli forti delle corna col legno e col ferro. Sì, perché l’arcaico senso del sacro pretende che i templi debbano essere costruiti soltanto col legno del cedro, l’albero sacro in assoluto, e che il ferro sia l’unico metallo da utilizzare nei riti sacri. Più sacra ancora - retaggio mnemonico della scoperta che il fuoco si poteva utilizzare anche per nutrirsi e difendersi - è la pietra nera, quella rimasta a diretto contatto con la fiamma, quindi da questa resa pura. Aiyanar, il sasso nero infisso a mo’ di pene eretto nella Madre Terra, primo concetto antropomorfo di una divinità che mente umana ricordi, insegna. Non pochi millenni dopo arriveranno le madonne nere.
Restando al legno e al ferro, la teologia cristiana si è adeguata trasformando il padre putativo del Messia (Xristòs, in greco) da carpentiere (muratore, costruttore - masson in francese, termine adottato dai fratelli muratori o massoni) in falegname e facendo morire il Figlio inchiodato con tre chiodi di ferro a una croce di legno. Ancora una volta l’India precede i miti e i riti: migliaia di anni prima di Cristo un’altra divinità, Krisna (nome dalla radice simile a Xristòs), aveva vissuto una vita che ricorda sia quella Mosè che quella di Gesù: una madre vergine resa gravida dal verbo divino; la profezia che da lei nascerà il nuovo re destinato a spodestare il tiranno sul trono; l’abbandono del neonato, posto in una cesta di vimini lasciata trasportare dalla corrente del fiume; il suo ritrovamento da parte di una famiglia di pescatori, mentre sull’altra sponda imperversa la strage degli innocenti; una vita vissuta in famiglia, salvo emergere pubblicamente negli ultimi anni della sua breve esistenza, conclusa immolandosi per la redenzione del suo popolo, trafitto da tre frecce ad un albero. Una storia, questa, che aveva toccato il cuore delle tribù dei vaccari abitanti sulle terre bagnate dalla Yamuna, nel regno di Mathura.

Torno a san Gilles. Come ho già scritto, la Chiesa gallicana è stata fondata dai Greci, commercianti ed artigiani, ed è rimasta a lungo di rito orientale prima d’essere condotta alla chiesa latina soggetta al potere del vescovo di Roma e i monaci di Provenza in questo hanno avuto una loro importanza. A Costantinopoli, nel 402 il marsigliese Jean Cassien conosce Giovanni Crisostomo e i monasteri poi da lui aperti a San Victor di Marsiglia e sulle isole di Lérins ne risentono non poco: la loro resistenza alle novità apportate da Agostino l’Africano sono celebri. È un periodo dove il dissidio tra Oriente e Occidente è forte, tanto che nella diocesi di Arles il futuro san Césaire impone la predicazione ai preti “secondo i luoghi”, riservando ai soli vescovi il rituale romano.





[1] Dal Dizionario dei santi, UTET-TEA1989: Egidio. Ateniese, secondo la tradizione sarebbe passato in Francia tra i sec. VII e VIII, ed avrebbe fondato a Nîmes il monast. Benedett. dei Ss. Pietro e Paolo, presso il quale sorse poi la città di St. Gilles (forma franc. di E.). tra i Santi più noti e venerati del Medioevo (uno dei così detti Ausiliatori), ebbe in Roma 2 chiese. Festa 1/9.
Dal Dizionario Oxford dei santi di David H. Farmer, Franco Muzzio1987, traduzione di Luigi Zappalà: Egidio (Ægidius) (m. c. 710), eremita. Ciò che si conosce di questo santo, divenuto estremamente popolare nel Medioevo, è che nacque all’inizio del VII secolo e che fondò un monastero, nel luogo successivamente chiamato Saint-Gilles (Provenza), sulle terre donategli dal re Wamba. Il sepolcro divenne un importante centro di pellegrinaggio, anche perché situato sulla strada per Compostela e per la Terra Santa. Secondo una leggenda del X secolo (un insieme di prestiti da altre Vite) era nato ad Atene ed era diventato eremita alle foci del Rodano, non lontano da Nîmes, dopo essere stato attirato in quella regione dalla fama di Cesario di Arles. Durante una partita di caccia re Wamba stava inseguendo una cerbiatta: l’animale cercò rifugio presso Egidio nel momento in cui il re stava lanciando una freccia che andò, così, a colpire l’eremita, rendendolo zoppo. Un’altra leggenda narra che un imperatore (erroneamente identificato con Carlomagno) si fosse recato da Egidio per ottenere il perdono di un peccato che non aveva osato confessare; il giorno successivo, mentre diceva messa, Egidio apprese da un pezzo di carta scritto da un angelo la natura del peccato in questione: le preghiere del santo furono efficaci a tal punto che le lettere, a una a una, scomparvero dalla carta. Verso gli ultimi anni della sua vita Egidio andò a Roma e offrì al papa il monastero che aveva fondato (ottenendo, in questo modo, privilegi e protezione); il papa gli fece dono di due porte in legno che il santo gettò in mare e che il mare trasportò fino ad una spiaggia vicino al suo monastero. Dalla Provenza (chiamata provincia Sancti Aegidii) il culto di Egidio si diffuse per l’Europa, soprattutto per merito dei Crociati. Alla sua popolarità contribuì notevolmente la protezione di zoppi, lebbrosi e balie (quest’ultima credenza si basava sulla leggenda che raccontava dell’aiuto dato alla cerbiatta), e la supposizione che l’invocazione del santo fosse così efficace da rendere superflua la confessione auricolare dei suoi protetti. In Inghilterra erano dedicate a lui 162 chiese antiche e almeno 24 ospedali. Le chiese più famose in Gran Bretagna sono St. Giles ad Edimburgo e St. Giles, Cripplegate, a Londra. La sua festa era celebrata in tutti i monasteri benedettini e in larga parte d’Europa. Nelle rappresentazioni artistiche è raffigurato come un semplice abate con il bastone pastorale; esistono anche cicli della sua vita (nelle vetrate risalenti al XIII secolo a Chartres ed Amiens e negli affreschi della cripta di Saint-Aignan-sur-Cher) e immagini di avvenimenti che riguardano la protezione data alla cerbiatta (mensola dello stallo nella cattedrale di Ely) o la Messa di Sant’Egidio (National Gallery, Londra).
La diffusione della venerazione per il santo non impedì la decadenza del centro di culto, avvenuta nel tardo Medioevo, quando diminuirono le offerte fatte al sepolcro, principale fonte di sostentamento dei monaci. La comunità cercò di ristabilire le entrate con straordinarie esposizioni delle reliquie e con indulgenze papali. Almeno due famose fiere inglesi sono in relazione alla festa di Egidio: una, a Winchester, che ormai non si tiene più; l’altra a Oxford, che ha perso i connotati originali di compra-vendita dei prodotti locali ed è stata trasformata in luna-park. In Germania, alla fine del Medioevo, Egidio venne riconosciuto come uno dei quattordici santi protettori.
Le chiese a lui consacrate sorgono spesso nei pressi di incroci stradali: «i viaggiatori potevano visitarle mentre i loro cavalli venivano ferrati dai fabbri delle vicinanze, anch’essi protetti dal santo». Festa: 1° settembre.



La Vita scritta da Jean Stilting ci informa che Gilles è nato ad Atene verso l’anno 640, che i suoi genitori sono ricchi e che lui ha frequentato buoni insegnanti; che verso il 660 lascia la Grecia e che verso il 684 incontra a Toledo il re dei Visigoti. Apprendiamo anche che la sua santità è precoce: come il Cristo anche Gilles guarisce gli epilettici, i malati e salva le flotte dal mare in tempesta (in Francia, le onde grosse del mare sono anche dette chévres intese come le capricciose, quelle che saltano). L’imitazione continua: Gesù cammina sulle acque del lago di Galilea? Anche Gilles usa lo stesso metodo per andare velocemente a Roma e subito rientrare ad Arles.
Alla morte dei suoi genitori Gilles regala tutti i beni ereditati ai poveri e deciso a vivere una vita eremitica e non desiderando per sé alcuna dignità ecclesiastica, trova rifugio nella foresta “gotica” - terreno di caccia riservato al re dei Visigoti - che occupa il territorio dell’attuale comune di Saint-Gilles-du-Gard, a quel tempo bagnato dal mare.

Più sopra ho citato l’arrivo dei cacciatori e questo ha a che fare con la sua decisione di farsi sacerdote. Nella foresta, Gilles è l’amico degli animali: le cerbiatte gli offrono il loro latte, i cervi si lasciano accarezzare, i cani furiosi si placano di fronte a lui. Storie che Lamartaine metterà in versi nel suo poema Jocelyn, dove la Provvidenza insegna agli eroi
«À ravir le chevreau pendant qu’il tette encore,
Pour que sa mère aussi vienne, au cri de sa faim,
Tendre pour le nourrir sa mamelle à la main.»
Ed è per proteggere la sua cerbiatta prediletta dalle frecce scagliate dai cacciatori del re che Gilles resta ferito. Il re Wamba ritiene che il dono di un terreno sia il giusto compenso per il danno subito, ponendo una condizione: su quella terra vi sia costruita un’abbazia, condizione che obbliga Gilles ad accettare la tonaca di abate.
Intorno al 700 i Saraceni invadono queste lande e distruggono la primitiva abbazia. Provvede Carlo Martello a sconfiggere i mauri e a ricostruire la struttura monastica con una chiesa dedicata a san Pietro e agli apostoli. La dedicazione non è casuale: capita l’antifona, Gilles prende le distanze dalla Chiesa greca di Arles e pone i suoi monaci sotto la doppia protezione del vescovo di Roma e dei sovrani di Francia.
Vissuto a lungo per i suoi tempi, l’Egeo - figlio della capra, mago e grande conoscitore di erbe, muore attorno agli anni 721-725.


Per la città che porta il nome del santo altre date importanti sono:
- 817: il Concilio d’Aix la Chapelle riconosce “il monastero di S. Gilles nella valle flavienna” (Flavien era il nome che si dava il re dei Visigoti).
- Tra il 900 e il 1000: viene redatta la Vie de S. Gilles, testo che ha saputo mantenere il ritmo tipico della tradizione orale (scrivere come si parla).
- 1046: un documento officiale cita le sedi dei quattro grandi pellegrinaggi di quel tempo: “tanto le chiese della beata Maria e di san Pietro a Roma, che di S. Giacomo e di S. Gilles”.
- 1066: Almodis, la madre di Raymond IV affilia Saint-Gilles a Cluny, ma Roma mantiene i privilegi dell’abbazia (cfr.: la bolla d’Innocenzo II del 1132).
- 1116: le tre vecchie chiese sono distrutte e al loro posto sorge l’abbazia attuale, ricca di testimonianze dei tempi vissuti, con ispirazioni celtiche, romane, provenzali, bizantine e talvolta arabe, mentre le sculture del portale evidenziano l’influenza dell’Apocalisse giovanneo, arricchito dalle figure di animali tipici della foresta abitata da Gilles, ma anche (e soprattutto) dei legami esistenti tra i mitologici animali mostruosi che terrorizzavano queste terre, bestie immancabilmente domate dai santi della Chiesa romana.
- 1138 o 1139: Pierre de Bruys, accusato di eresia, viene bruciato vivo sul piazzale antistante la chiesa di Saint-Gilles. A questo crimine - come sempre approvato e impunito - faranno seguito la crociata contro i Catari, le epidemie di peste, le guerre di religione, la Rivoluzione del 1793, che tanti danni arrecheranno alla popolazione e alla struttura artistica.
- 1842: l’abbazia viene classificata monumento storico.
- 1865: Henry Revoil, architetto diocesano, ritrova nella chiesa inferiore la lapide tombale di sant’Egidio. Sebbene gli scarsi reperti ossei indicati come quelli di Gilles siano già dal 1562 a Toulouse, chiesa di Saint Sernin, i pellegrinaggi alla vuota tomba del santo riprendono.


© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri
NOTA: per altre immagini inerenti al tema rinvio a
Il Tempio di Lanleff

 
Timpano nord: l'Epifania, la manifestazione di Cristo

Fregio superiore, lato sinistro

Timpano centrale:
la parusia, il ritorno di Cristo alla fine dei tempi

Fregio superiore, lato destro

Timpano sud: la morte gloriosa di Cristo sulla croce

L'arcangelo Michele

Matteo, Bartolomeo, Tommaso e Giacomo minore

Giovanni e Pietro

Giacomo il maggiore e Paolo

Quattro apostoli non identificati

Donna con vesti d'arcangelo (vestita di sole)

Leone che divora un uomo

Un caprone tiene testa a un leone

Le scimmie legate e il dromedario

Leone che divora un leone

I due sacrifici di Caino e di Abele

Caino uccide Abele

Leoni divoranti

Leoni divoranti, dettaglio

Leoni divoranti, dettaglio

David, il pastore musicista

Centauro che caccia - e un cervo

Chimera o Sansone - a dx un leone (sic!) che allatta

Davide decapita Golia

Orsi portanti

Orsi portanti

Atlanti

Atlanti

Leoni divoranti

Un leone divora un uomo




Mura del lato nord dell'abbaziale

I resti del vecchio coro

La scala a chiocciola

Sarcofagi romani

I resti del vecchio coro

mercoledì 20 maggio 2015

Arles e la leggenda di Saint Trophime


Nel 2008, di passaggio a Marsiglia, mi è capitato d’inciampare (guarda il caso!) in un mercatino di libri usati. Per pochi euro mi sono portato a casa alcuni testi, tra cui uno davvero importante: Le peuple des saints, ovvero gli Atti di un convegno organizzato dall’Istituto di ricerche e di studi sul Basso Medio Evo Avignonese tenutosi dal 5 al 7 ottobre 1984. Gli oratori intervenuti sono tutti titolari di una cattedra universitaria, ma per un euro - il prezzo da me pagato per il libro - tutto si può sopportare.
Accantonata la facile battuta, devo subito ammettere che gli articoli sono molto interessanti, ricchi di rimandi e di note a piè di pagina. Nell’Introduzione, André Vauchez (Université Paris X - Nanterre) scrive:[1] “Terra di santi e di sante, ma anche di fedeli devoti ai servi di Dio, la Provenza può a buon diritto essere considerata una sorta di laboratorio in cui sono stati testati forme e formule originali di associazione tra di loro, sia a livello della pietà che delle sue espressioni artistiche. Uno dei risultati principali di questa ricerca collettiva è stato di mettere in evidenza le dimensioni comunitarie del culto dei santi. Alla fine del Medioevo e ancora nel XV secolo, questi sono stati raramente invocati da soli. La corte celeste o corte del paradiso, citata nei testi religiosi e rappresentata dalla iconografia del tempo, non è un mero modo di dire o la versione popolarizzata del dogma della comunione dei santi enunciata dalla Chiesa nel Credo. Si tratta di una realtà vissuta ed espressa in termini di intercessione, adorazione e di ringraziamento. Dio non è mai solo nell’arte del Medioevo, se non altro per la sua rappresentazione trinitaria a cui la Vergine, Madre ed Avvocata, è stata la figura più spesso associata. Ma il “popolo” intorno a lui non è lì solo per fare numero: non costituisce semplicemente una folla indifferenziata e la sua composizione varia secondo il luogo e il tempo: qui importano i santi del territorio o della città, quelli della diocesi o di un tal ordine religioso; là prevalgono intercessori più tradizionali o personaggio più solenni. Lo studio di questi piccoli “pantheon” particolari offre allo storico nuove prospettive e avrà il massimo interesse nell’approntare nuove ricerche partendo dalle “strutture di riferimento” elaborate da specialisti dell’iconografia e da essi applicate allo studio di pale d’altare e di polittici.”
Il libro non è ingombrante, pesa poco e quindi decido di riportarlo in terra di Francia introducendolo nella mia “biblioteca da viaggio”.

[1] Tutte le traduzioni dal francese sono opera mia - e di questo mi scuso fin d’ora coi fini puristi.



Lasciata la Fondation Maeght, per passare la notte la sosta è un must: Arles, hotel d’Arlatan, vecchio palazzo recentemente ristrutturato e calmierato nei prezzi dalla nuova gestione: non sempre il nuovo vien per nuocere. Deposte le valigie, fatta la doccia, rieccoci per la quarantesima volta davanti al portale della facciata occidentale di Saint-Trophime, pronto a scattare la millesima fotografia. Non so che dire: è dal 1970, anno della mia prima visita, che sono attratto da questa facciata, a mio avviso seconda solo a quella di Saint-Gilles-du-Gard. Me la sono goduta in ogni stagione, col sole e con la pioggia, col vento e con l’afa, sopportando i tralicci che dal 1989 al 1996 l’hanno ingabbiata per gli ormai inevitabili lavori di restauro, non dovuti al passare dei secoli quanto all’azione corrosiva delle piogge rese acide dalle sostanze chimiche immesse nell’aria dalle zone industriali di Berre, di Tarascon e della vallata della Rhône.[1] Temo di esserne innamorato, ma non chiederò inutili consigli a un pepsicologo. Ne sono convinto, ne sono contento e tanto mi basta.

Negli anni ho acquistato molti libri su Arles e i suoi reperti archeologici, ma più interessanti (per me) sono i testi che raccontano le antiche leggende. Conoscendo queste, si può comprendere quel che la Chiesa ha fatto suo, trasformando i pagani miti in redditizi riti. Partiamo dalla Rhône, l’acqua fluviale che bagna questa città, da sempre considerata “fiume dei morti”. Non amando spacciare per mia la farina del sacco altrui, mi è qui naturale proporre agli interessati la lettura dell’agile monografia Aspects de la mort à Arles de l’antiquité à nos jours, curata dal Groupe Archéologiques Arlésien, 2003.

[1] Volutamente utilizzo il termine francese anziché la trascrizione italiana “il Rodano”, perché nella civiltà arcaica tutto ciò che è liquido era naturalmente di genere femminile.



E veniamo alla figura fisica di san Trophime e alle tante reliquie che hanno fatto ricca la Chiesa episcopale di Arles. Una prima serie di scritti che rendono “cristiani” i morti tumulati ai Campi Elisi di Arles (poi noti come Aliscamps o più modernamente Alyscamps) comprende la Guide de pélerin de Saint-Jacques de Compostelle - pregevole falso storico che menziona la tumulazione ad Arles dei vescovi Trophime, Césaire, Honorat, Genies e di altri numerosi corpi di santi martiri e confessori. Peccato che dei primi secoli seguiti alla nascita del cristianesimo, del Mezzogiorno della Gallia noi disponiamo soltanto dei nomi dei partecipanti al concilio del 314 e dei concili successivi tenutisi sotto la dominazione merovingia a metà del VII secolo, dei testi delle rare Vite e delle ancor più rare iscrizioni funerarie, dove mai si menziona un martire - e in Gallia non ve n’è traccia, storicamente parlando.
Scrive Yves Bridonneau a pag. 7 del suo volumetto Naissance de la Provence chrétienne: “Per la Provenza, storicamente, nulla sappiamo prima del 254, anno in cui una lettera del vescovo Cyprien di Cartagine è indirizzata al vescovo di Roma, Cornelio, per chiedere la scomunica del vescovo Marcianus d’Arles. Nel 314 l’imperatore Costantino convoca ad Arles il primo concilio della Chiesa a cui partecipano sei chiese di Provenza: Marsiglia, Arles, Vaison che inviano i loro vescovi; Orange, Apt e Nizza, rappresentate dal clero di secondo rango. Il suo successore Costanzo II convocherà un altro concilio nel 354, sempre ad Arles. Questo è ben poco in tre secoli, ma lo stesso vale per la parte occidentale dell’Impero romano, per la Spagna e per l’Italia (Roma esclusa, ovviamente), dove le origini cristiane sono egualmente oscure.”[1]
Integra Régine Pernoud ne I santi nel Medioevo:[2]Ma già si affollano, nel corso dei giorni, «coloro che sono stati martiri per la loro vita più che per la loro morte». Avremo occasione di tornare sui primi personaggi così venerati a causa della loro vita. Quelli di cui san Gregorio Magno scriveva: «Benché non siano vissuti in un’età di persecuzione, per la pazienza con cui hanno sopportato gli agguati del nemico occulto, per il loro amore verso i nemici, per la resistenza che hanno opposto ai desideri della carne, nel segreto del loro cuore si sono immolati a Dio onnipotente e così, nonostante le condizioni di pace in cui sono vissuti, hanno veramente raccolto la palma del martirio». Opinioni ed espressioni spesso riprese e sviluppate, in particolare da sant’Isidoro di Siviglia. Tra questi personaggi stanno in prima fila i vescovi, coloro che per la loro comunità sono stati «dei padri nella fede».”

[1] Petite Bibliothèque Édisud, 2008.
[2] Traduzione di Anna Marietti, Rizzoli 1986, p. 16. - Titolo originale: Les saints au Moyen Age, Librairie Plon, Paris 1984.


Tra il V e il VI secolo nascono numerose leggende create ad uso e consumo del clero di Arles, intenzionato ad innalzare la sua Chiesa a livello di metropoli. Ed è in una di queste saghe che nell’anno 417 appare per la prima volta il nome di Trophime, sotto forma di un vescovo greco inviato da Roma ad evangelizzare le masse pagane. Una successiva versione della leggenda, datata attorno all’anno 450, rinforza il mito: fu addirittura l’apostolo Pietro in persona ad aver innalzato Trophime all’autorità vescovile, inviandolo in Gallia. Lo storico che studia i documenti, quindi coi piedi per terra e la testa non ancora in cielo, ha i suoi primi dubbi sia leggendo il De mysterio sancti Trinitatis - uno scritto attribuito a Césaire d’Arles ma ripreso e fatto suo da Grégoire di Tours - dove mai si cita l’esistenza di una Vita di Trophime (se mai ne è esistita una) sia setacciando i luoghi di culto antico, dove non vi è alcuna traccia del passaggio terrestre di questo santo vescovo.[1]
Il tempo scorre. In un manoscritto redatto attorno all’anno 972 un anonimo scrivano annota che i resti di san Trophime sono conservati ad Arles, nella basilica dedicata a santo Stefano, struttura di cui lo storico F. Benoit ha creduto di aver trovato tracce a nord-ovest di Saint-Honorat des Alyscamps. Purtroppo, nulla aiuta a definirne la sua data di costruzione e lo sviluppo delle leggende, amplificate dai pellegrinaggi medievali, invitano alla più grande prudenza.
Ad oggi la più antica Vita inerente un vescovo presente su questo territorio riguarda l’africano Marcellinus d’Embron, presunto evangelizzatore, nel IV secolo, delle popolazioni abitanti le Alpi Marittime, coadiuvato da Vincentius e Domninus.
Tra le successive Vite redatte in periodo carolingio, un po’ più attendibili paiono quelle inerenti i vescovati di Honorat (428-430), Hilaire (430-449) e Césaire (506?-542), anche se è giusto ricordare che queste agiografie sono datate decenni e decenni dopo la morte dei vescovi - anche secoli dopo - quando l’intromissione dei gesti di carità, dei pietistici sermoni e degli immancabili quanto improbabili miracoli non potevano essere contestati da alcun testimone oculare.
Successivi martirologi e successive Vite di vescovi santi (si noti che in Gallia essere vescovo ed essere santo è sinonimo) mai citano l’esistenza di Trophime,[2] ma il diritto a credere a ciò che non è provato e documentato si chiama fede e chi ha fede è giusto che creda a tutto ciò che vuol credere.
Tra la fine dell’VIII e per tutto il IX secolo prende piede la moda di redigere nuovi martirologi, dedicando ogni giorno dell’anno al culto di un santo, che esigenze di bottega locale rendono fatalmente variabile. Commenta Régine Pernoud:[3] “Ma il ciclo dei santi non tarda ad arricchirsi, e in tutti i libri liturgici, messali e libri d’ore in particolare, si attribuisce ormai una grande importanza al calendario - quel calendario di cui, nei monasteri, si dà quotidianamente lettura, nella sala capitolare, a tutti i religiosi o le religiose, e che oggi è un punto di riferimento per gli eruditi che devono datare un manoscritto o determinare il luogo in cui fu composto, e che a questo scopo esaminano le feste dei santi locali.” E aggiunge: “Come hanno preso possesso dello spazio, i santi hanno invaso il tempo. Le loro feste ormai ritmano l’esistenza; i calendari si sovrappongono, interferiscono, e registrano, nel corso dell’anno, tempi di arresto e di gioia imprevisti. […] Il calendario appartiene loro da un capo all’altro dell’anno; si sgranano come gli edifici sulla strada, ricordando quello che è considerato come il giorno della loro vera nascita, il giorno cioè in cui sono entrati in paradiso.”
Per completezza d’informazione, va qui ricordato che non solo il giorno dedicato all’ingresso in paradiso di un santo varia localmente, ma anche la data d’inizio dell’anno civile è mutevole. Il 1° gennaio tradizionale non ha valore assoluto: in Francia l’anno civile inizia a Pasqua; in Inghilterra il 15 marzo; molte regioni utilizzano il 25 marzo, secondo lo “stile dell’Annunciazione”; alcune regioni francesi preferiscono il 25 dicembre - e altre date ancora sono possibili.
Uguali per tutti restano poche date. Tra queste vi è il 24 giugno, giornata dedicata al culto dell’uomo selvatico, come ricordano le vesti che ricoprono Giovanni il battezzatore, rimembranza arcaica del ciclo semestrale dei sovrani che dovevano essere sempre giovani e forti - e sei mesi dopo, il 24 dicembre, vien fatto nascere il Cristo. Il cristianesimo al tempo dei contadini darà una diversa valenza a queste due date: il 24 giugno segna l’inizio del semestre buio, quello che porta verso l’inverno, la morte dei campi; il 24 dicembre, invece, segna l’inizio del semestre luminoso, quello che porta verso la primavera, la resurrezione dei campi.
Una seconda data fissa d’origine gallica è il 25 aprile: “Quando nel 470 san Mamerto, vescovo di Vienne (Delfinato), perché abbia fine una serie di calamità naturali - terremoti, inondazioni eccetera -, tenta di organizzare preghiere pubbliche, sono le litanie dei santi ad essere scelte, e poi mantenute; attraverso i tempi, costituiranno quelle preghiere chiamate «Rogazioni» che si prenderà l’abitudine di recitare ogni anno, e che segneranno la vita delle campagne in primavera - in generale il 25 aprile, San Marco.” Fin qui le spiegazioni di Régine Pernoud.
Aggiungo: molti secoli dopo, dovendo decidere che senso dare al termine parrocchia, si decise che ogni sacerdote poteva governare e vivere di rendita solo sul territorio che poteva essere deambulato nell’arco di 24 ore da una processione da svolgersi il giorno delle Rogazioni. In pratica, l’Occidente mette in pratica quello che in Oriente da oltre un millennio si chiama parikrama ovvero la deambulazione circolare in senso orario attorno ad un luogo sacro, fosse questi un tempio, una montagna, un lago, un dato territorio. Nel sacro poco s’inventa, tanto si ricicla.

Tra questi martirologi è per noi importante quello di Beda, morto nel 753, che sviluppa alcuni testi dove si riconosce la mano di un anonimo lionese, nonché le due aggiunte operate da Florus prima e dopo l’anno 837, scritti in seguito ripresi dal vescovo di Vienna, Adon, morto nell’875. Questo martirologio ci permette di farci un’idea globale, se non dei culti, dei mesi del calendario liturgico in uso nella valle del Rodano, dove apprendiamo per la prima volta che il 29 dicembre è il giorno dedicato al culto di Trophime, il mitico protovescovo a cui gli arlesiani dedicheranno, in coabitazione col protomartire Stefano, una cattedrale arricchita da un affascinante portale - senza per questo dimenticare il chiostro coi suoi meravigliosi capitelli.[4] “Ma qui occorre notare come i santi abbiano preso decisamente possesso delle città, dopo avere preso possesso della terra e della strada” chiosa la più volte citata Régine Pernoud.

[1] Dal Dizionario dei santi, UTET-TEA 1989, che porta l’imprimatur firmato Mons. Elio Morozzi Vicario Generale datato Firenze 12 luglio 1989, prot. 437/89: La Curia Arcivescovile di Firenze, eseguita la revisione delle voci del Dizionario dei Santi TEA dà il benestare alla stampa.
Trofimo. Protovescovo di Arles, menzionato da Gregorio di Tours tra i 7 vescovi missionari mandati in Gallia da Roma (morto prima del 251-52). Mancano notizie della sua vita e la pretesa apostolicità della sua missione fu interessatamente inventata nel sec. V per dare un fondam. Storico-giuridico alla controversa primazia di Arles; tale leggenda andò consolidandosi, tanto che nel 450 una lettera dei vescovi della provincia di Arles a Leone Magno precisa esser stato T. inviato ad Arles da S. Pietro, mentre Cesario d’Arles ne faceva un discep. degli Apostoli con Paolo di Narbona, Saturnino di Tolosa e Dafne di Vaison. In seguito fu ritenuto uno dei 72 discepoli di Gesù, mentre Adone (sec. IX) lo identificò con l’omonimo discepolo di S. Paolo. Festa 29/12.
[2] Scrive Paul-Albert Févier (Université de Provence): «Albanès cita una di queste due Vite, senza precisione e senza informarci da dove prende il suo testo. Ora, mie ricerche per ritrovare tracce di questa Vita si fermano al manoscritto della biblioteca di Carpentras che contiene una Vita d’Auspice, un fondatore ancora più mitico di Trophime». Cfr : Les saints évêques de la fin de l’Antiquité et du Haut Moyen Age dans le Sud Est de la Gaule (genèse et développement de leur culte), p. 23.
Aggiunge lo stesso autore alle pp. 30 e 31: «Quanto all’Historia Francorum, questa non ha fatto altro che portare l’attenzione su Trophimus, per delle ragioni ben precise: dare un’origine romana a numerose Chiese gallicane.»
[3] Libro citato, p. 15.
[4] Non posso qui tralasciare di menzionare che il più antico documento sui vescovi di Arles - una lista episcopale trasmessa da un manoscritto del IX secolo conservato alla Biblioteca nazione - inizia col nome di Trophime, inviato, secondo tradizione, da san Pietro ad evangelizzare la Gallia. In realtà, l’equivoco gioco di parole che porta alla creazione di Trophime prende spunto da una lettera del 22 aprile 417, indirizzata dal vescovo di Roma, Zosime, all’assemblea dei vescovi gallici, dove il mittente non fa alcuna menzione a qualsivoglia missione evangelica, ma ricorda che quella di Arles era considerata la più antica chiesa di Gallia. Da Zosime, vescovo di Roma, a Trophime, vescovo di Arles il passo è breve.



Col passare del tempo e variando le gerarchie ai vertici delle chiese locali, i calendari liturgici subiscono modificazioni. Com’è naturale, visto gli interessi localistici, in molti di questi il nome di Trophime scompare, salvo riapparire in gloria in due retables legati all’emergente culto di Maria Maddalena, datati 1446 e 1488. A tal proposito così commenta Paul-Albert Février in Les saints éveques, pp. 39-40: “La creazione delle leggende maddaleniane e dei cicli che si sono progressivamente aggiunti - santa Marta di Tarascon, san Lazzaro di Marsiglia, san Maximin d’Aix - non ha potuto mancare d’influire in maniera negativa sui culti più antichi attestati. Quale importanza poteva avere un Césaire di fronte a Trophime inviato da san Pietro in persona? Da qui l’immagine prevista per un retable di santa Marta di Tarascona e commissionato a Enguerrand Quarton nel 1446: Marta tra Lazzaro, Maria Maddalena, Maximin e Trophime.”[1]
Il mito è ormai diventato realtà e la conferma definitiva ce la offre un registro del capitolo redatto nel XVI secolo, dove si trascrivono (e acriticamente si validificano, come ancora capitava in quel secolo) due inventari delle reliquie della cattedrale di Saint-Trophime del XII e del XIII secolo. Importante per noi è il primo, scritto nel 1152 in occasione del trasferimento delle presunte reliquie di san Trophime nella nuova cattedrale, reperti ossei accompagnati da un frammento della vera croce di Cristo che, stando al redattore dell’inventario primitivo, l’imperatore Costantino VIII avrebbe offerto a Raymond de Saint-Gilles mentre questi, durante la prima crociata (1095-99), marciava alla testa delle sue armate verso Gerusalemme, reliquia che a sua volta Raymond avrebbe donato ad Aicard, arcivescovo d’Arles, l’uomo che l’avrebbe portata con se dall’oltremare per deporla nella sua chiesa cattedrale. Una descrizione per nulla veritiera, tanto per non cambiare. I fatti ci dicono che l’imperatore Costantino VIII regnò dal 1025 al 1028, quindi mai ha potuto incontrare Raymond de Saint-Gilles impegnato nella prima crociata. Quanto ad Aicard di Marsiglia, arcivescovo d’Arles dal 1070 al 1090, pure lui non ha mai potuto incontrare Raymond in quanto morto 5 anni prima dell’inizio della crociata. Dati che gettano seri dubbi sull’autenticità delle reliquie di Arles …e non solo.

Accantono le notizie storiche e mi lascio trasportare dalla naïvità delle sculture, dall’intrigante commistione tra i colori, i materiali e le differenti forme dei capitelli,[2] dalla ricchezza delle urne che contengono le improbabili reliquie, dalla penombra medievale della chiesa che contrasta con la luminosità del sole del Sud, offrendo una sosta salutare e rinfrescante - e almeno questo è vero, per oggi.


[1] Per la chiesa di Saint-Trophime il vero successo commerciale arriverà dopo l’invenzione del culto di san Giacomo a Compostella, con Arles eletta punto di partenza della cosiddetta via Tolosana. Nella sua cattedrale, oltre ad un’infinità di altre ossa provenienti dai cimiteri locali d’origine romana (immensi luoghi di sepoltura collegati al mito della Rhône “fiume dei morti”, Caronte incluso), i pellegrini potevano ammirare i resti di san Trophime all’interno di una massiccia cassa d’oro, reperto poi scomparso.

[2] Per i dettagli rimando a Le portail de Saint-Trophime d’Arles, edito da Actes Sud, 1994 e successive riedizioni.


© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri
NOTA: per altre immagini inerenti al tema si veda:
Il Tempio di Lanleff