lunedì 15 aprile 2019

Un giorno a Hebron


Sotto il titolo La nuova apartheid ai check-point di Hebron, il 13 aprile u.s. il CorSera web ha messo in rete 26 fotografie. Il metodo utilizzato è di quelli che non ho mai sopportato - te le mostro ad una ad una così per vederne 26 devi fare 26 click e se a guardare sono 1000 persone ecco che posso vantare 26.000 contatti, numeri farlocchi ad uso pubblicità - quindi ho chiuso la pagina web e sono andato a riprendere le mie diapositive riversate in digitale e parcheggiate negli hard disk.

Febbraio 1999. Lasciare Gerusalemme per visitare Hebron (al-Khalīl “amico” è il suo nome arabo) non si dimostra facile. Sì, ci sarebbero i pulmini collettivi, ma pare funzionino soltanto quelli per Tel Aviv. Alla fine - pagando un modesto rimborso spese - trovo un passaggio su di un’automobile privata, in compagnia di tre giovani palestinesi. A Hebron chiedo di essere lasciato nei pressi del suk e così è. Mi guardo attorno: a livello stradale noto muretti ricoperti da sacchetti di sabbia, con feritoie aperte su ogni lato. In alto, sui terrazzi vedo militari armati di fucili mitragliatori. Sono sotto controllo, sono sotto tiro. Avvolgo la cinghietta della Leica al polso, lasciandola penzolare. È il mio messaggio di pace rivolto ai militari, per quel che vale.
Il suk non è diverso da altri visitati in Paesi arabi, con bui negozietti illuminati da fioche luci al neon e carne di dromedario appesa ai ganci. Noto che alcune carcasse esibiscono il pendulo sesso maschile. Mi incuriosisco e chiedo: “la carne del maschio è più pregiata e per questo costa di più” mi sento rispondere. Ora mi è chiara l’esposizione del marchio di garanzia.
Altra curiosità: per ripararsi dal sole, tra le case sono stesi dei teloni bianchi. Mi chiedo: è possibile che i militari d’Israele accettino che questa zona, già di per sé buia, resti fuori dal loro controllo? La mia curiosità non è campata per aria: conosco cosa vuol dire fotografare in zone militarizzate, quindi non vorrei cadere nell’inganno. Nel dubbio, mi guardo sempre attorno, compio gesti lenti. Prudenza non è mai troppa.












Esco dal budello del suk e in breve sono agli sbarramenti che circondano il complesso architettonico che i musulmani chiamano moschea di Abramo, noto anche come Me’arat HaMachpela, La grotta delle tombe doppie (in ebraico) e Al Maghàrah, La grotta (in arabo). Un luogo sacro, le cui grotte sono indicate dalle scritture ebraiche quali sepolture di tre patriarchi - Abramo, Isacco, Giacobbe - e delle loro mogli: Sara, Rebecca e Lia.
Di fronte a me ho una scalinata, controllata da militari armati. Depongo lo zainetto su di un tavolino e mentre un soldato lo controlla un secondo prende a palpeggiarmi. Controllo del passaporto: tutto ok, via libera. Salgo un tot di gradini, altro posto di controllo e tutto si ripete, con una variante: posso portare con me solo la fotocamera, non lo zainetto, che resta in deposito. Alla fine della scalinata altro controllo, altro palpamento. Posso andare.
Entro nel vestibolo della parte musulmana dove mi tolgo le scarpe. Un uomo nota il gesto - gradito perché spontaneo - e subito mi indica dove depositarle. Scambio di informazioni e offerta di essere guidato nella visita, che naturalmente accetto. Chiedo se potrò scattare fotografie: non ci sono problemi. L’uomo è gentile e risponde ad ogni mia domanda. Giocoforza, si arriva al nome finora taciuto: Baruch Goldstein, l’uomo che il 25 febbraio 1994 (nemmeno 5 anni prima) ha portato la morte tra queste mura. Senza modificare il tono di voce, la mia guida mi mostra il sipario che separa l’area cultuale musulmana da quella ebraica, dove vi sono le porte chiuse, apribili solo dal lato opposto. Infine, eccoci davanti a una parete ricoperta da lastre di marmo, dove lui mi indica alcuni dei proiettili rimasti infissi.
Ritorno sui miei passi, ringrazio la mia guida, rimetto le scarpe ed esco, recuperando in discesa quel che mi era stato tolto in salita.












Per accedere alla parte cultuale ebraica bisogna aggirare le mura esterne del complesso. A differenza del più sguarnito lato musulmano, qui il numero dei militari di guardia è già più importante, i minareti trasformati in torri di controllo. Anche qui chiedo ai militari se posso scattare delle fotografie: risposta positiva. Entro e di fronte ho la parete con le porte che danno accesso alla moschea. Un gruppo di militari osserva quel che faccio, ma subito si rilassano e riprendono a parlare dei fatti loro. Alcuni cohanim - figure preposte al culto - alzano la testa per guardare chi è arrivato, poi riprendono la lettura. Nessuno mi si fa incontro, nessuno mi rivolge la parola. Giro tra le strutture che ricordano le sepolture, scatto qualche foto, esco.











In cammino verso la città vecchia noto una giovane donna in divisa militare intenta a rotolarsi una sigaretta. Giusto per far finta di essere un reporter da rivista patinata, le scatto alcune foto. Più avanti un gruppo di aderenti al chassidismo si lascia fotografare mentre sono in preghiera davanti a un muro annerito. Proseguo, ma adesso ho compagnia: dei ragazzini sono sbucati dalle viuzze laterali, tutte ricoperte dalle macerie delle case sventrate dai bulldozer d’Israele per ragioni di sicurezza. Mi fermo un po’ con loro, poi riprendo a vagare per strade deserte. Un posto di controllo è il segnale che sono rientrato nell’area riservata alla popolazione locale. Un pulmino collettivo mi riporterà a Gerusalemme, punto di partenza per altre esperienze.

















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