giovedì 12 agosto 2021

Nag Tibba 2. Al tempio, 3048 m, e tra i gujjars

12 AGOSTO 2000. Il cielo, ingrigito dalle nuvole monsoniche, minaccia pioggia. Indeciso su che fare, passo alcune ore gironzolando per le stradine della parte più antica del villaggio, quella a valle della strada sterrata. È molto, molto interessante, con le sue tipiche case di legno ornate d’intarsi. Come da contratto, sono subito circondato da un gruppo di bambini e tutti vogliono una loro foto ricordo.












Poco dopo mezzogiorno (il figlio del bramana non si è fatto vivo) rompo gli indugi e m’incammino verso il Nag Tibba, il monte sulla cui vetta, a quota 3048 metri, vi è un arcaico tempio dedicato al culto del Naga, il serpente-padre degli umani, esportato nei paesi vicini - Cina, Birmania, Thailandia e altri - sotto forma di dragone. Procedo veloce. Il sentiero sale in direttissima verso l’alto, senza andirivieni inutili. Sui 2500 metri di quota entro nella zona della pioggia, che qui scende fitta fitta e a gocce sottili. Pochi minuti prima delle 15, avvolto dalle nebbie arrivo al tempio, una costruzione di pochi metri quadrati circondata da un bianco muro di cinta. Nel mezzo del cortile (un triangolo femminile se visto dall’alto) sgorga dell’acqua sorgiva, elemento prezioso sia per gli umani sia per abbeverare le mandrie di bufali che i gujjars - nomadi musulmani provenienti dai lontani monti pakistani - portano fin quassù ogni anno da tempo immemore.



















Scattate le foto di rito, fuori dal recinto trovo ad aspettarmi un giovane pastore con una grossa roncola in mano. Mi fa cenno di seguirlo, io esito a farlo. Forse intuendo l’origine del mio disagio, il ragazzo posa l’attrezzo su di un sasso; adesso possiamo andare, e insieme valichiamo un costone erboso. Un centinaio di metri più in basso vi sono le tende nere dei nomadi. Il ragazzo si ferma davanti ad un ingresso e mi fa cenno d’entrare. Tolgo le scarpe infangate ed entro. È buio, la sola luce arriva dall’ingresso, i miei occhi (orbissimi) stentano a vedere. Una donna mi fa cenno di sedermi per terra, di fronte a lei. Non ho neppure il tempo di comprendere chi e cosa vi sia in quel buio riparo e mi ritrovo a bere una tazza di latte appena munto. Anche qui mostro la fotocamera, la donna sorride e chiama una bambina. Un secondo di posa a diaframma 1,4 è quanto la luce permette. La signora guarda alla sua sinistra. Capisco: più in là appare il volto di un bambino più piccolo. Metto a fuoco su di lui e scatto. Ovviamente tra di noi non vi è dialogo ma solo sorrisi. Dopo un po’ decido che è ora di togliere il disturbo e mi preparo per scendere a valle ed è in questa occasione - ormai gli occhi si sono adattati al buio - che vedo cosa stava alle mie spalle: in assoluto silenzio, alcuni uomini e dei ragazzi, a poco più di un metro dalla mia schiena, stando seduti hanno osservato ogni mio gesto. Sorrido loro e faccio un cenno di saluto, sorriso e saluti ricambiati. Alla faccia di chi mi aveva dipinto i gujjars come un’efferata banda di ladri e di assassini.









Esco. La pioggia cade sempre fittissima e sottile. Rimetto le pedule e risalgo il fradicio e scivoloso pendio di fronte a me. Sulla cresta noto un riparo con delle figure umane. Al tempio di Nag Tibba ritrovo il ragazzo che mi ha guidato alla sua tenda. Ci salutiamo. Lui resta, io scendo.





quota 2500 metri circa esco dalla pioggia e ritrovo il sole e il caldo. I contadini mi vengono incontro e tutti vogliono offrire qualcosa allo straniero che si è fatto oltre 1500 metri di dislivello per rendere omaggio al loro dio (serpente) protettore. Chi mi porta del latte cagliato, chi delle pannocchie di mais abbrustolite, chi una tazza di the. Rientro a Panthwari giusto in tempo per la puja al tempio dedicato a devta Nag e a sua moglie devi Tilka. All’interno, le loro statue si trovano in due stanze separate, ai lati di un’impetuosa sorgente d’acqua. In queste valli è uso che tutte le strutture religiose dedicate ai Naga siano erette a protezione delle sorgenti, e questo perché mantenere la purezza dell’acqua alle sue origini è una ricchezza per la vita collettiva. In altre parole: gli spiriti degli antenati sono messi a difesa della vita futura - come lo erano le melusine, le fate, le angane e altre figure femminili del mito europeo, poi forzatamente sostituite dalla Vergine Maria.















Più sotto incontro il bianco vestito, col viso imbronciato. Gli racconto della mia salita e dell’ospitalità dei gujjars. Lui brontola qualcosa e se ne va.
Serata di festa al box-ristorante, dove un gruppo di giovani mi offre la cena. In successione mi vengono servite: due frittate, un piatto di riso e dhal ed infine, tanto per abbondare, un piatto di carne di capra in umido. Il tutto, ovviamente, annaffiato con numerose bottiglie di ghantì.
La notte - ufficialmente per non lasciarmi solo, in realtà perché hanno bevuto troppo alcol - due ragazzi decidono di restare a dormire, condividendo con me l’ariosa tavola. Gente incredibile!






Il giorno dopo una serie di jeep collettive e di autobus di linea mi riportano a Mussoorie, dove trovo alloggio in una stanza affittata da una famiglia di origine tibetana. Stranamente oggi non vi è la solita nebbia, il sole riscalda. Lascio la porta della stanza aperta (dà su di un ballatoio lato strada) e vedo di mettere ordine al mio bagaglio sparso sul letto. Quando mi volto ho la sorpresa: l’ingresso è occupato da una famiglia di scimmie - maschio, femmina e piccoli - tutti seduti per terra, in perfetto silenzio e, fotograficamente parlando, in uno stupendo controluce. Io guardo loro, loro guardano me, poi il maschio si alza ed esce verso il sole seguito dalla sua famiglia. Una volta a casa dovrò rileggere Darwin.

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