Ogni giorno strilli
allarmanti sulla crisi economica e sulla incredibilità della classe politica riempiono
le pagine dei quotidiani, ed è prassi consolidata che i più quotati esperti del
reame riempiano quel che resta del foglio con le loro elucubrazioni, di norma smentite
dalla realtà il giorno precedente la pubblicazione.
Non essendo
un professionista del settore, sull’argomento posso soltanto esporre modeste
opinioni da bar e tabacchi, confidando che qualche prestigiosa testa pensante
possa aggiornarmi sull’Ultima Vera Verità. Nell’attesa che questo accada, trovo
conforto nella rilettura di alcuni testi che arricchiscono le mie librerie.
Uno di
questi, The Commonwealth of Oceana, è
un libro di James Harrington pubblicato per la prima volta a Londra nel 1656 e
ripreso da Franco Angeli nel 1985 col titolo La Repubblica di Oceana. Alle pagine 102 e 103 leggo:
Se un uomo è il solo
signore di un territorio, o supera il popolo, possedendone tre parti su
quattro, egli è il gran signore. Per questo il Turco è chiamato così, per la
sua proprietà: il suo governo è la monarchia assoluta. Se poche persone o la
nobiltà, o la nobiltà con il clero, sono signori della terra o superano la
proprietà del popolo in proporzione analoga, ciò produce l’equilibrio gotico e
il governo è una monarchia mista, come quella di Spagna e di Polonia. Se invece
l’intero popolo è il padrone della terra, o tiene la terra suddivisa in modo
tale che nessuna persona o nessun gruppo, nell’ambito dei pochi o dell’aristocrazia,
abbia una preponderanza, il governo (senza l’intervento della forza) è una
repubblica. Se interviene la forza, in qualunque di questi tre casi, essa deve
adeguare il governo al fondamento, oppure il fondamento al governo; oppure,
quando non tiene il governo in accordo con l’equilibrio proprietario, esso
risulta non naturale ma violento; se poi è subordinato al volere del principe,
è una tirannide; se al volere di pochi, è una oligarchia; se consiste nel
potere del popolo, è anarchia. Ciascuna di queste confusioni, perché l’equilibrio
proprietario non vi corrisponde, non è che di breve durata, in quanto si oppone
alla natura dell’equilibrio, che anziché venir distrutto, distrugge coloro che
vi si oppongono.
Anche se questa
formulazione è vecchia di oltre tre secoli e mezzo, individuando chiaramente il
nesso causale esistente fra la sovrastruttura politica e la struttura
economica, a mio avviso il teorema di Harrington è tuttora valido per buona
parte del pianeta Terra.
Il secondo
libro è opera di Francois Bernier (1620-88), filosofo e medico francese, acuto
osservatore della società indiana che ben conosceva per aver vissuto lunghi
anni alla corte del Gran Moghul a Delhi. Nel 1670, questa esperienza orientale
si trasformerà nella Histoire de la
dernière révolution des états du Grand Mogol, che insieme alle tre Lettres à Monseigneur Colbert, Monsieur de
La Mothe le Vayer e Monsier Chapelain
verranno pubblicate (1991) da Ibis col titolo Viaggio negli Stati del Gran Mogol.
Con i suoi
scritti, Bernier ci propone una teoria del modo di produzione industriale così
riassumibile: la povertà economica delle società orientali rispetto all’Europa
del XVII secolo è da imputare sia alla prevalenza della proprietà statale su
quella privata (con relativo controllo politico dei meccanismi economici), sia
alle loro forme di dominio, che impediscono la messa in moto del motore dello
sviluppo economico in quanto di fronte ad esse i sudditi non hanno diritti di
sorta. In altre parole: finché la concentrazione di tutta quanta la proprietà
terriera (la maggior industria dell’epoca) si trova nelle mani di un solo uomo,
l’imperatore, di fronte a lui tutti i sudditi si trovano in uno stato di
assoluta dipendenza e questo non può che generare uno Stato dispotico, con inevitabile
inefficienza economica. A questa legge non sfuggivano neppure i re ed i nobili
dell’Impero, pur sempre dei servi (anche se di alto rango) che l’imperatore-padrone
poteva in qualsiasi momento, a suo capriccio, elevare di rango e ricchezza o
mandare a morte senza giustificazione. Da qui, la necessità dei cortigiani di
dover compiacere il Gran Moghul in ogni circostanza, nella speranza di
conservare lo status sociale
acquisito per il maggior tempo possibile. Riprodotto il modello in cascata
gerarchica, alla fine nessun cittadino poteva dirsi al riparo dalla violenza
dei vari governatori, casta che sfogava le proprie insicurezze (soprattutto
quelle collegate all’ondivagante cadreghino) saccheggiando a piene mani le
proprietà terriere a loro affidate, al solo fine di poter esibire il lusso più
sfrenato. Di fronte a tanta cupidigia, ai commercianti e agli artigiani non
restava che far di tutto per apparire poveri, arrivando a seppellire il denaro
per sottrarlo alle mani rapaci del potente di turno. Da parte loro, i contadini
lavoravano poco e male, poiché sapevano che ogni loro bene che superava il
minimo vitale sarebbe stato requisito dagli agenti delle tasse.
A quanto
sopra esposto, si aggiungeva l’assoluta indifferenza dei governanti per tutto
ciò che riguardava l’economia, visto che essi non conoscevano che una sola
fonte di utilizzo delle risorse carpite: lo sciupìo vistoso. Come risultato,
tutto il surplus prodotto dai lavoranti
veniva divorato da una élite di parassiti, il cui obiettivo era quello di
tenere in uno stato di cronica depressione l’economia sociale, in fede all’assioma
che vuole lo Stato forte se il popolo è debole: creare continue paure - tecnica
del terrorismo, ovvero seminare continuo e strisciante terrore - e/o problemi
al popolo è sempre stato il gioco prediletto dei politicanti di scarsa utilità
sociale.
Bernier
chiude la sua Lettre à Monseigneur
Colbert augurandosi che i monarchi d’Europa « non fossero mai proprietari di tutte le
terre che possedevano i loro sudditi », poiché, se ciò fosse accaduto, « i loro regni non avrebbero potuto essere
nello stato in cui si trovavano, così ben coltivati e popolati, così ben
costruiti, così ricchi, così civili e così fiorenti come li si poteva vedere.»
Un’analisi
acuta ed audace (per l’epoca) quella di Bernier, ma non del tutto nuova: secoli
prima, nella Muqaddima - l’introduzione
all’opera Peuples et nations du monde,
edita a Parigi da Simbad, 1986 -, lo storico e sociologo arabo Ibn Khaldun (1332-1406)
aveva formulato una legge generale la cui validità mi pare ancora attuale:
Se il potere statale
spreme i sudditi con imposte eccessive e sottopone i loro beni a interventi
arbitrari, il risultato inevitabile è una drastica contrazione delle capacità
produttive della società, poiché gli investimenti, base del dinamismo
economico, vengono metodicamente scoraggiati. Fino a quando una dinastia resta
fedele allo spirito di corpo e di superiorità, essa riposa sul beduinismo, vale
a dire sull’indulgenza, la generosità, l’umiltà, il rispetto della proprietà
altrui, almeno nella più parte dei casi. Allora, le imposte individuali sono
leggere e i contribuenti sono energici e attivi nelle loro imprese: essi
coltivano nuove terre, il che accresce il numero dei contributi fondiari e, per
conseguenza, l’insieme delle risorse fiscali. Ma non appena la dinastia
incomincia a degenerare, essa adotta uno stile di vita fastoso che richiede
crescenti risorse finanziarie. Allora le imposte diventano sempre più numerose
e sempre più gravose e il popolo perde ogni disposizione per lo sviluppo
agricolo. Esso confronta con il suo magro reddito le spese e le imposte dello
Stato, e perde ogni speranza. Molti abbandonano la terra. Il risultato è
una diminuzione generale della ricchezza nazionale. Talvolta il fisco pretende
tirarsi d’impaccio aumentando le imposte fino al punto in cui il limite del
possibile è raggiunto. Il costo dell’agricoltura è troppo elevato, le imposte
sono troppe pesanti e ogni speranza di guadagno diventa teorica. Di
conseguenza, la ricchezza nazionale continua a decrescere e le imposte ad
aumentare. Alla fine, la caduta della civiltà segue la scomparsa di ogni
possibilità di coltivare con profitto la terra ed è lo Stato che ne soffre,
poiché è lui il beneficiario dello sviluppo economico. Vessare la proprietà
privata, significa uccidere negli uomini la volontà di guadagnare di più,
inducendoli a temere che la spoliazione è la conclusione dei loro sforzi. Una
volta privati della speranza di guadagnare, essi non si prodigheranno più. Gli
attentati alla proprietà privata fanno crescere il loro avvilimento. Se essi
sono universali e se investono tutti i mezzi di esistenza, allora la
stagnazione degli affari sarà generale, a causa della scomparsa di ogni
incentivo a lavorare. Al contrario, a lievi attentati alla proprietà privata
corrisponderà un lieve arresto del lavoro. Poiché la civiltà, il benessere e la
prosperità pubblica dipendono dalla produttività e dagli sforzi che compiono
gli uomini, in tutte le direzioni, nel loro proprio interesse e per il loro profitto.
Quando gli uomini non lavorano più per guadagnare la loro vita e cessa ogni
attività lucrativa, la civiltà materiale deperisce e ogni cosa va di male in
peggio. Gli uomini per trovare lavoro si disperdono all’estero. La popolazione
si riduce. Il paese si svuota e le sue città cadono in rovina. La
disintegrazione della civiltà coinvolge quella dello Stato, come ogni
alterazione della materia è seguita dall’alterazione della forma.
Come si vede,
già oltre sei secoli fa questo geniale uomo d’Arabia aveva ben descritto i
gravi danni economici prodotti dalla figura del sovrano-imprenditore, il quale,
grazie alla sua potenza finanziaria e la pressione politica, era in grado di
alterare ogni concorrenza, costringendo i mercanti a vendere le loro merci a prezzi
inferiori ai costi di produzione, causando dapprima la loro rovina, poi quella
dell’intera economia nazionale. Per Ibn Khaldun, non rispettando i diritti
proprietari del popolo governato e soffocando ogni incentivo umano, il
dispotismo resta una forma di dominio altamente irrazionale capace di
annientare ogni incentivo umano. Sua inevitabile conseguenza è l’atrofia di ciò
che alimenta il motore della macchina produttiva: lo spirito di iniziativa.