All’interno
di una libreria satura di titoli commerciali - quelli creati ad arte per
arricchire pochi scrittori e i loro editori, ammazzando l’arte dell’editoria e relegando in un angolo l’arte della scrittura - un libro mi è venuto
incontro, pregandomi di separarlo da quella
massa che lo soffocava.
A questo genere di soccorso mai oppongo resistenza: l’ho
sollevato, l’ho aperto e subito un buon odore (leggasi profumo) di carta
stampata è arrivato alle mie narici. Un buon inizio.
Come
d’abitudine, dopo una rapida scorsa ai bugiardini (le alette e la
quarta di copertina) ho preso a leggere qualche brano scelto a caso, sfogliando
le pagine. È un mio metodo, frutto di decenni di acquisti librari, ora ridotti
per tempo e spazio - e chi ha migliaia di titoli in casa capirà.
Le frasi
che il destino ha scelto per me sono state decisive: il libro adesso è qui con me,
già letto una prima volta - e non è stato faticoso: poco più di 160 pagine, corpo
e carattere adatto per occhi stanchi, 99 le illustrazioni nel testo.
Dentro
ho ritrovato un po’ della mia vita: pare che si frequentasse gli stessi posti
seppur con compagnie diverse - Parigi e Venezia, soprattutto.
Venezia.
- Giorgio Agamben, l’autore di questo libro, intitolato Autoritratto nello
studio, nottetempo l’editore, Milano 2017 la data di stampa - c’informa
d’aver abitato uno studio “le cui finestre si aprivano su
campo San Barnaba” (p. 66). Subito dopo aggiunge: “E da quel palazzo,
che era l’antico Casin de’ Nobili, dove i veneziani ricevevano i forestieri,
io, a mia volta straniero, ho imparato a farmi intimo di Venezia, a scoprire
che una città morta può essere, come spettro, segretamente più viva non
soltanto dei suoi abitanti, ma di quasi tutte le città che avevo conosciuto.”
Erano
gli anni Novanta, per Agamben.
Erano gli anni Settanta, per me. Da sei mesi vivevo con Daniella, che dal profondo (poi inevitabilmente e inesorabilmente sprofondato) Nordest mi aveva raggiunto ai margini di Milano. Non che qui fosse tanto diverso - stessi politicanti bugiardi perché ladri, stesso dominio dei pastori sulle loro e altrui pecore, ma la voglia di cambiare già si notava. La classe media si era liberata dal passato da servo-contadino ed era già proiettata - nel bene e nel male - in un futuro industrializzato. Riunirsi, discutere, partecipare a dibattiti pubblici e a conferenze era la quotidianità. Più arte, più libri, più cultura: si cercava di crescere liberi. Si cercava - riuscirci era tutta un’altra cosa ...e non tutto dipendeva da noi.
Erano gli anni Settanta, per me. Da sei mesi vivevo con Daniella, che dal profondo (poi inevitabilmente e inesorabilmente sprofondato) Nordest mi aveva raggiunto ai margini di Milano. Non che qui fosse tanto diverso - stessi politicanti bugiardi perché ladri, stesso dominio dei pastori sulle loro e altrui pecore, ma la voglia di cambiare già si notava. La classe media si era liberata dal passato da servo-contadino ed era già proiettata - nel bene e nel male - in un futuro industrializzato. Riunirsi, discutere, partecipare a dibattiti pubblici e a conferenze era la quotidianità. Più arte, più libri, più cultura: si cercava di crescere liberi. Si cercava - riuscirci era tutta un’altra cosa ...e non tutto dipendeva da noi.
A quel
tempo un tarlo mi rodeva: dopo aver lavorato per alcuni anni come litografo -
iniziando proprio dalla pietra - e dopo un percorso professionale come
fotografo industriale avevo preso la decisione, concordata con Daniella: sarei
andato a Venezia per intraprendere la carriera di stampatore di libri.
Soldi in
tasca non ce n’erano, quindi accettai con gioia l’invito di Ugo Maccà, figlio
di un farmacista con negozio a Marano Vicentino, studente universitario fuori
corso a Venezia.
Ugo
aveva preso in affitto un appartamento in campo San Barnaba 3131 frequentato da
altri studenti universitari: vi era Martina, figlia di un libraio di Trieste, e
Umberto, ragazzo sopravvissuto al Vajont.
Un letto
singolo era disponibile e il 21 aprile 1971 - il primo di quattro giorni di
ponte - eccomi alla stazione di Santa Lucia, con un elenco di tipografie da
visitare.
Indirizzi
imprecisi, ambienti piccoli e bui, poche attrezzature e una sola, solita frase:
non c’è futuro per noi; qui si chiude. In effetti quelle erano stamperie di
piccolo cabotaggio: carta per ufficio, biglietti da visita, inviti, menù dei
ristoranti e delle pizzerie. L’antica editoria che aveva reso celebre il nome
di Venezia era morta, sepolta e decomposta.
Tornai a
casa con le idee schiarite: il futuro era da cercare altrove, battendo altre
strade. Trovai rifugio nel nascente ramo dell’Info Technology mettendomi a
scrivere firmware in linguaggio macchina, prima; in Assembler poi;
in linguaggio “C” e “C+” ancora dopo - passando da Berkeley per
prendere contatto con Unix, il Sistema Operativo che raccontai a modo
mio in alcuni libri ad uso di una Società italiana specializzata nella
sicurezza bancaria.
Venezia,
campo San Barnaba, aprile 1971. A pochi metri dallo studio che mi ospitava
alcune bandiere rosse ricordavano che lì vi era la sede del PSIUP, acronimo di
Partito Socialista Italiano d’Unità Proletaria, un partito che si rivolgeva
alla classe operaia. Da quegli anni Settanta ad oggi le bandiere non sono mai mancate e
come un termometro hanno seguito l’evolversi della febbre politica. Col passare
del tempo la bandiera del PSIUP è stata sostituita da quella del PCI, poi da
altre - meno rosso, più bianco -, evidenziando urbi et orbis le derive
di quello che un tempo era stato il partito di Berlinguer.
A
Giorgio Agamben l’indirizzo di Venezia ricorda incontri di alto livello
culturale.
A me
campo San Barnaba ricorda alcuni giorni della mia vita, quando a
ventiquattr’anni da poco compiuti sognavo di mettermi a stampare libri a
Venezia.
Ma è
solo una questione di vedute, le nostra: Agamben vedeva campo San Barnaba dalle
finestre del Casin dei Nobili; io lo vedevo dal lato opposto, con vista sul sotoportego
del Casin dei Nobili.
Ricordi
a parte, il libro mi è piaciuto. Da leggere e poi rileggere.
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Venezia 1970 - 2016