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giovedì 8 luglio 2021

Di la dal fiume e tra gli alberi: l'8 luglio di Hemingway


Un noto aforisma di Ennio Flajano vuole che i giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume. Non sono d'accordo. Dipende da che vita hai vissuto. In tanti si sono accontentati di molto meno - ma non è stato di certo il caso di Ernest Hemingway, che di giorni indimenticabili ne poteva vantare una discreta collezione.
Il primo di questi è datato 8 luglio 1918, il giorno in cui si trovò faccia a faccia con la dentona arrivata sotto forma di shrapnel, una bomba da mortaio progettata per scoppiare all’altezza del suolo e scagliare tutt’attorno migliaia di piccole schegge metalliche utili a straziare i corpi dei malcapitati di turno.
In seguito, vista la popolarità mondiale dello scrittore, tanti - troppi - si sono buttati sul pezzo, raccontando chi in un modo chi in un altro, quel che è accaduto attorno all’una e mezza di notte di quel fatidico 8 luglio e qui, per riassumerlo al meglio e senza fronzoli, al posto di Hemingway: storia di una vita - la biografia scritta da Carlos Baker farcita da troppi e inaccettabili errori (di Baker preferisco il precedente volume: Hemingway. Scrittore e Artista, dove scrive di cose che lui conosce meglio) - ho deciso di appoggiarmi alle più sicure spalle di Giovanni Cecchin, uomo che ha dedicato gran parte della sua vita alla lettura dei documenti di Hemingway (ma non solo) conservati in alcune biblioteche statunitensi, dando poi alle stampe preziosi volumi che analizzano il ruolo dei soldati americani in Italia durante il primo conflitto mondiale.


Dal suo Hemingway Americani e Volontariato in Italia nella Grande Guerra estraggo:


Ma veniamo al “fattaccio” dell’8 luglio. Come appare dal Diario storico-militare del 69° della brigata Ancona, la notte tra il 7 e l’8 fu nervosa: “Durante il giorno tiri di disturbo da ambo le parti. Verso sera violenti concentramenti di fuoco dell’artiglieria nemica specialmente al bivio di Osteria di Fossalta e sulle strade adiacenti. La nostra artiglieria ha controbattuto efficacemente. Tiri di bombarde sull’argine dell’ansa di Lampol, occupata dal 1° Battaglione, specialmente dalle 22 alle 23. Tempo bello...”. Dopo la mezzanotte, con lo zaino colmo di sigarette, cioccolata e col bidoncino del caffè caldo, Ernest va a trovare gli amici di quel 1° Battaglione (quello del ten. [Cesare] Battisti!) “in un posto d’ascolto nella terra di nessuno in riva al Piave”. Era “un luogo in cui non doveva andare, che gli era stato espressamente proibito”, ha precisato allo scrivente Henry S. Villard (e l’ha ribadito nelle sue Memorie). Villard lo seppe nel 1975 dall’ex-infermiera dell’ospedale ARC milanese Agnes von Kurowsky, alla quale l’aveva confidato Ernest stesso. Ne erano convinti anche suoi ex-compagni di Schio. “Alla notizia del suo ferimento, francamente pensammo che fosse tutta colpa sua. Non si va a gironzolare nella terra di nessuno durante un bombardamento...”, ha scritto nel 1969 Emmet Shaw al biografo Carlos Baker.
Il “posto proibito” era un osservatorio e nido di mitragliatrici in calcestruzzo sul greto del Piave, in località nota a Fossalta come “il buso de Burato”, dove il fiume punta verso il paese. È chiaramente identificabile nella ricognizione aerea del campo di battaglia eseguita il 5 luglio dal ten. Vecchioni: è anche visibile il terrapieno che congiunge il “posto” alla retrostante trincea addossata all’argine. Lo scrivente ne ha pure ritrovato foto tra le carte del romanziere a Boston (EH 2559P) e nell’album di Bill Horne a Chicago (la prima, fatta avere a Hemingway da Samuel M. Sturgeon o dal capit. Gamble o da altro operatore ARC; la seconda - meno riuscita - probabilmente scattata dallo stesso Hemingway il 9 dicembre 1918, quando rivisitò Fossalta assieme ad Agnes von Kurowsky - e di cui in seguito - e poi da lui data all’amico Horne). Nel racconto “Qualcosa che mai proverete” si può leggere una resipiscenza o mea culpa di Ernest quando fa dire al capit. Paravicini incontrato a Lampol: “Qui non c’è niente da fare per te. Se tu andassi in giro con qualcosa di buono, gli uomini ti si affollerebbero intorno e ciò significherebbe bombardamento...”. È quel che avvenne.
Ernest e i mitraglieri del I Battaglione devono aver alzato un po’ la voce o fatto del trambusto, captato dagli austriaci sull’altra sponda, che fecero piombare sul posto un proiettile shrapnel. La drammatica “morte al rallentatore” in una fiammata accecante è descritta da Hemingway nella citata lettera ai genitori del 18 agosto e in una indimenticabile pagina di Addio alle armi. Fu investito in pieno dalle schegge. Uno dei soldati con cui stava parlando rimase ucciso. Un altro si lamentava pietosamente. Semisepolto da sacchetti di sabbia e detriti, Ernest era una maschera di sangue, con ferite multiple. Fu a questo punto che si comportò con autentico coraggio, meritandosi la Medaglia d’argento dal Governo italiano. Caricatosi del soldato ferito, s’incamminò per una cinquantina di metri lungo il terrapieno. Individuato alla luce di un bengala e di un riflettore, gli austriaci gli scaricarono una raffica di mitragliatrice che lo colpì alla coscia sinistra e al ginocchio destro. Rialzatosi, percorse un altro tratto e fu investito da una seconda raffica che lo colpì al piede destro e lo fece ruzzolare col ferito dentro la trincea addossata all’argine Regio, dove svenne.
Sul numero delle ferite (200, 227, 237...) e se abbia o no meritato la Medaglia, s’è sviluppata un’intera letteratura che tende a minimizzare tutto; e siamo in attesa che biografi in particolare d’oltre oceano, “informatissimi” delle cose italiane, ci vengano a dire che tutto o quasi è inventato, e che anzi Hemingway nel 1918 non è neppure stato in Italia!
Fu portato al Posto di medicazione di “Casa del sindaco” vicino al cimitero, dove ricevette le prime cure e si ebbe le simpatie del capitano italiano “suo amico” e degli altri addetti sanitari. Quindi, evitando la strada per Osteria bersagliata dall’artiglieria, fu trasferito in barella per viottoli fin dietro i ruderi di Casa Gorghetto vicino allo stradone. Aveva perso molto sangue ed era sotto shock. Circondato da altri feriti e da morti, sotto il martellare cadenzato delle vicine batterie italiane, Ernest aspetta, prega e combatte contro la disperazione, la tentazione di farla finita con la pistola d’ordinanza, come confesserà poi a Frances Pailthorp, un’amica delle vacanze del 1919 (ma il particolare è dubbio: gli operatori ARC non portavano pistola, e se Ernest, contro il regolamento, ne aveva una, l’avrebbe sicuramente persa alla medicazione di “Casa del sindaco”...). Alle prime luci dell’alba un’ambulanza italiana lo porta alla Sezione di Sanità delle scuole elementari di Fornaci, dove gli estraggono 28 grosse schegge e viene imbottito di morfina. Tra i feriti si aggira don Giuseppe Bianchi che, riconosciuto l’amico americano, lo battezza e gli amministra l’Estrema Unzione. Ernest, superato lo shock, è presto padrone di se stesso. Mentre è sdraiato per terra sulla barella gli è vicino un soldato dai capelli bianchi con la schiena appoggiata al muro. Ha l’uniforme stracciata e una fasciatura di emergenza che gli copre il moncherino di un polso distrutto. Ernest gli rivolge la parola: “Nonnino, sei troppo vecchio per questa guerra”. Il ferito, che è abruzzese, di rimando: “Corpo di bacco! Posso morire anch’io, come qualsiasi altro!”
Prima di sera Ernest finisce all’Ospedale da campo n. 162 di Villa Toso di Casier, poco a est di Treviso, gestito dalla Repubblica di San Marino, dove rimane per cinque giorni e si fa un amico: il ten. Giuseppe Barcelloni-Corte, 49 O.P.C. (Obici Pesanti Campali), 145a Batteria. Viene inutilmente ricercato dall’ispettore delle ambulanze capit. Bates e dal magg. Lowell. Ritrovato e più volte visitato dal capit. Gamble, il 15 luglio Ernest viene da lui accompagnato su di un treno-ospedale a Mestre, e tutti e due raggiungono Milano il mattino del 17.


Fin qui lo storico. Ma Hemingway cosa ha scritto in merito? Rimedio subito: qui sotto vi sono le lettere da lui scritte tra il 14 maggio e il 18 ottobre 1918, lettere che coprono il suo passaggio in Italia …e che insegnano non poche cose a ben vedere.



Alla famiglia
New York, 14 maggio 1918
Cari tutti,
ci siamo accampati qui in un albergo [Earle] molto bello di Washington Square. Il cuore di Greenwich Village. È a mezzo isolato dalla 5a Avenue, proprio sulla piazza. Il Gruppo di Harvard è partito questa mattina e noi partiamo martedì prossimo stando alle ultime notizie. Nel frattempo siamo a New York con Albergo e pasti pagati. A ognuno hanno dato un baule da ufficiale, uniformi degli ufficiali americani con tutti i distintivi, il mio nome e l’unità scritti sul baule, cappotto da ufficiali, l’impermeabile, 1 berretto da campo, 1 berretto da parata, 4 paia di biancheria pesante, guanti da autista in pelle morbida, 1 paio di mollettiere da aviatore di cuoio, 2 paia di scarpe da ufficiale, 1 maglione, 6 paia di calzettoni pesanti di lana, 2 camicie kaki, 1 camicia di lana, e un sacco di altre cose che non ricordo. Per ciascun uomo un equipaggiamento che vale molto più di $ 200. Le nostre uniformi sono quelle che danno agli ufficiali dell’esercito americano e sono belle sul serio. I soldati semplici e i sottufficiali devono salutarci. Potremo indossarle appena arriveranno i passaporti e avremo i visti. Ancora non è arrivato nessuno dei passaporti di Chicago. Mi farò fare la fotografia appena indosserò l’uniforme. Ho già messo tutto nel mio baule da ufficiale.
Ho incontrato Ted [Brumback] proprio ieri e qui dormiamo nella stessa camera. C’è un gruppo di ragazzi in gamba nella nostra unità e ce la spasseremo moltissimo. Ted era molto contento che Papà gli fosse andato incontro e molto dispiaciuto di non aver potuto vedervi tutti.
Abbiamo tutto il tempo che vogliamo e non dobbiamo presentarci a rapporto da nessuno. Questa mattina mi sono fatto mettere a posto l’uniforme e poi nel pom. Ted e How Jenkins, Harve Osterholm, Jerry Flaherty ed io siamo andati al Battery e abbiamo visitato l’acquario. Abbiamo perso tempo e siamo saliti sulla Woolworth Tower alta 796 piedi - 62 piani. Riuscivamo a vedere le navi mimetizzate dentro e fuori il porto e vedevamo fin su per l’East River all’Hell’s Gate, e a Hoboken il «Vaterland» usato adesso come trasporto. Ha fatto l’ultimo viaggio andata e ritorno in Francia in 14 giorni. Sono andato su e giù la Riverside Drive e ho visto New York dall’Harlem River a Nord e la tomba di Grant e sono andato dalla Libber of Goddesty [Statua della Libertà] a Sud. C’è un panorama magnifico dalla Woolworth Tower. Appena avrò messo la mia uniforme da ufficiale ho un impegno con la Mrs. e ho già investigato la possibilità della Little Church dietro l’angolo. Sapete, ho sempre pensato di sposarmi se fossi riuscito a diventare un ufficiale. È una nuova disposizione quella che ci fa ufficiali. Siamo una sorta di sottotenenti mimetizzati, come aviatori nel senso che non abbiamo uomini sotto di noi. Il ministero della guerra ha deciso l’uniforme per il servizio all’estero e l’ha fatto proprio prima della nostra partenza 3 o 4 giorni. Ecco spiegata l’attesa per i visti sui passaporti. Scrivetemi qui all’Albergo.
Con affetto, Ernie

Alla famiglia
in mare, c. 27 maggio 1918
Da qualche parte sul les briny
Cari tutti,
be’ stiamo avvicinandoci al nostro porto di sbarco ed entrando in una ben nota zona di sottomarini così vi spedisco questa epistola in modo che per lo meno una possiate riceverla. Pensiero allegro no? Questa è la bagnarola più marcia che ci sia al mondo e magari sto rivelando un segreto militare a dirvelo. Però lo è assolutamente. Provatevi a pensare quale sia la più scassata nave al mondo e saprete quella su cui me ne sto. Abbiamo avuto due giorni di tempo splendido, caldo e calma, solo una piacevole brezza! Proprio come le giornate sul lago Waloon. Poi ci siamo imbattuti in una tempesta che ha sgomberato con grande regolarità le sale da pranzo Mi presentavo per pranzo e stavo bene finché non vedevo il vicino premersi la mano sulla bocca e compiere un improvviso balzo verso la porta e allora il potere della suggestione diventava troppo grande e scattavo anch’io verso il parapetto. Comunque abbiamo avuto due giorni di vera e propria tempesta con la nave che rullava, si coricava di fianco e compiva lunghi e lugubri giri e io ho rigettato soltanto quattro volte. Un record, no? Come state voi tutti compresa la massiccia Ivory e il ben noto Dessie. Ted e io e Howell Jenkins stiamo facendo gruppo e ce la spassiamo. La tempesta adesso è finita e negli ultimi due giorni c’è stato un tempo molto piacevole.
Stiamo anche facendo comunella con due tenenti polacchi. Il Conte Galinski e il Conte Horcinanowitz anche se non si scrive così. È gente a posto. Stare con loro ci ha insegnato che c’è una gran differenza tra polacks e Polacchi. Ci hanno invitato a visitarli a Parigi e faremo una grande festa oui. Dovremmo attraccare dall’altra parte dell’Atlantico tra quattro giorni ormai. Questa la spedirò al porto e sarà l’unica lettera che vi invierò da lì quindi non preoccupatevi. Ci siamo divertiti moltissimo nella piccola vecchia Gotham e siamo ormai dei confermati viveurs di Broadway. La Croix Rouge si è presa cura di noi mentre eravamo lì, e non ci mancava niente. Quelli della Y.M.C.A. che è la stessa cosa qui come a casa e quindi sapete cosa voglio dire, sono onnipresenti qui a bordo. Anche parecchi negri della Y.M.C.A. I Cavalieri di Colombo hanno a bordo parecchi rappresentanti e mi sembrano anche più umani Ted e Jenks e io abbiamo avuto la seconda iniezione l’altro ieri e ho il braccio che a questo punto è quasi fisso. Dovremo farne ancora un’altra. In Francia o in Italia. Ciascuna mi ha fatto star male come un cane. Sono triple tifoidali e parecchio più potenti di quelle che mi avevano fatto a scuola. Poco fa si è fatto vedere un grosso incrociatore americano avviato verso casa e l’abbiamo eliografato e segnalato con le bandierine. È la prima nave che abbiamo visto da quando siamo nell’atlant. È molto bello guardare la sera quando le onde fosforescenti si infrangono contro la prua. Anche la scia è fosforescente e quando c’è mare agitato le creste delle onde soffiano via come scintille da un fuoco all’aperto. Abbiamo visto diversi delfini e anche pesci volanti. Alcuni ragazzi che si sono alzati presto la mattina sostengono di aver visto una balena, però li guardiamo con un certo sospetto.
A bordo il rancio è molto buono però ci servono solo due pasti al giorno. Alle dieci e alle cinque. Caffè e pane duro per colazione se lo vogliamo ma non merita alzarsi per quello. Secondo le ultimissime andremo dritti al nostro quartier generale dopo Parigi e poi al fronte. Per sostituire il gruppo che ha finito il suo turno. I nostri sei mesi iniziano dal giorno che cominciamo a guidare e probabilmente ci porteranno nel bel mezzo dell’inverno. Scrivetemi presso il Consolato americano, Milano, Italia, Italian Ambulance Service, American Red Cross.
Affettuosamente Ernie

A Ruth [Morrison]
Fossalta di Piave, c. 22 giugno 1918
Cara Ruth,
come vanno le cose nell’antico villaggio? Mi sembra tutto un milione di miglia lontano e pensare che quest’ora l’anno scorso avevamo appena preso il diploma. Se qualcuno mi avesse detto mentre stavo leggendo quella scema di profezia che di lì a un anno mi sarei ritrovato seduto davanti a una trincea a venti metri dal Piave e a quaranta dalle linee austriache ascoltando i piccoli sibili su in cielo e i grandi scheeeeeeeek Boom e ogni tanto una mitragliatrice andarsene tick e tack e tock avrei detto, «Va’ a prenderti un altro sorso». Questa è una frase un tantino complicata ma serve a dimostrare che profeta del cavolo ero.
Così sono classificato soto Tenente nell’esercito italiano e ho lasciato il servizio Ambulanze della Croce Rosa Americana un po’ di tempo fa, temporaneamente per farmi un po’ di azione. Non diramare questo alla famiglia che affettuosamente pensa che stia guidando una Ford.
Sono di stanza in una bella casa circa un miglio e mezzo dalle linee austriache. 4 stanze. 2 giù e 2 su. L’altro giorno una cannonata è arrivata attraverso il tetto. Adesso di stanze ce ne sono tre. Due giù e 1 su. Io ero nell’altra. La morale eccola: dormire su. I grandi cannoni italiani ci sono alle spalle e ruggiscono tutta la notte. Quel che mi tocca fare è corrermene a un posto di ricovero Cioè, distribuisco cioccolata e sigarette ai feriti e ai soldati della prima linea. Ogni pom. e mattina riempio uno zaino e prendo il mio macinino, maschera anti-gas e smammo verso le trincee. Senz’altro mi diverto mi pesa però che non ci sia nessun americano. Gente, ho quasi dimenticato come si parla l’inglese. Se Cannon o il vecchio Loftbery potessero sentirmi parlare tutto il giorno l’italiano si volterebbero nelle loro tombe. Gente mi vien proprio la nostalgia per un’occhiata a una ragazza americana come si deve anche se darei le pistole automatiche austriache catturate, i miei elmetti tedeschi, tutta la cianfrusaglia che ho catturata e le opportunità che mi spettano di meritarmi una croce di guerra anche per un solo giro di ballo.
Credi allo scrivente che ti dice che se vuoi fare un’opera buona devi scrivermi all’indirizzo sulla busta, poi mi sarà inoltrata. E, Ruth, se conosci qualcuno che conosco a Oak Park con un minimo di possibilità che mi scriva, tu dagli addosso e promettigli da parte mia che sarò uno di quelli che risponde immediatamente. Non ho ancora ricevuto una lettera dagli States e sono qui dal 4 di giugno.
Mi sono arrampicato fuori questo pomeriggio e ho scattato alcune foto del Piave e delle trincee austriache. Se mi vengono bene te ne manderò qualcuna. L’ora del rancio si avvicina e sono affamato.
Così (sai come mi veniva sempre il nervoso quando avevo da dire addio quindi me la squaglio in fretta, lasciandoti tutta sola con la lettera).
Ernie

Alla famiglia
Milano, 21 luglio 1918
Cari tutti,
immagino che Brummy vi abbia scritto a proposito delle mie sforacchiature, quindi non c’è nulla che possa aggiungere. Spero che il cablo non vi abbia preoccupato troppo ma il Cap. Bates ha pensato che fosse meglio che aveste notizie direttamente piuttosto che dai giornali. Questo perché sono il primo americano ferito in Italia e immagino che i giornali avranno qualcosa da dire in merito.
Qui è una giuggiola di ospedale, ci sono sparpagliate circa diciotto infermiere americane che si prendono cura di quattro ricoverati. Va tutto bene e sto comodo e le mie ferite vengono curate da uno dei migliori medici di Milano. Ho ancora dentro un paio di pezzi, una pallottola nel ginocchio rivelata dai raggi-X. Il chirurgo, molto saggiamente, dopo il consulto ha deciso di aspettare che la ferita nel ginocchio destro si rimargini pulita prima di operare. La pallottola a quel punto sarà alquanto incistita, e lui potrà fare un taglio netto ed entrare sotto il ginocchio. Consentendogli prima di rimarginarsi completamente eviterà qualsiasi pericolo di infezione o che il ginocchio diventi rigido. È saggio, non ti sembra papà? Allo stesso tempo asporterà anche una pallottola dal piede destro. Probabilmente opererà tra circa una settimana perché la ferita si sta rimarginando bene e non c’è infezione. Al Pronto Soccorso mi hanno immediatamente fatto due iniezioni antitetaniche. Tutte le altre pallottole e le schegge sono state rimosse e tutte le ferite della gamba sinistra stanno guarendo bene. Le dita sono a posto e mi hanno tolto le bende. Non ci saranno effetti permanenti per nessuna delle ferite data l’assenza di fratture. Nemmeno nelle ginocchia. Sia in quella sinistra sia in quella destra i colpi non hanno fratturato la patella; una scheggia grande grosso modo come un cuscinetto era rimasta nel ginocchio sinistro ma è stata rimossa e il ginocchio adesso si muove perfettamente e la ferita è quasi guarita. Nel ginocchio destro la pallottola è entrata da sinistra.


Quando riceverete questa lettera il chirurgo avrà già operato e sarà tutto a posto e spero di tornare a guidare nelle montagne verso fine agosto. Ho alcune belle fotografie del Piave e molte altre interessanti. Anche un bel mucchio di souvenir. Sono stato lì per tutta la durata del grande scontro e ho carabine e munizioni austriache, medaglie tedesche e austriache, pistole automatiche da ufficiali, elmetti Boche, circa una dozzina di baionette, pistole lanciarazzo e pugnali e quasi ogni altra cosa cui si possa pensare. L’unico limite al quantitativo di souvenir è la possibilità di portarmeli dietro perché c’erano tanti di quegli austriaci morti e prigionieri che il terreno ne era quasi nero. È stata una grande vittoria e ha mostrato al mondo che magnifici combattenti sono gli italiani.
Vi dirò tutto quanto quando tornerò a casa per Natale. Qui adesso fa moltissimo caldo. Le vostre lettere le ricevo regolarmente. Esprimete tutto il mio affetto a tutti, e ancora a tutti voi.
Ernie

Alla famiglia
Milano, 18 agosto 1918
Cari tutti,
il che comprende nonna e nonno e Zia Grace. Grazie moltissime per le 40 lire! Sono state molto apprezzate. Gente, ce ne sono state di storie per il fatto che mi hanno sparato! Le Foglie di Quercia e l’opposizione sono venuti oggi e ho cominciato a pensare, gente mia, che forse non mi apprezzavate mica tanto quando risiedevo nel grembo. È quasi bello come farsi ammazzare e poi leggere il proprio necrologio.
Sapete si dice che non ci sia proprio niente di divertente in questa guerra. Difatti non c’è. Non arriverò a dire che è infernale, sarebbe andare un tantino in là dopo il Gen Sherman, ma ci sono state circa 8 volte in cui avrei accettato volentieri l’Inferno, nella speranza che non fosse come quella fase della guerra che stavo affrontando. Per esempio. Nelle trincee durante un attacco quando un colpo centra un gruppo in cui te ne stai. Le cannonate sono bruttine solo quando fanno proprio centro. Con le schegge devi rischiare. Ma quando c’è un centro i tuoi amici ti si schizzano tutti addosso, e dico schizzano a ragion veduta. Durante i sei giorni che me ne sono stato in prima linea, a solo 50 metri dagli austriaci, mi sono convinto di avere una vita per così dire incantata La convinzione in sé non significa molto ma il fatto che la tua vita lo sia sì! Spero di averla. Quel rumore che state sentendo sono le mie nocche che toccano il vassoio di legno.
È troppo difficile scrivere sui due lati del foglio quindi salto.
Be’ adesso posso sollevare la mano e dirvi che sono stato bombardato da esplosivo, shrapnel e gas. Mi hanno sparato addosso con mortai da trincea, fucili e mitragliatrici, e tanto per aggiungerci qualcosa c’era anche un aereo che mitragliava le linee. Non mi hanno mai buttato addosso una bomba a mano, ma una lanciata da un fucile mi è atterrata vicino. Chissà, forse una bomba a mano me la beccherò in seguito. Ora in tutta quella confusione essere colpito solo da un mortaio e da un colpo di mitraglia mentre mi facevo strada verso le retrovie come dicono gli irlandesi, è stata una bella fortuna. Non vi pare, Famiglia? Le 227 ferite che m’ha procurato il mortaio al momento non mi hanno fatto minimamente male, solo i piedi che mi sembravano degli stivali di gomma pieni di acqua. Acqua calda. E poi il ginocchio mi si stava comportando in modo strano. I proiettili della mitraglia mi sono sembrati come se la gamba mi fosse stata colpita da una palla di neve ghiacciata. Comunque m’ha rovesciato. Però mi sono rialzato e son riuscito a portare i miei feriti nella trincea. Poi lì sono per così dire crollato. L’italiano che avevo con me mi aveva sanguinato su giacca e pantaloni e sembrava che qualcuno ci avesse fatto la marmellata di more e poi avesse praticato dei buchi per lasciarci uscire la polpa. Be’ il capitano che era un mio grande amico, era sua la trincea, mi fa, «Povero Hem, presto sarà R.I.P.». Il che vuol dire Riposa In Pace. Capite, pensavano che mi avessero sparacchiato nel petto per via della giacca insanguinata ma mi sono fatto togliere la giacca e la camicia. Non portavo la maglia e il vecchio torace era intatto. Allora hanno detto che probabilmente sarei sopravvissuto. Il che mi ha rallegrato non poco. Gli ho detto in italiano che volevo vedermi le gambe, anche se avevo paura di guardarle. Allora mi hanno tolto i calzoni e le vecchie gambe erano ancora lì ma gente che caos. Non riuscivano a capire come avevo fatto a percorrere i 150 metri con quel peso ed entrambe le ginocchia sforacchiate e anche lo scarpone in due posti. Inoltre più di 200 ferite superficiali. «Oh» faccio io, «mio Capitano, non è niente. In America lo fanno tutti! È ritenuta la cosa giusta non consentire al nemico di accorgersi che hanno catturato le nostre capre!»
Questo discorso delle capre ha richiesto una notevole abilità linguistica ma sono riuscito a comunicarlo e poi mi sono per così dire addormentato per un paio di minuti. Quando sono tornato in me mi hanno portato con una barella per tre chilometri fino al pronto soccorso. I barellieri hanno dovuto faticare mica male perché alla strada stavano bombardando via anche le «interiora». Ogni volta che ne arrivava una grossa, Whee -whoosh- Boom - mi mettevano giù e si buttavano a terra. Le ferite a quel punto mi facevano male come se 227 demonietti stessero piantandomi dei chiodi nella viva carne. Il pronto soccorso era stato evacuato durante l’attacco così me ne sono rimasto due ore in una stalla con il tetto che era stato sparato via, in attesa di un’ambulanza. Quando è arrivata ho ordinato che andasse prima a prendere i soldati che erano stati feriti. Tornò con un carico e quindi mi ci misero dentro anche me. Il bombardamento era ancora piuttosto pesante e alle nostre spalle le batterie continuavano a sparare e i grossi 250 e 350 che ci passavano sulla testa direzione Austria facevano un fracasso come treni. Poi li sentivamo scoppiare dietro le linee. Poi arrivava un grosso proiettile austriaco e lo schianto dell’esplosione. Però noi gliene davamo di più e più grossi di quelli che ci mandavano loro. Poi una batteria di cannoni da campagna cominciava a scatenarsi, appena dietro la stalla - boom, boom, boom, boom e i Settantacinque o i 149 prendevano a frustare sopra le linee austriache e sempre c’erano i razzi e le mitraglie che andavano come tat-a-tat, tat-a-tat.
Dopo una corsa di un paio di chilometri in un’ambulanza italiana mi scaricarono in un pronto soccorso dove tra gli ufficiali medici avevo un sacco di amici. M’hanno dato una iniezione di morfina e un’altra di antitetano, e mi hanno rasato le gambe e estratto circa Venti schegge di cannone 8 che variavano da [disegno della scheggia] a circa [disegno di scheggia] quanto a dimensioni. Han fatto un ottimo lavoro di fasciatura e poi mi hanno tutti stretto la mano e mi avrebbero baciato se non li avessi presi in giro. Poi sono rimasto cinque giorni in un ospedale da campo e quindi sono stato evacuato all’ospedale base qui.
Vi ho mandato quel cablo affinché non vi preoccupaste. È un mese e 12 giorni che sono nell’Ospedale e spero di uscire tra un altro mese. Il chirurgo italiano ha fatto una giuggiola di lavoro sulla giuntura del ginocchio destro e sul piede destro. Ci sono voluti 28 punti e mi garantisce che riuscirò a camminare come prima. Le ferite sono tutte rimarginate e belle pulite e non c’è stata infezione. La gamba destra me l’ha fermata perché la giuntura vada a posto. Ho alcuni souvenir in gamba che lui ha tirato fuori con l’ultima operazione.
Non mi sentirei davvero a mio agio adesso se non avessi un po’ di dolore. Il chirurgo mi taglierà il gesso tra circa una settimana e mi permetterà di muovermi con le grucce tra circa 10 giorni.
Dovrò imparare di nuovo a camminare.
Mi chiedete di Art Newburn. Era nella nostra sezione ma è stato trasferito alla II. Adesso nella nostra sezione c’è Brummy. Non mettetevi a piangere se vi dico che nella mia lontana giovinezza ho appreso a giocare a poker. Art Newburn si illudeva di essere un giocatore di poker. Non scenderò nei malinconici particolari ma l’ho convinto del contrario. Senza aver nulla in mano ho tenuto duro. Ho raddoppiato le sue puntate e gli ho bluffato via un piatto di 50 lire. Lui aveva tre assi e aveva paura di vedere. Prova a raccontarlo a qualcuno che sa il gioco, Pop. Credo che Art abbia detto in una lettera che ha scritto a casa a quelli di Oak Park che avrebbe avuto cura di me. Ora Pop dimmi da uomo a uomo se quello era aver cura di me? No, proprio no. Così vedi che se da una parte la guerra non è divertente durante la guerra di cose divertenti ne accadono molte. Ma Art ha vinto il campionato italiano del tiro al ferro di cavallo.
Questa è la lettera più lunga che io abbia mai scritto a chiunque e non dice neanche tutto. Ricordami a tutti quelli che hanno chiesto di me e come dice Ma Pettingill, «Tenete accesi i focolari».
Buonanotte e abbracci a tutti.
Ernie
P.S. Ho ricevuto oggi dagli Helmles una lettera indirizzata al soldato semplice Ernest H. Quel che sono è S. Ten. o Soto Tenenente Ernest Hemingway. È il mio grado nell’esercito italiano e significa Sottotenente. Spero di essere presto Tenenente.

Al Dr. C.E. Hemingway
Milano, 11 settembre 1918
Caro papà,
le tue lettere del 6 e dell’11 agosto sono arrivate oggi. Sono contento che tu abbia ricevuta quella di Ted e so che sarà lietissimo di avere tue notizie. È arrivato qui dal Fronte appena ha saputo che ero ferito, è qui alla Base e ti ha scritto quella lettera da Milano. È stato prima che mi facessero i raggi alla gamba o mi operassero e così non so esattamente cosa ti abbia detto in merito perché stavo troppo male per curarmene. Spero però che ti abbia detto giusto. Ho ricevuto una sua lettera dal Fronte un paio di giorni fa e stanno spassandosela. La mamma mi ha scritto che tu e lei andavate a Nord e sono sicuro che vi siete fatti una buona vacanza. Scrivimi per bene se per caso hai pescato. Ecco cosa mi fa odiare questa guerra. L’anno scorso a quest’epoca stavo prendendo delle meravigliose trote alla Baia [Horton].
Oggi sono a letto e probabilmente non lascerò l’ospedale prima di altre tre settimane. Le gambe stanno andando benissimo e tutt’e due alla fine saranno assolutamente O.K. La sinistra adesso sta bene. La destra è rigida ma i massaggi e la cura del sole e movimenti passivi stanno sciogliendo il ginocchio. Il mio chirurgo Capitano Sammarelli. uno dei migliori chirurghi italiani, continua a chiedermi se ritengo che sarai pienamente soddisfatto delle operazioni. Dice che il suo lavoro va ispezionato dal grande chirurgo Hemingway di Chicago e quindi vuole che sia tutto perfetto. E lo è. C’è una cicatrice lunga circa 8 pollici sotto il piede e una bella nitida in cima. È così che fanno i proiettili rivestiti di rame quando ti si infilano. Anche il ginocchio è una bellezza. Non potrò mai più portare il kilt, papà. La gamba sinistra, la coscia e il lato sembrano come se un vecchio cavallo fosse stato marchiato e rimarchiato da qualcosa come 50 proprietari. Saranno tutti segni distintivi.
Adesso posso muovermi per le strade un po’ ogni giorno con un bastone e una gruccia, ma ancora non riesco a infilarmi la scarpa destra. Oh, sì! Sono stato fatto tenente e adesso ho le due strisce dorate su ciascuna manica. Per me è stata una sorpresa perché non mi aspettavo niente del genere. Così adesso potrete indirizzarmi le lettere sia come 1st Lieut o Tenente perché il grado vale per la Croce Rossa americana e per l’Esercito Italiano. Credo di essere il tenente più giovane dell’esercito Comunque mi sento tutto intappato con i gradi e la cordicella in spalla e il mio cinturone. Ho anche sentito dire che la mia medaglia valore [sic] d’argento è in arrivo e che probabilmente la riceverò appena esco dall’Ospedale. Inoltre mi hanno fatto sapere dal fronte che ero stato proposto per una croce di ferro prima d’essere ferito a motivo d’una generale condotta pazzoide nelle trincee, suppongo. Così probabilmente verrò decorato con entrambe le medaglie contemporaneamente. Il che non sarebbe poi male.
P.S. Se non è troppo vorrei che tu facessi l’abbonamento al Sat. Eve. Post per me in modo che me lo inoltrino qui. Poi me lo rispediranno dovunque mi trovo. C’è un tremendo bisogno di letture americane quando sei al fronte.
Grazie, Ernie
Sono proprio contento che Hop [Charles Hopkins] e Bill Smith saranno vicini dove potrai essere d’aiuto a entrambi. Sono due dei migliori Amici che ho specialmente Bill. Fallo venire spesso perché so che ti piacerà e ha fatto tanto per me. Probabilmente quando uscirò tornerò per un po’ all’ambulanza perché la banda vuole che vada a trovarli e vogliono fare una gran festa.
L’altro giorno ho ricevuto una lunga lettera da tutti quelli della sezione. Mi piacerebbe tornare all’ambulanza ma per sei mesi non servirò molto come autista. Probabilmente prenderò il comando di qualche appostamento di prima linea sulle montagne. Comunque non preoccuparti per me perché è stato definitivamente provato che non possono uccidermi e andrò dove potrò essere più utile e come sai è per questo che siamo qui. Be’, Ciao Vecchio Scout,
Affettuosamente tuo figlio Ernie

Alla famiglia
Milano, 18 ottobre 1918
Cari tutti,
la vostra lettera del 24 settembre con le foto è arrivata oggi e, cara famiglia, sono ammirato per le notizie. E le foto sono terribilmente belle. Credo che ormai in Italia tutti sappiano che ho un fratello più giovane. Se solo vi rendeste conto di quanto apprezzo le foto, pop, me le manderesti spesso. Di te e dei ragazzi e della casa e della baia - sono le cose che più mi rallegrano e a tutti piace vedere le foto di tutti gli altri.
Tu, papà, parli di venire a casa. Non verrei a casa prima della fine della guerra neanche se negli States potessi guadagnare quindicimila all’anno - no. Il mio posto è qui. A tutti noi della Croce Rossa qui è stato ordinato di non arruolarci. Sarebbe sciocco per noi tornare a casa perché la Croce Rossa è un’organizzazione necessaria e a quel punto dovrebbero mandare altri uomini dagli Stati Uniti per continuarne il funzionamento. E poi siamo venuti qui solo dopo essere stati respinti per il servizio militare. Sarebbe criminale per me tornare adesso negli States. Sono stato respinto prima di partire dagli States a motivo del mio occhio. Adesso ho una gamba e un piede malandati e non c’è esercito al mondo che mi prenderebbe. Ma qui posso essere utile e me ne resterò finché riesco a zoppicare e c’è una guerra in cui zoppicare. E l’ambulanza non è un lavoro da niente. Abbiamo perso un uomo, ucciso, e un altro ferito nelle ultime due settimane. E quando ti stai occupando dei vettovagliamenti al fronte sai di avere esattamente le stesse possibilità di cavartela degli altri uomini in trincea e quindi la mia coscienza non mi dà patemi a proposito di restare.
Naturalmente mi piacerebbe venire a casa e vedervi tutti. Ma non posso finché la guerra non è finita. E non ci vorrà un tempo terribilmente lungo. Non c’è nulla di cui dobbiate preoccuparvi perché è stato provato abbastanza definitivamente che non riescono a farmi fuori. Le ferite non contano. Non mi dispiacerebbe neanche molto restare ferito un’altra volta, perché ormai so com’è. E, sapete, più di tanto non si può soffrire e ti dà una sensazione davvero di soddisfazione essere ferito. È come esser preso a botte per una buona causa. In questa guerra non ci sono eroi. Offriamo tutti i nostri corpi e soltanto pochi vengono scelti, ma questo non significa nessun particolare merito per quelli che vengono scelti. Sono soltanto i più fortunati. Sono orgoglioso e contento che sia stato scelto il mio, ma ciò non dovrebbe darmi nessun merito extra. Pensate alle migliaia di altri ragazzi che si sono offerti. Gli eroi sono tutti morti. E i veri eroi sono i genitori. Morire è una cosa molto semplice. L’ho guardata la morte e lo so davvero. Se fossi morto mi sarebbe stato molto facile. È senz’altro la cosa più facile. Ma la gente a casa non se ne rende conto. Soffrono mille volte di più. Quando una madre mette al mondo un figlio deve sapere che un giorno il figlio morirà e la madre di un uomo che è morto per il suo paese dovrebbe essere la donna più orgogliosa del mondo, e la più felice. E quanto è meglio morire nel periodo lieto della gioventù non ancora disillusa, andarsene in un fulgore di luce, invece di lasciare che il proprio corpo si sciupi e invecchi e che le illusioni s’infrangano.
Quindi, cara vecchia famiglia, non preoccupatevi di me! Non è poi male essere feriti: lo so, perché l’esperienza l’ho fatta. E se morirò, sarò fortunato.
Tutto questo vi suona come il ragazzo pazzo e selvatico che avete spedito nel mondo un anno fa perché imparasse? È un gran vecchio mondo, comunque, e mi ci sono sempre divertito e le probabilità sono tutte a favore di un mio ritorno. Comunque, ho pensato bene di dirvi come mi sentivo. Adesso tra una settimana circa vi scriverò una lettera bella e allegra e lunga, quindi non lasciatevi abbattere da questa. Vi voglio bene a tutti.
Ernie

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI

Lanificio Cazzola, Schio








Bassano del Grappa


Sul ponte di Bassano
noi ci darem la mano...
ma qui una mano scivola altrove














Ca' Erizzo
Museo Hemingway
e della Grande Guerra













venerdì 27 giugno 2014

Lo sciacquone di Hemingway


Il motto “non credere a niente di quel che ti dicono e credi a metà di quel che vedi” è sempre valido. Da qui il duro lavoro di chi scrive di Storia, l’opposto dello scrivere amene storielle. Una prova? Eccola: ho in casa diverse biografie sulla vita e il lavoro di Ernest Hemingway, tutte scritte da rinomati e ben retribuiti cronisti. Tutti questi libri riportano la disgraziata caduta di un lucernario sulla testa di Hemingway, incidente che portò lo scrittore ad una momentanea sospensione della sua vena creativa.

Seguendo l’ordine cronologico, apro Papà Hemingway. Ricordi personali di E. A. Hotchner, libro uscito nel 1965 e stampato in Italia da Bompiani nel 1966, e alle pp. 63-64 leggo:

Un altro giorno che i cavalli di Auteuil riposavano, attraversammo il Pont Royale per pranzare alla Closerie des Lilas, altro locale caro ai ricordi di Ernest. Lungo la strada, egli mi indicò un edificio alto e stretto, all’ultimo piano del quale aveva un tempo abitato con Pauline. “Era un grande appartamento,” disse, “con un lucernario che lo rendeva luminoso. Un giorno venne a trovarci un bohémien di nome Jerry Kelley, un dadaista scomunicato, che prima di partire ebbe bisogno di andare al cesso. Ma invece di tirar la catena della toilette, agguanta la corda del lucernario, le dà un violento strattone, e il lucernario piomba giù in un diluvio di vetro. Io mi trovavo proprio lì sotto e i vetri mi hanno squarciato il cranio. Quando ho visto zampillare il sangue, il mio primo pensiero è stato di salvare il mio unico vestito. Corro in bagno e, per salvare il vestito, mi chino a sanguinare sulla vasca. Contemporaneamente metto un dito sul punto di pressione alla tempia per rallentare un po’ il flusso del sangue che veniva giù come un figlio di puttana. Pauline andò a chiamare Archie MacLeish che si mise in contatto con un suo amico, medico all’Ospedale americano, quel dottor Carl Weiss, che più tardi ammazzò Huey Long. Fece un lavoro davvero orribile sulla mia testa e mi lasciò con questa chiazza di pelle nuda che s’allarga tutte le volte che m’arrabbio. Dopo di che misurammo il sangue che era finito nella vasca e risultò che era più di mezzo litro. Weiss fu certamente più in gamba quando s’occupò di Huey Long che quando dovette badare a me.

Hotchner è un giornalista infilatosi alla corte di Hemingway e queste “memorie” – fin da subito contrastate da Mary, l’ultima moglie di Ernest - sono apparse in libreria tre anni dopo la morte di Hemingway. Più che una biografia a me pare un libro auto-celebrativo, da prendere con le pinzette.

Il secondo libro è un lavoro serio, da topo di biblioteca, con tanti rinvii bibliografici. L’ha scritto Carlos Baker e s’intitola Hemingway. Storia di una vita; la traduzione è di Ettore Capriolo, l’editore è Arnoldo Mondadori, 1970. Apro alle pp. 281-282:

Si era appena riavuto da questa indisposizione, quando all’inizio di marzo gli capitò uno dei più curiosi incidenti della sua carriera. In seguito avrebbe smentito di essere eccessivamente soggetto agli incidenti, ma la vista debole e la goffaggine fisica unite provocarono una notevole serie di disavventure. Questa volta era andato a cena con Ada e Archie MacLeish ed era tornato a casa verso le undici. Alle due andò in bagno. La stanza era freddissima. Qualcuno, volendo tirare lo sciacquone, aveva invece dato uno strattone alla corda che serviva per aprire il lucernario, spaccando il vetro in più punti. Adesso, mentre lui annaspava tutto assonnato con la corda, tutto quel decrepito lucernario precipitò sulla sua sfortunata testa, raschiandogli la fronte poco sopra l’occhio destro[1] e facendolo cadere come un manzo colpito da una scure. Pauline cercò di stagnare l’emorragia con strati di carta igienica, poi chiese aiuto a MacLeish che chiamò un taxi. A questo punto Ernest era stordito e quasi in delirio. Arrivarono all’American Hospital di Neuilly poco prima delle tre. Il medico di turno chiuse con sette punti la ferita aperta che aveva forma di triangolo.
Era ormai troppo famoso perché si potesse ignorarlo e le agenzie d’informazione trasmisero la notizia. Ezra Pound mandò un messaggio da Rapallo. [...] Perkins telegrafò a Guy Hickok chiedendo un resoconto particolareggiato. Hadley, appena lo seppe, inviò una lettera di solidarietà.

Come disse Sciesa: tiremm innanz. Il terzo libro s’intitola Tutti i racconti di Ernest Hemingway, a cura di Fernanda Pivano; Mondadori 1993, pag. LVII:

1928. In febbraio ritorna a Parigi, trova l’appartamento in Rue Ferou gelato perché è saltato l’impianto di riscaldamento e si ammala; in marzo ha uno dei suoi soliti incidenti spettacolari: questa volta andando di notte nel bagno tira un cordone credendo che sia quello dello scarico dell’acqua e invece fa azionare un lucernario, che gli precipita sulla testa provocandogli una ferita di cinque centimetri sopra l’occhio destro,[2] suturata con nove punti all’ospedale americano di Neuilly e di cui conserverà la cicatrice tutta la vita. A cercare di arginare l’emorragia con la carta igienica è Pauline (non Hadley come risulta da una riduzione cinematografica italiana.

La stessa Pivano in Hemingway, Bompiani 2001, pag. 117, scrive:

Gli infortuni culminarono a Parigi nel marzo 1928 quando gli crollò sulla testa un lucernario producendogli sulla fronte una ferita abbastanza grave da richiedere nove punti di sutura: la cicatrice gli restò tutta la vita entrando nella sua aneddotica e confondendosi con gli incidenti di guerra i cui confini nei resoconti dei mass-media non furono mai molto precisi. A me, per esempio, raccontò addirittura che il lucernario era caduto perché Martha Gellhorn aveva cercato di entrare dalla finestra del soffitto in un tentativo di seduzione o per perseguitarlo, in due versioni che cambiavano a seconda dell’umore e non tenevano conto del fatto che aveva conosciuto la Gellhorn nel 1936.

Per finire: ma lui, l’interessato, non ha mai scritto niente sull’incidente? Certo che si: basta aprire Ernest Hemingway. Lettere 1917-1961, un volume curato dal citato Carlos Baker, tradotto da Francesco Franconeri per Mondadori, 1984, e leggere a pag. 184 quanto Hemingway scrive a Maxwell Perkins:

Parigi, 17 marzo 1928
Caro Mr. Perkins,
Guy Hickock mi ha mostrato oggi un cablo della Scribner in cui si chiede come sto di salute e spero quindi che lei non si sia preoccupato. Ero stufo di raccontare i miei incidenti così non ho voluto accennarne. Comunque è stato il lucernaio nel gabinetto - un amico aveva tirato la corda che lo alza invece di tirare quella dell’acqua provocando una crepa nel vetro così quando ho cercato di agganciare la corda (andando in bagno alle 2 del mattino e vedendola penzolare) è caduto tutto quanto. Abbiamo fermato l’emorragia con trenta strati di carta da gabinetto (un magnifico assorbente che ho ormai adoperato due volte per questo scopo in analoghe emergenze) e una legatura emostatica con la tovaglia e un pezzo di legno da ardere. Le prime due legature non sono riuscite ad arrestare niente perché troppo corte - (asciugamani di quelli piccoli) ed ero alquanto preoccupato dato che non avevamo telefono né c’è la possibilità di trovare un medico alle 2 del mattino e c’erano due arterie tagliate. Ma la terza ha funzionato molto bene e siamo andati a Neuilly all’ospedale americano dove hanno messo a posto tutto, legato le arterie, e messo i punti sotto e poi sei altri per chiudere. Nessun effetto collaterale però un maledetto fastidio.

Questa lettera è stata scritta pochi giorni dopo l’incidente, quindi da ritenersi un documento veritiero, perché fin da subito verificabile. Bastava chiedere a Pauline, ai medici dell’ospedale, ai coniugi MacLeish, al tassista, tutti testimoni oculari.

Queste versioni hanno almeno un punto in comune: l’incidente dello sciacquone e del lucernario è successo nell’appartamento al numero 6 di rue Férou, dove Hemingway viveva con Pauline Pfeiffer, la sua seconda moglie. O almeno... questa certezza vale fino al 1963, anno in cui Man Ray - nato Emmanuel Radnitzsky - esce con Self Portrait, un libro pubblicato a Boston da Atlantic Monthly Press/Little, Brown and Company. In casa ho la traduzione edita da Mazzotta nel 1975 e a pag. 154 leggo:

Una sera organizzai una festicciola a casa mia, invitando alcuni amici americani e francesi. A un certo punto Hemingway entrò in bagno, e ne uscì subito dopo con la testa sanguinante: aveva tirato quella che credeva la catena, e che era invece la corda del lucernario; il vetro si era frantumato su di lui. Gli fasciammo la testa, gli misi un cappelluccio di feltro che nascondeva in parte la fasciatura e gli feci una foto.

Sul ritratto Man Ray ha ragione: esiste, quindi non si discute. A non reggere è la storia che questa fotografia sia stata scattata la sera dell’incidente: non si vede una goccia di sangue né sulla camicia né sulla benda, malgrado la ferita sia ancora aperta, non suturata - almeno stando alle parole di Ray. Ne deduco che Man Ray abbia ingrassato la sua biografia col letame altrui. In alternativa, si può leggere questo cameo su Hemingway attraverso il filtro delle parole di Lucien Treillard: «Per tutta la vita, Man Ray rimase un artista dadaista libero, attraversò il surrealismo di cui subì l’influenza, ma conservò fino alla morte la sua assoluta libertà creativa.» Vista da quest’angolazione, la verità rimane un’opinione ...anche se nessuno dei citati autori si è mai dato alla politica.




[1] Al contrario, le fotografie mostrano che la ferita è sopra l’occhio sinistro.
[2] Vedi nota precedente.

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© Per il testo e le foto di Giancarlo Mauri


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La ferita sopra l'occhio sinistro di Hemingway