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giovedì 8 luglio 2021

Di la dal fiume e tra gli alberi: l'8 luglio di Hemingway


Un noto aforisma di Ennio Flajano vuole che i giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume. Non sono d'accordo. Dipende da che vita hai vissuto. In tanti si sono accontentati di molto meno - ma non è stato di certo il caso di Ernest Hemingway, che di giorni indimenticabili ne poteva vantare una discreta collezione.
Il primo di questi è datato 8 luglio 1918, il giorno in cui si trovò faccia a faccia con la dentona arrivata sotto forma di shrapnel, una bomba da mortaio progettata per scoppiare all’altezza del suolo e scagliare tutt’attorno migliaia di piccole schegge metalliche utili a straziare i corpi dei malcapitati di turno.
In seguito, vista la popolarità mondiale dello scrittore, tanti - troppi - si sono buttati sul pezzo, raccontando chi in un modo chi in un altro, quel che è accaduto attorno all’una e mezza di notte di quel fatidico 8 luglio e qui, per riassumerlo al meglio e senza fronzoli, al posto di Hemingway: storia di una vita - la biografia scritta da Carlos Baker farcita da troppi e inaccettabili errori (di Baker preferisco il precedente volume: Hemingway. Scrittore e Artista, dove scrive di cose che lui conosce meglio) - ho deciso di appoggiarmi alle più sicure spalle di Giovanni Cecchin, uomo che ha dedicato gran parte della sua vita alla lettura dei documenti di Hemingway (ma non solo) conservati in alcune biblioteche statunitensi, dando poi alle stampe preziosi volumi che analizzano il ruolo dei soldati americani in Italia durante il primo conflitto mondiale.


Dal suo Hemingway Americani e Volontariato in Italia nella Grande Guerra estraggo:


Ma veniamo al “fattaccio” dell’8 luglio. Come appare dal Diario storico-militare del 69° della brigata Ancona, la notte tra il 7 e l’8 fu nervosa: “Durante il giorno tiri di disturbo da ambo le parti. Verso sera violenti concentramenti di fuoco dell’artiglieria nemica specialmente al bivio di Osteria di Fossalta e sulle strade adiacenti. La nostra artiglieria ha controbattuto efficacemente. Tiri di bombarde sull’argine dell’ansa di Lampol, occupata dal 1° Battaglione, specialmente dalle 22 alle 23. Tempo bello...”. Dopo la mezzanotte, con lo zaino colmo di sigarette, cioccolata e col bidoncino del caffè caldo, Ernest va a trovare gli amici di quel 1° Battaglione (quello del ten. [Cesare] Battisti!) “in un posto d’ascolto nella terra di nessuno in riva al Piave”. Era “un luogo in cui non doveva andare, che gli era stato espressamente proibito”, ha precisato allo scrivente Henry S. Villard (e l’ha ribadito nelle sue Memorie). Villard lo seppe nel 1975 dall’ex-infermiera dell’ospedale ARC milanese Agnes von Kurowsky, alla quale l’aveva confidato Ernest stesso. Ne erano convinti anche suoi ex-compagni di Schio. “Alla notizia del suo ferimento, francamente pensammo che fosse tutta colpa sua. Non si va a gironzolare nella terra di nessuno durante un bombardamento...”, ha scritto nel 1969 Emmet Shaw al biografo Carlos Baker.
Il “posto proibito” era un osservatorio e nido di mitragliatrici in calcestruzzo sul greto del Piave, in località nota a Fossalta come “il buso de Burato”, dove il fiume punta verso il paese. È chiaramente identificabile nella ricognizione aerea del campo di battaglia eseguita il 5 luglio dal ten. Vecchioni: è anche visibile il terrapieno che congiunge il “posto” alla retrostante trincea addossata all’argine. Lo scrivente ne ha pure ritrovato foto tra le carte del romanziere a Boston (EH 2559P) e nell’album di Bill Horne a Chicago (la prima, fatta avere a Hemingway da Samuel M. Sturgeon o dal capit. Gamble o da altro operatore ARC; la seconda - meno riuscita - probabilmente scattata dallo stesso Hemingway il 9 dicembre 1918, quando rivisitò Fossalta assieme ad Agnes von Kurowsky - e di cui in seguito - e poi da lui data all’amico Horne). Nel racconto “Qualcosa che mai proverete” si può leggere una resipiscenza o mea culpa di Ernest quando fa dire al capit. Paravicini incontrato a Lampol: “Qui non c’è niente da fare per te. Se tu andassi in giro con qualcosa di buono, gli uomini ti si affollerebbero intorno e ciò significherebbe bombardamento...”. È quel che avvenne.
Ernest e i mitraglieri del I Battaglione devono aver alzato un po’ la voce o fatto del trambusto, captato dagli austriaci sull’altra sponda, che fecero piombare sul posto un proiettile shrapnel. La drammatica “morte al rallentatore” in una fiammata accecante è descritta da Hemingway nella citata lettera ai genitori del 18 agosto e in una indimenticabile pagina di Addio alle armi. Fu investito in pieno dalle schegge. Uno dei soldati con cui stava parlando rimase ucciso. Un altro si lamentava pietosamente. Semisepolto da sacchetti di sabbia e detriti, Ernest era una maschera di sangue, con ferite multiple. Fu a questo punto che si comportò con autentico coraggio, meritandosi la Medaglia d’argento dal Governo italiano. Caricatosi del soldato ferito, s’incamminò per una cinquantina di metri lungo il terrapieno. Individuato alla luce di un bengala e di un riflettore, gli austriaci gli scaricarono una raffica di mitragliatrice che lo colpì alla coscia sinistra e al ginocchio destro. Rialzatosi, percorse un altro tratto e fu investito da una seconda raffica che lo colpì al piede destro e lo fece ruzzolare col ferito dentro la trincea addossata all’argine Regio, dove svenne.
Sul numero delle ferite (200, 227, 237...) e se abbia o no meritato la Medaglia, s’è sviluppata un’intera letteratura che tende a minimizzare tutto; e siamo in attesa che biografi in particolare d’oltre oceano, “informatissimi” delle cose italiane, ci vengano a dire che tutto o quasi è inventato, e che anzi Hemingway nel 1918 non è neppure stato in Italia!
Fu portato al Posto di medicazione di “Casa del sindaco” vicino al cimitero, dove ricevette le prime cure e si ebbe le simpatie del capitano italiano “suo amico” e degli altri addetti sanitari. Quindi, evitando la strada per Osteria bersagliata dall’artiglieria, fu trasferito in barella per viottoli fin dietro i ruderi di Casa Gorghetto vicino allo stradone. Aveva perso molto sangue ed era sotto shock. Circondato da altri feriti e da morti, sotto il martellare cadenzato delle vicine batterie italiane, Ernest aspetta, prega e combatte contro la disperazione, la tentazione di farla finita con la pistola d’ordinanza, come confesserà poi a Frances Pailthorp, un’amica delle vacanze del 1919 (ma il particolare è dubbio: gli operatori ARC non portavano pistola, e se Ernest, contro il regolamento, ne aveva una, l’avrebbe sicuramente persa alla medicazione di “Casa del sindaco”...). Alle prime luci dell’alba un’ambulanza italiana lo porta alla Sezione di Sanità delle scuole elementari di Fornaci, dove gli estraggono 28 grosse schegge e viene imbottito di morfina. Tra i feriti si aggira don Giuseppe Bianchi che, riconosciuto l’amico americano, lo battezza e gli amministra l’Estrema Unzione. Ernest, superato lo shock, è presto padrone di se stesso. Mentre è sdraiato per terra sulla barella gli è vicino un soldato dai capelli bianchi con la schiena appoggiata al muro. Ha l’uniforme stracciata e una fasciatura di emergenza che gli copre il moncherino di un polso distrutto. Ernest gli rivolge la parola: “Nonnino, sei troppo vecchio per questa guerra”. Il ferito, che è abruzzese, di rimando: “Corpo di bacco! Posso morire anch’io, come qualsiasi altro!”
Prima di sera Ernest finisce all’Ospedale da campo n. 162 di Villa Toso di Casier, poco a est di Treviso, gestito dalla Repubblica di San Marino, dove rimane per cinque giorni e si fa un amico: il ten. Giuseppe Barcelloni-Corte, 49 O.P.C. (Obici Pesanti Campali), 145a Batteria. Viene inutilmente ricercato dall’ispettore delle ambulanze capit. Bates e dal magg. Lowell. Ritrovato e più volte visitato dal capit. Gamble, il 15 luglio Ernest viene da lui accompagnato su di un treno-ospedale a Mestre, e tutti e due raggiungono Milano il mattino del 17.


Fin qui lo storico. Ma Hemingway cosa ha scritto in merito? Rimedio subito: qui sotto vi sono le lettere da lui scritte tra il 14 maggio e il 18 ottobre 1918, lettere che coprono il suo passaggio in Italia …e che insegnano non poche cose a ben vedere.



Alla famiglia
New York, 14 maggio 1918
Cari tutti,
ci siamo accampati qui in un albergo [Earle] molto bello di Washington Square. Il cuore di Greenwich Village. È a mezzo isolato dalla 5a Avenue, proprio sulla piazza. Il Gruppo di Harvard è partito questa mattina e noi partiamo martedì prossimo stando alle ultime notizie. Nel frattempo siamo a New York con Albergo e pasti pagati. A ognuno hanno dato un baule da ufficiale, uniformi degli ufficiali americani con tutti i distintivi, il mio nome e l’unità scritti sul baule, cappotto da ufficiali, l’impermeabile, 1 berretto da campo, 1 berretto da parata, 4 paia di biancheria pesante, guanti da autista in pelle morbida, 1 paio di mollettiere da aviatore di cuoio, 2 paia di scarpe da ufficiale, 1 maglione, 6 paia di calzettoni pesanti di lana, 2 camicie kaki, 1 camicia di lana, e un sacco di altre cose che non ricordo. Per ciascun uomo un equipaggiamento che vale molto più di $ 200. Le nostre uniformi sono quelle che danno agli ufficiali dell’esercito americano e sono belle sul serio. I soldati semplici e i sottufficiali devono salutarci. Potremo indossarle appena arriveranno i passaporti e avremo i visti. Ancora non è arrivato nessuno dei passaporti di Chicago. Mi farò fare la fotografia appena indosserò l’uniforme. Ho già messo tutto nel mio baule da ufficiale.
Ho incontrato Ted [Brumback] proprio ieri e qui dormiamo nella stessa camera. C’è un gruppo di ragazzi in gamba nella nostra unità e ce la spasseremo moltissimo. Ted era molto contento che Papà gli fosse andato incontro e molto dispiaciuto di non aver potuto vedervi tutti.
Abbiamo tutto il tempo che vogliamo e non dobbiamo presentarci a rapporto da nessuno. Questa mattina mi sono fatto mettere a posto l’uniforme e poi nel pom. Ted e How Jenkins, Harve Osterholm, Jerry Flaherty ed io siamo andati al Battery e abbiamo visitato l’acquario. Abbiamo perso tempo e siamo saliti sulla Woolworth Tower alta 796 piedi - 62 piani. Riuscivamo a vedere le navi mimetizzate dentro e fuori il porto e vedevamo fin su per l’East River all’Hell’s Gate, e a Hoboken il «Vaterland» usato adesso come trasporto. Ha fatto l’ultimo viaggio andata e ritorno in Francia in 14 giorni. Sono andato su e giù la Riverside Drive e ho visto New York dall’Harlem River a Nord e la tomba di Grant e sono andato dalla Libber of Goddesty [Statua della Libertà] a Sud. C’è un panorama magnifico dalla Woolworth Tower. Appena avrò messo la mia uniforme da ufficiale ho un impegno con la Mrs. e ho già investigato la possibilità della Little Church dietro l’angolo. Sapete, ho sempre pensato di sposarmi se fossi riuscito a diventare un ufficiale. È una nuova disposizione quella che ci fa ufficiali. Siamo una sorta di sottotenenti mimetizzati, come aviatori nel senso che non abbiamo uomini sotto di noi. Il ministero della guerra ha deciso l’uniforme per il servizio all’estero e l’ha fatto proprio prima della nostra partenza 3 o 4 giorni. Ecco spiegata l’attesa per i visti sui passaporti. Scrivetemi qui all’Albergo.
Con affetto, Ernie

Alla famiglia
in mare, c. 27 maggio 1918
Da qualche parte sul les briny
Cari tutti,
be’ stiamo avvicinandoci al nostro porto di sbarco ed entrando in una ben nota zona di sottomarini così vi spedisco questa epistola in modo che per lo meno una possiate riceverla. Pensiero allegro no? Questa è la bagnarola più marcia che ci sia al mondo e magari sto rivelando un segreto militare a dirvelo. Però lo è assolutamente. Provatevi a pensare quale sia la più scassata nave al mondo e saprete quella su cui me ne sto. Abbiamo avuto due giorni di tempo splendido, caldo e calma, solo una piacevole brezza! Proprio come le giornate sul lago Waloon. Poi ci siamo imbattuti in una tempesta che ha sgomberato con grande regolarità le sale da pranzo Mi presentavo per pranzo e stavo bene finché non vedevo il vicino premersi la mano sulla bocca e compiere un improvviso balzo verso la porta e allora il potere della suggestione diventava troppo grande e scattavo anch’io verso il parapetto. Comunque abbiamo avuto due giorni di vera e propria tempesta con la nave che rullava, si coricava di fianco e compiva lunghi e lugubri giri e io ho rigettato soltanto quattro volte. Un record, no? Come state voi tutti compresa la massiccia Ivory e il ben noto Dessie. Ted e io e Howell Jenkins stiamo facendo gruppo e ce la spassiamo. La tempesta adesso è finita e negli ultimi due giorni c’è stato un tempo molto piacevole.
Stiamo anche facendo comunella con due tenenti polacchi. Il Conte Galinski e il Conte Horcinanowitz anche se non si scrive così. È gente a posto. Stare con loro ci ha insegnato che c’è una gran differenza tra polacks e Polacchi. Ci hanno invitato a visitarli a Parigi e faremo una grande festa oui. Dovremmo attraccare dall’altra parte dell’Atlantico tra quattro giorni ormai. Questa la spedirò al porto e sarà l’unica lettera che vi invierò da lì quindi non preoccupatevi. Ci siamo divertiti moltissimo nella piccola vecchia Gotham e siamo ormai dei confermati viveurs di Broadway. La Croix Rouge si è presa cura di noi mentre eravamo lì, e non ci mancava niente. Quelli della Y.M.C.A. che è la stessa cosa qui come a casa e quindi sapete cosa voglio dire, sono onnipresenti qui a bordo. Anche parecchi negri della Y.M.C.A. I Cavalieri di Colombo hanno a bordo parecchi rappresentanti e mi sembrano anche più umani Ted e Jenks e io abbiamo avuto la seconda iniezione l’altro ieri e ho il braccio che a questo punto è quasi fisso. Dovremo farne ancora un’altra. In Francia o in Italia. Ciascuna mi ha fatto star male come un cane. Sono triple tifoidali e parecchio più potenti di quelle che mi avevano fatto a scuola. Poco fa si è fatto vedere un grosso incrociatore americano avviato verso casa e l’abbiamo eliografato e segnalato con le bandierine. È la prima nave che abbiamo visto da quando siamo nell’atlant. È molto bello guardare la sera quando le onde fosforescenti si infrangono contro la prua. Anche la scia è fosforescente e quando c’è mare agitato le creste delle onde soffiano via come scintille da un fuoco all’aperto. Abbiamo visto diversi delfini e anche pesci volanti. Alcuni ragazzi che si sono alzati presto la mattina sostengono di aver visto una balena, però li guardiamo con un certo sospetto.
A bordo il rancio è molto buono però ci servono solo due pasti al giorno. Alle dieci e alle cinque. Caffè e pane duro per colazione se lo vogliamo ma non merita alzarsi per quello. Secondo le ultimissime andremo dritti al nostro quartier generale dopo Parigi e poi al fronte. Per sostituire il gruppo che ha finito il suo turno. I nostri sei mesi iniziano dal giorno che cominciamo a guidare e probabilmente ci porteranno nel bel mezzo dell’inverno. Scrivetemi presso il Consolato americano, Milano, Italia, Italian Ambulance Service, American Red Cross.
Affettuosamente Ernie

A Ruth [Morrison]
Fossalta di Piave, c. 22 giugno 1918
Cara Ruth,
come vanno le cose nell’antico villaggio? Mi sembra tutto un milione di miglia lontano e pensare che quest’ora l’anno scorso avevamo appena preso il diploma. Se qualcuno mi avesse detto mentre stavo leggendo quella scema di profezia che di lì a un anno mi sarei ritrovato seduto davanti a una trincea a venti metri dal Piave e a quaranta dalle linee austriache ascoltando i piccoli sibili su in cielo e i grandi scheeeeeeeek Boom e ogni tanto una mitragliatrice andarsene tick e tack e tock avrei detto, «Va’ a prenderti un altro sorso». Questa è una frase un tantino complicata ma serve a dimostrare che profeta del cavolo ero.
Così sono classificato soto Tenente nell’esercito italiano e ho lasciato il servizio Ambulanze della Croce Rosa Americana un po’ di tempo fa, temporaneamente per farmi un po’ di azione. Non diramare questo alla famiglia che affettuosamente pensa che stia guidando una Ford.
Sono di stanza in una bella casa circa un miglio e mezzo dalle linee austriache. 4 stanze. 2 giù e 2 su. L’altro giorno una cannonata è arrivata attraverso il tetto. Adesso di stanze ce ne sono tre. Due giù e 1 su. Io ero nell’altra. La morale eccola: dormire su. I grandi cannoni italiani ci sono alle spalle e ruggiscono tutta la notte. Quel che mi tocca fare è corrermene a un posto di ricovero Cioè, distribuisco cioccolata e sigarette ai feriti e ai soldati della prima linea. Ogni pom. e mattina riempio uno zaino e prendo il mio macinino, maschera anti-gas e smammo verso le trincee. Senz’altro mi diverto mi pesa però che non ci sia nessun americano. Gente, ho quasi dimenticato come si parla l’inglese. Se Cannon o il vecchio Loftbery potessero sentirmi parlare tutto il giorno l’italiano si volterebbero nelle loro tombe. Gente mi vien proprio la nostalgia per un’occhiata a una ragazza americana come si deve anche se darei le pistole automatiche austriache catturate, i miei elmetti tedeschi, tutta la cianfrusaglia che ho catturata e le opportunità che mi spettano di meritarmi una croce di guerra anche per un solo giro di ballo.
Credi allo scrivente che ti dice che se vuoi fare un’opera buona devi scrivermi all’indirizzo sulla busta, poi mi sarà inoltrata. E, Ruth, se conosci qualcuno che conosco a Oak Park con un minimo di possibilità che mi scriva, tu dagli addosso e promettigli da parte mia che sarò uno di quelli che risponde immediatamente. Non ho ancora ricevuto una lettera dagli States e sono qui dal 4 di giugno.
Mi sono arrampicato fuori questo pomeriggio e ho scattato alcune foto del Piave e delle trincee austriache. Se mi vengono bene te ne manderò qualcuna. L’ora del rancio si avvicina e sono affamato.
Così (sai come mi veniva sempre il nervoso quando avevo da dire addio quindi me la squaglio in fretta, lasciandoti tutta sola con la lettera).
Ernie

Alla famiglia
Milano, 21 luglio 1918
Cari tutti,
immagino che Brummy vi abbia scritto a proposito delle mie sforacchiature, quindi non c’è nulla che possa aggiungere. Spero che il cablo non vi abbia preoccupato troppo ma il Cap. Bates ha pensato che fosse meglio che aveste notizie direttamente piuttosto che dai giornali. Questo perché sono il primo americano ferito in Italia e immagino che i giornali avranno qualcosa da dire in merito.
Qui è una giuggiola di ospedale, ci sono sparpagliate circa diciotto infermiere americane che si prendono cura di quattro ricoverati. Va tutto bene e sto comodo e le mie ferite vengono curate da uno dei migliori medici di Milano. Ho ancora dentro un paio di pezzi, una pallottola nel ginocchio rivelata dai raggi-X. Il chirurgo, molto saggiamente, dopo il consulto ha deciso di aspettare che la ferita nel ginocchio destro si rimargini pulita prima di operare. La pallottola a quel punto sarà alquanto incistita, e lui potrà fare un taglio netto ed entrare sotto il ginocchio. Consentendogli prima di rimarginarsi completamente eviterà qualsiasi pericolo di infezione o che il ginocchio diventi rigido. È saggio, non ti sembra papà? Allo stesso tempo asporterà anche una pallottola dal piede destro. Probabilmente opererà tra circa una settimana perché la ferita si sta rimarginando bene e non c’è infezione. Al Pronto Soccorso mi hanno immediatamente fatto due iniezioni antitetaniche. Tutte le altre pallottole e le schegge sono state rimosse e tutte le ferite della gamba sinistra stanno guarendo bene. Le dita sono a posto e mi hanno tolto le bende. Non ci saranno effetti permanenti per nessuna delle ferite data l’assenza di fratture. Nemmeno nelle ginocchia. Sia in quella sinistra sia in quella destra i colpi non hanno fratturato la patella; una scheggia grande grosso modo come un cuscinetto era rimasta nel ginocchio sinistro ma è stata rimossa e il ginocchio adesso si muove perfettamente e la ferita è quasi guarita. Nel ginocchio destro la pallottola è entrata da sinistra.


Quando riceverete questa lettera il chirurgo avrà già operato e sarà tutto a posto e spero di tornare a guidare nelle montagne verso fine agosto. Ho alcune belle fotografie del Piave e molte altre interessanti. Anche un bel mucchio di souvenir. Sono stato lì per tutta la durata del grande scontro e ho carabine e munizioni austriache, medaglie tedesche e austriache, pistole automatiche da ufficiali, elmetti Boche, circa una dozzina di baionette, pistole lanciarazzo e pugnali e quasi ogni altra cosa cui si possa pensare. L’unico limite al quantitativo di souvenir è la possibilità di portarmeli dietro perché c’erano tanti di quegli austriaci morti e prigionieri che il terreno ne era quasi nero. È stata una grande vittoria e ha mostrato al mondo che magnifici combattenti sono gli italiani.
Vi dirò tutto quanto quando tornerò a casa per Natale. Qui adesso fa moltissimo caldo. Le vostre lettere le ricevo regolarmente. Esprimete tutto il mio affetto a tutti, e ancora a tutti voi.
Ernie

Alla famiglia
Milano, 18 agosto 1918
Cari tutti,
il che comprende nonna e nonno e Zia Grace. Grazie moltissime per le 40 lire! Sono state molto apprezzate. Gente, ce ne sono state di storie per il fatto che mi hanno sparato! Le Foglie di Quercia e l’opposizione sono venuti oggi e ho cominciato a pensare, gente mia, che forse non mi apprezzavate mica tanto quando risiedevo nel grembo. È quasi bello come farsi ammazzare e poi leggere il proprio necrologio.
Sapete si dice che non ci sia proprio niente di divertente in questa guerra. Difatti non c’è. Non arriverò a dire che è infernale, sarebbe andare un tantino in là dopo il Gen Sherman, ma ci sono state circa 8 volte in cui avrei accettato volentieri l’Inferno, nella speranza che non fosse come quella fase della guerra che stavo affrontando. Per esempio. Nelle trincee durante un attacco quando un colpo centra un gruppo in cui te ne stai. Le cannonate sono bruttine solo quando fanno proprio centro. Con le schegge devi rischiare. Ma quando c’è un centro i tuoi amici ti si schizzano tutti addosso, e dico schizzano a ragion veduta. Durante i sei giorni che me ne sono stato in prima linea, a solo 50 metri dagli austriaci, mi sono convinto di avere una vita per così dire incantata La convinzione in sé non significa molto ma il fatto che la tua vita lo sia sì! Spero di averla. Quel rumore che state sentendo sono le mie nocche che toccano il vassoio di legno.
È troppo difficile scrivere sui due lati del foglio quindi salto.
Be’ adesso posso sollevare la mano e dirvi che sono stato bombardato da esplosivo, shrapnel e gas. Mi hanno sparato addosso con mortai da trincea, fucili e mitragliatrici, e tanto per aggiungerci qualcosa c’era anche un aereo che mitragliava le linee. Non mi hanno mai buttato addosso una bomba a mano, ma una lanciata da un fucile mi è atterrata vicino. Chissà, forse una bomba a mano me la beccherò in seguito. Ora in tutta quella confusione essere colpito solo da un mortaio e da un colpo di mitraglia mentre mi facevo strada verso le retrovie come dicono gli irlandesi, è stata una bella fortuna. Non vi pare, Famiglia? Le 227 ferite che m’ha procurato il mortaio al momento non mi hanno fatto minimamente male, solo i piedi che mi sembravano degli stivali di gomma pieni di acqua. Acqua calda. E poi il ginocchio mi si stava comportando in modo strano. I proiettili della mitraglia mi sono sembrati come se la gamba mi fosse stata colpita da una palla di neve ghiacciata. Comunque m’ha rovesciato. Però mi sono rialzato e son riuscito a portare i miei feriti nella trincea. Poi lì sono per così dire crollato. L’italiano che avevo con me mi aveva sanguinato su giacca e pantaloni e sembrava che qualcuno ci avesse fatto la marmellata di more e poi avesse praticato dei buchi per lasciarci uscire la polpa. Be’ il capitano che era un mio grande amico, era sua la trincea, mi fa, «Povero Hem, presto sarà R.I.P.». Il che vuol dire Riposa In Pace. Capite, pensavano che mi avessero sparacchiato nel petto per via della giacca insanguinata ma mi sono fatto togliere la giacca e la camicia. Non portavo la maglia e il vecchio torace era intatto. Allora hanno detto che probabilmente sarei sopravvissuto. Il che mi ha rallegrato non poco. Gli ho detto in italiano che volevo vedermi le gambe, anche se avevo paura di guardarle. Allora mi hanno tolto i calzoni e le vecchie gambe erano ancora lì ma gente che caos. Non riuscivano a capire come avevo fatto a percorrere i 150 metri con quel peso ed entrambe le ginocchia sforacchiate e anche lo scarpone in due posti. Inoltre più di 200 ferite superficiali. «Oh» faccio io, «mio Capitano, non è niente. In America lo fanno tutti! È ritenuta la cosa giusta non consentire al nemico di accorgersi che hanno catturato le nostre capre!»
Questo discorso delle capre ha richiesto una notevole abilità linguistica ma sono riuscito a comunicarlo e poi mi sono per così dire addormentato per un paio di minuti. Quando sono tornato in me mi hanno portato con una barella per tre chilometri fino al pronto soccorso. I barellieri hanno dovuto faticare mica male perché alla strada stavano bombardando via anche le «interiora». Ogni volta che ne arrivava una grossa, Whee -whoosh- Boom - mi mettevano giù e si buttavano a terra. Le ferite a quel punto mi facevano male come se 227 demonietti stessero piantandomi dei chiodi nella viva carne. Il pronto soccorso era stato evacuato durante l’attacco così me ne sono rimasto due ore in una stalla con il tetto che era stato sparato via, in attesa di un’ambulanza. Quando è arrivata ho ordinato che andasse prima a prendere i soldati che erano stati feriti. Tornò con un carico e quindi mi ci misero dentro anche me. Il bombardamento era ancora piuttosto pesante e alle nostre spalle le batterie continuavano a sparare e i grossi 250 e 350 che ci passavano sulla testa direzione Austria facevano un fracasso come treni. Poi li sentivamo scoppiare dietro le linee. Poi arrivava un grosso proiettile austriaco e lo schianto dell’esplosione. Però noi gliene davamo di più e più grossi di quelli che ci mandavano loro. Poi una batteria di cannoni da campagna cominciava a scatenarsi, appena dietro la stalla - boom, boom, boom, boom e i Settantacinque o i 149 prendevano a frustare sopra le linee austriache e sempre c’erano i razzi e le mitraglie che andavano come tat-a-tat, tat-a-tat.
Dopo una corsa di un paio di chilometri in un’ambulanza italiana mi scaricarono in un pronto soccorso dove tra gli ufficiali medici avevo un sacco di amici. M’hanno dato una iniezione di morfina e un’altra di antitetano, e mi hanno rasato le gambe e estratto circa Venti schegge di cannone 8 che variavano da [disegno della scheggia] a circa [disegno di scheggia] quanto a dimensioni. Han fatto un ottimo lavoro di fasciatura e poi mi hanno tutti stretto la mano e mi avrebbero baciato se non li avessi presi in giro. Poi sono rimasto cinque giorni in un ospedale da campo e quindi sono stato evacuato all’ospedale base qui.
Vi ho mandato quel cablo affinché non vi preoccupaste. È un mese e 12 giorni che sono nell’Ospedale e spero di uscire tra un altro mese. Il chirurgo italiano ha fatto una giuggiola di lavoro sulla giuntura del ginocchio destro e sul piede destro. Ci sono voluti 28 punti e mi garantisce che riuscirò a camminare come prima. Le ferite sono tutte rimarginate e belle pulite e non c’è stata infezione. La gamba destra me l’ha fermata perché la giuntura vada a posto. Ho alcuni souvenir in gamba che lui ha tirato fuori con l’ultima operazione.
Non mi sentirei davvero a mio agio adesso se non avessi un po’ di dolore. Il chirurgo mi taglierà il gesso tra circa una settimana e mi permetterà di muovermi con le grucce tra circa 10 giorni.
Dovrò imparare di nuovo a camminare.
Mi chiedete di Art Newburn. Era nella nostra sezione ma è stato trasferito alla II. Adesso nella nostra sezione c’è Brummy. Non mettetevi a piangere se vi dico che nella mia lontana giovinezza ho appreso a giocare a poker. Art Newburn si illudeva di essere un giocatore di poker. Non scenderò nei malinconici particolari ma l’ho convinto del contrario. Senza aver nulla in mano ho tenuto duro. Ho raddoppiato le sue puntate e gli ho bluffato via un piatto di 50 lire. Lui aveva tre assi e aveva paura di vedere. Prova a raccontarlo a qualcuno che sa il gioco, Pop. Credo che Art abbia detto in una lettera che ha scritto a casa a quelli di Oak Park che avrebbe avuto cura di me. Ora Pop dimmi da uomo a uomo se quello era aver cura di me? No, proprio no. Così vedi che se da una parte la guerra non è divertente durante la guerra di cose divertenti ne accadono molte. Ma Art ha vinto il campionato italiano del tiro al ferro di cavallo.
Questa è la lettera più lunga che io abbia mai scritto a chiunque e non dice neanche tutto. Ricordami a tutti quelli che hanno chiesto di me e come dice Ma Pettingill, «Tenete accesi i focolari».
Buonanotte e abbracci a tutti.
Ernie
P.S. Ho ricevuto oggi dagli Helmles una lettera indirizzata al soldato semplice Ernest H. Quel che sono è S. Ten. o Soto Tenenente Ernest Hemingway. È il mio grado nell’esercito italiano e significa Sottotenente. Spero di essere presto Tenenente.

Al Dr. C.E. Hemingway
Milano, 11 settembre 1918
Caro papà,
le tue lettere del 6 e dell’11 agosto sono arrivate oggi. Sono contento che tu abbia ricevuta quella di Ted e so che sarà lietissimo di avere tue notizie. È arrivato qui dal Fronte appena ha saputo che ero ferito, è qui alla Base e ti ha scritto quella lettera da Milano. È stato prima che mi facessero i raggi alla gamba o mi operassero e così non so esattamente cosa ti abbia detto in merito perché stavo troppo male per curarmene. Spero però che ti abbia detto giusto. Ho ricevuto una sua lettera dal Fronte un paio di giorni fa e stanno spassandosela. La mamma mi ha scritto che tu e lei andavate a Nord e sono sicuro che vi siete fatti una buona vacanza. Scrivimi per bene se per caso hai pescato. Ecco cosa mi fa odiare questa guerra. L’anno scorso a quest’epoca stavo prendendo delle meravigliose trote alla Baia [Horton].
Oggi sono a letto e probabilmente non lascerò l’ospedale prima di altre tre settimane. Le gambe stanno andando benissimo e tutt’e due alla fine saranno assolutamente O.K. La sinistra adesso sta bene. La destra è rigida ma i massaggi e la cura del sole e movimenti passivi stanno sciogliendo il ginocchio. Il mio chirurgo Capitano Sammarelli. uno dei migliori chirurghi italiani, continua a chiedermi se ritengo che sarai pienamente soddisfatto delle operazioni. Dice che il suo lavoro va ispezionato dal grande chirurgo Hemingway di Chicago e quindi vuole che sia tutto perfetto. E lo è. C’è una cicatrice lunga circa 8 pollici sotto il piede e una bella nitida in cima. È così che fanno i proiettili rivestiti di rame quando ti si infilano. Anche il ginocchio è una bellezza. Non potrò mai più portare il kilt, papà. La gamba sinistra, la coscia e il lato sembrano come se un vecchio cavallo fosse stato marchiato e rimarchiato da qualcosa come 50 proprietari. Saranno tutti segni distintivi.
Adesso posso muovermi per le strade un po’ ogni giorno con un bastone e una gruccia, ma ancora non riesco a infilarmi la scarpa destra. Oh, sì! Sono stato fatto tenente e adesso ho le due strisce dorate su ciascuna manica. Per me è stata una sorpresa perché non mi aspettavo niente del genere. Così adesso potrete indirizzarmi le lettere sia come 1st Lieut o Tenente perché il grado vale per la Croce Rossa americana e per l’Esercito Italiano. Credo di essere il tenente più giovane dell’esercito Comunque mi sento tutto intappato con i gradi e la cordicella in spalla e il mio cinturone. Ho anche sentito dire che la mia medaglia valore [sic] d’argento è in arrivo e che probabilmente la riceverò appena esco dall’Ospedale. Inoltre mi hanno fatto sapere dal fronte che ero stato proposto per una croce di ferro prima d’essere ferito a motivo d’una generale condotta pazzoide nelle trincee, suppongo. Così probabilmente verrò decorato con entrambe le medaglie contemporaneamente. Il che non sarebbe poi male.
P.S. Se non è troppo vorrei che tu facessi l’abbonamento al Sat. Eve. Post per me in modo che me lo inoltrino qui. Poi me lo rispediranno dovunque mi trovo. C’è un tremendo bisogno di letture americane quando sei al fronte.
Grazie, Ernie
Sono proprio contento che Hop [Charles Hopkins] e Bill Smith saranno vicini dove potrai essere d’aiuto a entrambi. Sono due dei migliori Amici che ho specialmente Bill. Fallo venire spesso perché so che ti piacerà e ha fatto tanto per me. Probabilmente quando uscirò tornerò per un po’ all’ambulanza perché la banda vuole che vada a trovarli e vogliono fare una gran festa.
L’altro giorno ho ricevuto una lunga lettera da tutti quelli della sezione. Mi piacerebbe tornare all’ambulanza ma per sei mesi non servirò molto come autista. Probabilmente prenderò il comando di qualche appostamento di prima linea sulle montagne. Comunque non preoccuparti per me perché è stato definitivamente provato che non possono uccidermi e andrò dove potrò essere più utile e come sai è per questo che siamo qui. Be’, Ciao Vecchio Scout,
Affettuosamente tuo figlio Ernie

Alla famiglia
Milano, 18 ottobre 1918
Cari tutti,
la vostra lettera del 24 settembre con le foto è arrivata oggi e, cara famiglia, sono ammirato per le notizie. E le foto sono terribilmente belle. Credo che ormai in Italia tutti sappiano che ho un fratello più giovane. Se solo vi rendeste conto di quanto apprezzo le foto, pop, me le manderesti spesso. Di te e dei ragazzi e della casa e della baia - sono le cose che più mi rallegrano e a tutti piace vedere le foto di tutti gli altri.
Tu, papà, parli di venire a casa. Non verrei a casa prima della fine della guerra neanche se negli States potessi guadagnare quindicimila all’anno - no. Il mio posto è qui. A tutti noi della Croce Rossa qui è stato ordinato di non arruolarci. Sarebbe sciocco per noi tornare a casa perché la Croce Rossa è un’organizzazione necessaria e a quel punto dovrebbero mandare altri uomini dagli Stati Uniti per continuarne il funzionamento. E poi siamo venuti qui solo dopo essere stati respinti per il servizio militare. Sarebbe criminale per me tornare adesso negli States. Sono stato respinto prima di partire dagli States a motivo del mio occhio. Adesso ho una gamba e un piede malandati e non c’è esercito al mondo che mi prenderebbe. Ma qui posso essere utile e me ne resterò finché riesco a zoppicare e c’è una guerra in cui zoppicare. E l’ambulanza non è un lavoro da niente. Abbiamo perso un uomo, ucciso, e un altro ferito nelle ultime due settimane. E quando ti stai occupando dei vettovagliamenti al fronte sai di avere esattamente le stesse possibilità di cavartela degli altri uomini in trincea e quindi la mia coscienza non mi dà patemi a proposito di restare.
Naturalmente mi piacerebbe venire a casa e vedervi tutti. Ma non posso finché la guerra non è finita. E non ci vorrà un tempo terribilmente lungo. Non c’è nulla di cui dobbiate preoccuparvi perché è stato provato abbastanza definitivamente che non riescono a farmi fuori. Le ferite non contano. Non mi dispiacerebbe neanche molto restare ferito un’altra volta, perché ormai so com’è. E, sapete, più di tanto non si può soffrire e ti dà una sensazione davvero di soddisfazione essere ferito. È come esser preso a botte per una buona causa. In questa guerra non ci sono eroi. Offriamo tutti i nostri corpi e soltanto pochi vengono scelti, ma questo non significa nessun particolare merito per quelli che vengono scelti. Sono soltanto i più fortunati. Sono orgoglioso e contento che sia stato scelto il mio, ma ciò non dovrebbe darmi nessun merito extra. Pensate alle migliaia di altri ragazzi che si sono offerti. Gli eroi sono tutti morti. E i veri eroi sono i genitori. Morire è una cosa molto semplice. L’ho guardata la morte e lo so davvero. Se fossi morto mi sarebbe stato molto facile. È senz’altro la cosa più facile. Ma la gente a casa non se ne rende conto. Soffrono mille volte di più. Quando una madre mette al mondo un figlio deve sapere che un giorno il figlio morirà e la madre di un uomo che è morto per il suo paese dovrebbe essere la donna più orgogliosa del mondo, e la più felice. E quanto è meglio morire nel periodo lieto della gioventù non ancora disillusa, andarsene in un fulgore di luce, invece di lasciare che il proprio corpo si sciupi e invecchi e che le illusioni s’infrangano.
Quindi, cara vecchia famiglia, non preoccupatevi di me! Non è poi male essere feriti: lo so, perché l’esperienza l’ho fatta. E se morirò, sarò fortunato.
Tutto questo vi suona come il ragazzo pazzo e selvatico che avete spedito nel mondo un anno fa perché imparasse? È un gran vecchio mondo, comunque, e mi ci sono sempre divertito e le probabilità sono tutte a favore di un mio ritorno. Comunque, ho pensato bene di dirvi come mi sentivo. Adesso tra una settimana circa vi scriverò una lettera bella e allegra e lunga, quindi non lasciatevi abbattere da questa. Vi voglio bene a tutti.
Ernie

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI

Lanificio Cazzola, Schio








Bassano del Grappa


Sul ponte di Bassano
noi ci darem la mano...
ma qui una mano scivola altrove














Ca' Erizzo
Museo Hemingway
e della Grande Guerra













mercoledì 11 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (1 di 4)


John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 196-205

[…] Non ricordo come ci siamo incontrati. Nonostante le sue preoccupazioni riguardo alla posizione sociale, Don riusciva a sembrare buffo qualsiasi cosa facesse. Noi ridevamo come matti tutte le volte che ci si vedeva.
La mia mancanza di orientamenti di carattere sociale gli sembrava deplorevole. Era deciso a farmi incontrare la gente giusta. Nonostante tutto gli sarò eternamente grato di avermi presentato a Gerald e Sara Murphy.
Deve essere avvenuto a Parigi. Avevo già perduto un bel po’ del mio appetito per la Ville Lumière, anche se amavo i concerti, i musei e il tè agli Championnière, rue de Clichy. Nella primavera del 1922 già scrivevo ad Arthur McComb che conoscevo Parigi troppo bene. «I ricordi mi fanno le boccacce da tutti gli angoli. Non mi rammento se si tratta di quest’anno o dell’anno precedente. Si può a mala pena sopportare il presente, ma incontrare a ogni passo il passato col suo eterno specchio infernale è insopportabile . . . una cosa che detesto.»
L’incontro con Don Stewart a Parigi significò vedere la città in una nuova fantasiosa visuale tipo commedia di Madison Avenue: Mr. and Mrs. Haddock Abroad. Quando mi condusse dai Murphy mi diede l’opportunità di conoscere qualcosa di ben diverso dalla mischia dei letterati espatriati che gravitava intorno a Montparnasse, dei quali già avevo orrore.

Naturalmente Hemingway costituiva un’eccezione, così come Cummings. In quel tale universo privato che stavo confezionando a mio uso, la gente di lettere in genere, in particolare il Greenwich Village e gli esuli di Parigi, stavano fra le categorie scomunicate.
Il loro atteggiamento verso la vita mi dava la nausea. Ma dal momento nel quale cominciavo a stringere amicizia con uno o con una di loro, immediatamente costui o costei diventava l’eccezione unica e intoccabile.
Don, Ernest ed io avevamo già cominciato a frequentarci con regolarità nel periodo nel quale conobbi i Murphy; credo comunque che Ernest ed io ci siamo conosciuti l’anno nel quale è stato pubblicato l’Ulisse,[1] mentre era a Parigi per il «Toronto Star».[2]
Ricordo vagamente una colazione con lui e con Hadley al Lippe, (sic!) prima che nascesse Bumby; Ernest parlava splendidamente di una qualche conferenza internazionale alla quale aveva recentemente partecipato.[3] Quando era giovane, possedeva un acume tale per le cose politiche che non incontrai mai più qualcuno che lo uguagliasse. La sua conoscenza del linguaggio delle palestre di boxe e dei posti di polizia, che aveva acquisito a Kansas City e a Toronto, gli aveva fornito quel mezzo di comunicare diretto il quale dava alle sue storie il tono della verità. Tutto era messo a fuoco con estremo nitore. Io trovavo molto stimolanti i suoi giudizi aspri su Clemenceau, su Lloyd George e su Litvinov. Ci trovavamo perfettamente d’accordo nell’avere per Liebknecht e per Rosa Luxemburg una specie di culto geloso. Deve avermi mostrato un breve pezzo,[4] che in seguito incluse in Our Time,[5] perché ricordo di averlo fin da quel momento giudicato scrittore dotato in alto grado del possesso della lingua inglese.
Comunque, in qualsiasi circostanza di tempo sia avvenuto questo nostro incontro, ne parlammo parecchio insieme, nel tentativo di ricostruirne gli estremi, riandando nella memoria a un tempo nel quale nessuno di noi due aveva neppure la minima idea che sarebbe divenuto in seguito ciò che, nonostante le nostre ironie, il povero Sherwood Anderson qualificava «personaggio mondiale». Un primo incontro fra noi può darsi fosse già avvenuto, a Schio, nel maggio 1918, quando Ernest era appena arrivato in Italia con la 4a Sezione Ambulanze della Croce Rossa, ed io stavo per lasciare la 1a Sezione di Bassano in un mare di guai. Fairbanks ed io avevamo spesso il compito di portare i feriti a una base ospedaliera vicino a Schio e il nostro incontro con la 4a Sezione può essere avvenuto appunto in uno di questi viaggi. Ernest ed io ci ricordavamo vagamente l’uno dell’altro.
Fu soltanto nel 1924, quando Hem, come eravamo in molti a chiamarlo, e Hadley vivevano nella segheria della rue Notre-Dame-des-Champs,[6] che iniziò fra noi due quel gioco reciproco di convivenza che si protrasse nelle nostre vite. Hadley mi fu simpatica fin dal primo incontro. Era nato Bumby.[7] Era stato durante una delle mie corse a Parigi da un treno all’altro.
Con Hem m’incontravo di tempo in tempo alla Closerie des Lilas all’angolo di Saint-Michel con Montparnasse a bere delle bibite innocue come vermouth-cassis mentre si parlava delle difficoltà di metter sulla carta i propri pensieri; tutti e due stavamo leggendo il Vecchio Testamento. Ci leggevamo dei brani a vicenda. I nostri passi preferiti erano il canto di Deborah, il Libro delle Cronache e il Libro dei Re.[8]
Era uscito In Our Time ed io lo sostenevo a spada tratta. Appoggiavo le mie asserzioni sulla constatazione che Hem, con i suoi acuti, brevi periodi, secondo il linguaggio telegrafico o alla King James Bible, sarebbe diventato il più grande stilista della lingua americana.
Doveva essere primavera, perché eravamo seduti in un piccolo giardino triangolare fra i due boulevards e ricordo che mi aveva divertito il fatto che, a dispetto del nome, un vero giglio fioriva nella Closerie.
Poi siamo tornati, attraverso la folla delle cinque, alla segheria, per aiutare Hadley a fare il bagno a Bumby. Bumby era un bambino grasso, pieno di salute, affabile, e si divertiva di tutto. Lo si metteva a letto e dopo lo lasciavamo alle cure di una piacente, vivace contadina francese che veniva alla segheria a questo scopo, e noi tre uscivamo per cena. Aiutare a mettere a letto i figli degli amici prima di uscire per la cena era diventato uno degli aspetti piacevoli della società dei giovani in America; io mi ci sono sempre divertito. Gli uomini, quando hanno accanto una donna, diventano meno egoisti. Allo stesso modo, sia i giovani uomini che le giovani donne, quando hanno da prendere cura dei loro marmocchi, finiscono per essere più autentici, meno sussiegosi.
Fin dal principio Hem fu sempre terribilmente predisposto agli incidenti. Non ho mai conosciuto un uomo che abbia provocato tanti danni quanto lui alla propria carcassa. È di questo periodo l’episodio del lucernario dell’abbaino esterno al suo appartamento, che gli cadde in testa e gli provocò un trauma cranico e un taglio nel cuoio capelluto per cui fu necessario un ricovero in ospedale di alcune settimane.[9] La cicatrice gli rimase per tutta la vita.
Quando non c’era l’incidente, c’era il mal di gola. Era come uno di quegli atleti professionisti i quali, nonostante siano forti come tori, hanno sempre qualcosa. Mi sono costantemente difeso dal battermi alla boxe con Hem; il fatto che io porto gli occhiali ha offerto una buona scusa al mio desiderio di non competere con lui in questo settore.
Io non sapevo neppure andare in bicicletta. Hem andava matto per le corse in bicicletta. S’infilava in un maglione a righe come quello dei corridori del Tour de France e pedalava lungo tutti i boulevards esterni con le ginocchia all’altezza delle orecchie e il mento fra i manubri. Io trovavo tutto ciò un po’ sciocco, ma a quel tempo Hem aveva il gusto di certe bambinate.
Aveva una sfumatura di spirito, evangelica, che lo spingeva a cercar di convertire i suoi amici a tutte le sue varie manie. Seguirlo alle Sei Giorni è stato per me un divertimento; la Sei Giorni al Vélo d’Hiver era una buffa storia. Gli eventi sportivi in Francia, per il loro aspetto piuttosto comico, mi divertivano molto. Facevamo la spesa in botteghine e spacci di una di quelle stradette dove ci sono i mercati che piacevano tanto a tutti e due: vino, formaggio, pagnottelle croccanti, pâté e qualche volta pollo freddo; ci sedevamo in galleria; Hem conosceva tutti i dati tecnici, e vita morte miracoli dei corridori. Il suo entusiasmo era contagioso, ma tendeva a fare della cosa un affare serio, mentre per divertirmi, a me bastava bere, mangiare e guardare.
Di tanto in tanto gli veniva in mente che noi due, nella nostra qualità di scrittori di fama internazionale, eravamo rivali; allora diventava silenzioso; oppure capitò anche che mi imponesse freddamente di non scrivere mai niente sulle corse di bicicletta; questa era zona sua. Lo rassicuravo che scrivere di sport non era il mio genere, e che d’altronde Paul Morand aveva già preceduto tutti in La Nuit des Six Jours.[10]
Poteva anche darsi che fosse proprio perché avevo letto Paul Morand che lo spettacolo mi divertiva. Come Hem, anch’io mi sforzavo di cogliere gli eventi e di portarli direttamente sulla pagina; però continuavo ad avere il dubbio che fosse la vita a copiare l’arte, e non viceversa. Hem forzava la povera Hadley a restare seduta là tutta la notte, ma io, quando mi veniva sonno, me la battevo e andavo a dormire a casa mia. Fin d’allora era duro con le sue donne. Eppure sono convinto che sia stato più un costruttore che un distruttore. Quando le lasciava, erano più agguerrite per la vita di quanto non fossero quando le aveva incontrate. Senza dubbio, nei giorni della giovinezza, la versatilità del suo carattere, il suo temperamento estroso avevano sugli altri, che gli capitassero intorno, un effetto stimolante. Nel periodo della nostra amicizia, mi permise un confronto con la vita sportiva che, senza di lui, non avrei mai potuto sperimentare.
Fin d’allora era irritabile. Provava pietà per se stesso. Una delle sue angosce era il non avere avuto una educazione da College. Io gli dicevo che invece questa era una grande fortuna. Che pensasse a tutta la fatica in meno che aveva dovuto fare per dimenticare la cultura della scuola. Gli dicevo, supponiamo che tu fossi andato a Yale e che avessi inciampato nella Skull and Bones come Don Stewart. Rideva e ammetteva che sarebbe stata una rovina.
Hem aveva una vista eccezionalmente buona. La fredda mira del cacciatore. Mi sembrava, in quei giorni, che vedesse cose e persone senza il colore che loro donano i sentimenti o la teoria. Tutto viveva per lui entro una fredda chiara luce bianca, la stessa luce che pervade i suoi migliori racconti. A Clean Well Lighted Place,[11] per esempio.
Aveva la medesima vista acuta riguardo alla pittura. Può darsi che Gertrude Stein, che era tutt’altro che ignorante anche in questo settore della cultura, lo avesse aiutato a sviluppare questa acutezza.
Riconosceva a vista l’eccellenza del colore e del disegno. La Scuola di Parigi era già fin d’allora abbastanza piena di mestieranti da dare la nausea, ma Hem non si lasciava mai ingannare. Si trattasse di politica o di letteratura o di pittura, metteva a punto la situazione con una sola parola di quattro lettere.
Ricordo perfettamente quando comperò The Farm di Mirò[12] - credo sia stato l’ultimo quadro oggettivo che Mirò abbia dipinto - perché ho dovuto correre da tutte le parti per mettere insieme i soldi. Ci si prestava continuamente danaro a vicenda. Aveva saputo che poteva portarselo via per duemila o forse per tremila franchi (una cifra terribilmente piccola in dollari, al cambio allora corrente) e aveva la febbre al pensiero che qualcuno glielo soffiasse. Si portò a casa, alla segheria, il quadro, trionfante. Resta uno dei più bei quadri di Mirò.
Mi domando che valore abbia oggi. In genere, sulla pittura, eravamo sempre d’accordo.
L’entusiasmo di Hem era contagioso. Sebbene io avessi una inveterata inibizione contro qualsiasi gioco, riuscì a condurmi alle corse dei cavalli. Hem dichiarava di vincere grandi cifre e una primavera lo seguii a Longchamps e a Auteuil. Io, come al solito, badavo più allo spettacolo che al danaro. Degas mi aveva insegnato, attraverso i suoi quadri, ad amare i cavalli da corsa e le corse.
Harold Stearns ci passava le informazioni. Harold era un tipo straordinario. Dopo essersi fatto una reputazione come giornalista nel «The New Republic» e in altri giornali liberali e dopo aver pubblicato uno dei primi saggi di maggior successo sulla civiltà americana, era venuto a Parigi.
A Parigi aveva smesso di scrivere e aveva lasciato andare tutto. Perfino il piacere del bere e delle donne sembrava si fosse in lui attenuato. Manteneva un certo fascino. Restava un parlatore piacevole. Tirava avanti, pateticamente, la vita, frequentando i bar e raggranellando i quattro soldi che gli servivano vendendo informazioni sui cavalli ai turisti americani che avvicinava nei vari caffeucci dove era di famiglia.
C’era una corsa ad ostacoli in uno degli ippodromi che si annunciava molto elettrizzante, e Harold ci aveva indicato un cavallino che doveva essere un campione eccezionale; la valutazione al totalizzatore era bassa, trenta a uno, o qualcosa di simile. Agli amici non faceva mai pagare le informazioni, e questa volta giurava su tutto che avremmo sbancato.
Hem ed io riuscimmo a mettere insieme qualche centinaio di franchi e ci avviammo verso l’ippodromo. Harold aveva combinato con un ragazzo di scuderia che ci fosse permesso di dare un’occhiata in privato al cavallo. Era un piccolo baio scuro, piuttosto nervoso. Il fantino ci confidò che puntava su lui tutte le sue risorse. Sbirciammo il cavallo, accarezzammo il suo naso, ci prodigammo in francese e in inglese nel dire un bel po’ di sciocchezze di carattere tecnico. Al totalizzatore il nostro morale era al massimo: facevamo già progetti sul come spendere la vincita, una parte della quale per un pantagruelico pranzo al Foyot.
Il cavallo era senza dubbio un buon saltatore, ma alla rivière mancò, disarcionò il fantino e partì come una palla di fucile nella direzione sbagliata. Prima che lo potessero riprendere saltò un certo numero di ostacoli a ritroso. La corsa fu un disastro. Noi si moriva quasi dal ridere. Per conto mio, ritornato a Parigi ero più che mai convinto che il gioco è una pazzia. Incontrandoci di nuovo all’Henry’s Bar, Harold fece finta di non vederci.
Nessuno di noi due poteva permettersi di perdere una simile somma, eppure tutti e due non riuscivamo a far altro che ridere. Hem aveva appena rinunciato al suo incarico di corrispondente o stava per farlo. Campare con la sola attività di scrittore significava certo andare incontro a tempi duri. L’edizione dell’Our Time che Robert McAlmon aveva fatto uscire a Digione, gli aveva procurato successo nei circoli recherchés ma neppure un soldo. La sua unica sorgente di mezzi era lo scrivere poesiole spinte per una rivista tedesca, il «Der Querschnitt»; non è difficile cogliere il lato scherzoso del nome.

NOTE
di Giancarlo Mauri


[1] Ulysses ¦ by ¦ James Joyce ¦ Shakespeare and Company ¦ 12, Rue de l’Odéon, 12 ¦ Paris ¦ 1922. Sul frontespizio si legge: Printed for Sylvia Beach by Mauruce Darantiere at Dijon, France. - Dal 9 gennaio 1922 Ernest e Hadley abitano al 74 di rue du Cardinal Lemoine, terzo piano.
[2] L’8 gennaio 1920 Ernest prende il treno per Toronto e si stabilisce a casa Connable - 153 di Lyndhurst Avenue - e dopo neppure una settimana chiede a Mr Connable di trovargli un posto nel principale quotidiano dell’Ontario, il Toronto Star, che pubblica un’edizione quotidiana e una settimanale. Connable lo presenta a Arthur Donaldson, capo dell’ufficio pubblicità di entrambi i giornali, che lo porta alla sede di 20 King Street West e lo presenta a due redattori. Dopo aver dichiarato di aver lavorato al Kansas City Star, un modello per i giornalisti del tempo, gli propongono un lavoro pagato a righe per la prima edizione del settimanale. Il 27 dicembre 1923 EH si licenzia dal The Toronto Star Weekly.
[3] Si veda l’articolo intitolato Picked Sharpshooters Patrol Genoa Streets di Hemingway, uscito sul The Toronto Star Weekly del 13 aprile 1922 (Cfr.: La Conferenza di Genova, in By-line, pp 35-37).
[4] The Little Review “Exiles’ Number”, n. 9.3, Spring 1923, è interamente dedicato agli scritti di Statunitensi “attualmente in esilio in Europa” (sic!). Hemingway vi compare con alcuni brevi racconti, poi inseriti in our time.
[5] Con tiratura di 170 copie, in our time - tutte lettere minuscole - esce nel 1924 per conto della Three Mountains Press, Paris. Le Tre Montagne che danno il nome alla Casa editrice sono Montmarte, Mont Sainte-Genevieve e Montparnasse.
[6] Il 10 febbraio 1924 Hemingway scrive ad Ezra Pound d’aver trovato un appartamento semi ammobiliato sopra una segheria al 113 di rue Notre-Dame-des-Champs. Ezra Pound abita non molto lontano, al 70bis. Si tratta della segheria di Pierre Chautard, il padrone di casa e l’appartamento degli Hemingway è al piano superiore. Lo lasciano agli inizi del 1926, quando partono per Schruns (al rientro, gli Hemingway alloggiano all’Hotel Vénétia, Boulevard de Montparnasse).
[7] Il 10 ottobre 1923 a Toronto nasce John Hadley Nicanor detto Bumby: Hadley come la madre e Nicanor in onore al torero Villalta.
[8] Hemingway ricercava tra le pagine della Bibbia i titoli da dare ai suoi racconti: un’ottima operazione di marketing, visto che si rivolgeva per lo più ad un pubblico anglo-americano.
[9] Qui Dos Passos sbaglia: il 10 maggio 1927, con rito cattolico nella chiesa di Passy, Hem sposa la 32enne (4 anni più di lui) Pauline Pfeiffer e i due vanno ad abitare al 6 di rue Férou, vicino alla chiesa di Saint-Sulpice. È in questa casa che nel marzo 1928 avviene l’incidente del lucernario caduto in testa a Hemingway, danno riparato con sette punti di sutura.
[10] Storia inserita nella raccolta Ouvert la nuit, pubblicata da Gallimard nel 1922.
[11] Un posto pulito, ben illuminato, pubblicato la prima volta nel 1933 da Scribner’s Magazine.
[12] La fattoria, olio su tela, 1921-1922, oggi conservato nella National Gallery of Art di Washington che lo ha ricevuto in donazione da Mary Welsh, l’ultima moglie di Hemingway.