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lunedì 6 giugno 2022

A Codera con Takafumi Minaguchi e Vladimir Kolchanov


“Mi sembri Taka” dice Daniella guardando la foto che mi ha appena scattato mentre stacco alcune ciliegie da un albero, degustandole in loco. E quel “mi sembri Taka” ha subito suscitato vecchi ricordi (ridendo e scherzando sono passati 30 anni…).
Dal box sono uscito col contenitore che porta la scritta “Codera 1”, quello con le diapositive dal 1978 ad aprile 1994. Rapida ricerca ed eccole qui: 27 e 28 giugno 1992, Codera, con Takafumi Minaguchi e Vladimir Kolchanov.


Tutto ha avuto inizio qualche giorno prima. All’ora di cena squilla il telefono. Dall’altro capo del filo una voce maschile mi rivolge la parola parlando in inglese. Dice di chiamarsi Vladimir Kolchanov, di essere a Milano e di aver avuto il mio numero da Vladimir Piestov, uno dei suoi professori ai tempi in cui studiava ingegneria all’università di San Pietroburgo.


Sì: nel 1979 io e Vladimir Piestov siamo dapprima saliti in vetta all’El’brus e poi abbiamo valicato la catena del Caucaso per raggiungere a piedi l’allora proibita Svanezia. Al momento del commiato gli ho regalato il mio zaino da trekking col basto metallico, un oggetto che lui tanto mi invidiava.



E così adesso sono al telefono con un altro Vladimir, che mi chiede se possiamo incontrarci. Certo, dico io, rilanciando: questo fine settimana io e mia moglie saliremo a Codera per la festa di San Giovanni: se vuoi venire… Vladi accetta al volo, aggiungendo: posso invitare anche un mio amico giapponese? Certo che puoi, dico io, e subito lo informo che a Codera saliremo a piedi, che per la notte usufruiremo di una stanza senza luce elettrica, senza acqua corrente e col cagatoio (a Codera lo chiamavano così e così resta) lontano 50 metri o forse più. Lui non batte ciglio: saremo da te sabato, ma non siamo attrezzati. Minimizzo: bastano abiti sportivi, una felpa per la sera, scarpe da ginnastica. Gli zaini ve li presto io. Ed è così che sabato 27 giugno 1992 conosco di persona sia Vladi che Takafumi Minaguchi.
Strada facendo, Vladi mi racconta che sia lui che Taka hanno vinto i rispettivi concorsi nazionali - “sono arrivato primo su diecimila ingegneri russi”, mi ripete più volte con giustificato orgoglio - e che adesso sono ospiti della Bocconi per un MBA.

Lasciamo l’auto in località Castello e prendiamo a salire i gradini scolpiti nel granito. I due non sono mai stati in montagna, ma sono giovani e salgono senza troppi problemi. All’Avedèe si esce dal sentiero battuto per andare a salutare l’amico Vittorio Pisnoli, una tappa obbligata per me e Daniella.
A Codera arriviamo che è ancora presto, quindi, deposti gli zaini, li porto su per prati e in diretta arriviamo al “tracciolino” poco prima della diga; da qui, prendendo verso sud, siamo subito alla località Cii. Subito: si fa per dire… Ad un tratto, senza preavviso, Taka lancia un urlo e veloce mi si mette alle spalle, facendosi scudo col mio corpo. Non capisco il perché di questo suo gesto, ma lui continua a ripetere wild animals! wild animals! Mi guardo attorno ma di leoni, tigri, pantere, orsi o zanzare non vedo traccia. Avrà forse visto una vipera? Lui risponde alzando il braccio per indicare l’oggetto del suo terrore: pochi metri sopra di noi un gruppo di capre osserva la scena. Wild animals! dice lui additando le cornute.
Nel frattempo Vladi, da bravo ex allievo del mio amico Piestov, ha osservato il comportamento mio e di Daniella: se siamo rimasti calmi e tranquilli tanto pericolose quelle bestie non devono essere. Infatti così è, ma Taka continua a non esserne sicuro e resta al riparo del mio corpo. Superato il trauma, mi confessa che in tutta la sua vita mai è uscito da una metropoli - “ho vissuto tra Tokyo e New York”, dice - e che oggi è alla sua prima esperienza extra urbana. Di animali con la barba e le corna mai avrebbe immaginato di trovarseli così vicino.
Arrivati a Cii, un altro grido esce dalla sua bocca, stavolta più gioioso: cherries! Sì, davanti a noi vi è un albero di ciliegie e lui, forse per smaltire il trauma di poco prima, subito vi si attacca, ingoiandone quante più gli è possibile, staccandole direttamente dai rami. La spoliazione è sistematica: nessun frutto raggiungibile deve restare sull’albero. Io sono preoccupato e per una buona ragione: conosco il proprietario di quell’albero …e se dovesse arrivare proprio adesso vaglielo tu a dire che l’amico giapponese sta smaltendo il trauma da capre ingozzandosi con le SUE ciliegie.
Smaltita la sbornia si torna a Codera, dove la serata all’Osteria Alpina (dal Dino) lascia un nuovo segno: a Tokyo, a New York o a San Pietroburgo di esperienze simili non ne hanno di certo vissute.

Il giorno dopo a Codera si festeggia San Giovanni, con la sua statua portata in processione. Ovviamente, anche questi riti (e le campane suonate pestando coi pugni) lasciano stupiti i miei due amici, che tutto seguono, tutto osservano, tante domande fanno. Di nuovo arriva la sera, dal Dino si fa festa, poi ci trasferiamo a Cà Domingo per continuare in privato con un viavai di amici del posto, mentre il vino evapora come acqua sul fuoco. Le ore passano, il viavai di amici continua. Verso l’una di notte da qualche parte sbuca un violino, di quelli che non suonano però. Nello specifico, si tratta della coscia anteriore di un quadrupede uso a saltare di roccia in roccia e si sa che quando l’appoggio gli manca sotto ai piedi e lui non ha il paracadute… vuoi lasciarlo ai corvi? Certo che no, sarebbe uno spreco. Portato in baita, tagliato a pezzi, le cosce finiscono immerse nel vino aromatizzato con erbe alpine, giusto per togliere l’odore di selvatico. Poi, una volta pronto all’uso, questo prosciutto si appoggia ad una spalla e con una lama affilata se ne tagliano fette sottili, ottime e mai abbondanti. Al lume di candela tutto questo assume un che di mistico: i miei amici guardano attoniti …e mangiano.
E qui avviene il miracolo: all’improvviso Vladimir si ricorda di aver messo nello zaino una bottiglia di vodka che aperta subito fa il giro tra i presenti, gole profonde, sempre assetate. Col violino è la morte sua, sento dire …e giù un’altra “sgulgiada” a gola spalancata. L’atmosfera è oltremodo “accesa”, a Taka e a Vladi sono partiti i freni inibitori: ormai si sentono a casa loro, tra amici. Poi …l’impensabile accade. Vladi esce sulla loggia e a squarciagola si mette a cantare L’Internazionale, in lingua russa ovviamente. Noi si tace e si ascolta. Mai vista una serata così a Codera e mai più si vedrà.
Finito l’inno (e finita la vodka), tutti a nanna.
Tra poche ore si scenderà a valle, il lavoro ci attende.

Oggi, anno domini 2022, Takafumi Minaguchi è Chief Executive Officer (CEO) di Starbucks Coffee Japan, mentre Vladimir Kolchanov ricopre la carica di Director of Executive Programmes all’International Management Institute di St. Petersburg.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Codera, 28 giugno 1992
in ordine cronologico di scatto










































lunedì 2 febbraio 2015

Kavzaz '79 - Elbrus e Svanezia


La Stampa del 24 settembre 2013 rende noto il fallito tentativo di salita sull’Elbrus da parte del catalano Kilian Jornet, uomo indubbiamente di grandi capacità tecniche, un professionista dello skyrunning impegnato nella realizzazione del Summit of My Life. Sottolineo professionista perché non è poca la differenza tra chi come lui sale di corsa - solitario, alimentato, energicizzato e debitamente allenato da una équipe di specialisti - e i comuni mortali amanti delle salite sui monti “fai da te”.
Kilian dichiara che dopo due ore e 45 minuti di corsa, arrivato a 5300 metri di quota, causa il maltempo ha desistito: la vita è un bene e l’Elbrus sarà ancora al suo posto nei prossimi anni.

Tutto questo mi ha riportato alla mia ascensione, agosto 1979, con un tozzo di pane, dell’acqua e forse della cioccolata nello zaino, abiti da alpinista, pesanti scarponi di cuoio ai piedi.
Ho riportato alla luce il mio cahier des doleances e ho riletto le mie note “sul campo”, che riepilogo:
1) la spedizione alpinistica internazionale Kavkaz ’79, organizzata dal Ministero dello Sport dell’URSS e ospitante alpinisti provenienti da Italia, Francia, Polonia, Germania Orientale e Cecoslovacchia si è svolta dal 29 luglio al 21 agosto 1979. Ovviamente, ognuna di queste nazioni aveva nominato un proprio responsabile (io per l’Italia), ma una volta a Camp Asau, 2350 m, le autorità russe hanno chiesto un solo interlocutore, responsabile di tutte e cinque le nazioni partecipanti. Con grazia mista a furbizia, all’unanimità sono stato eletto “imperatore” e con questa nuova responsabilità ho dovuto smazzarmi tutte le inutili quanto insistenti necessità burocratiche imposte dai padroni di casa.
2) Dopo un breve periodo di acclimatamento, sempre sotto tutela delle guide russe, il 3 agosto da Camp Asau salgo al rifugio Priut Adinist (Undici Alpinisti), struttura metallica cilindriforme costruita a quota 4163 metri. Mi accompagnano alcuni alpinisti del mio gruppo.
3) Il giorno dopo, 4 agosto, il cielo è blu cobalto, le due vette dell’Elbrus - l’Orientale (5621 m) e l’Occidentale (5642 m) - pare ci vengano incontro. Ma la rigida disciplina imposta dai sovietici impone l’obbligo di una gita di acclimatazione alle Roccette Pastuhoff. Ci viene proibito di calzare i ramponi e di portare le piccozze: non capiamo, ma ci adeguiamo. A fare il passo è Vladimir Piestov, professore d’ingegneria meccanica all’Università di Leningrado (nel 1979 si chiamava ancora così) nonché Maestro dello Sport. Partiti alle 8:20, con passo cadenzato ci alziamo e alle 9:35 siamo alle Roccette Pastuhoff, 4800 m circa. Vladimir è contento e annuncia che si può iniziare la discesa. Io non ci sto: il cielo rimane blu - cosa che mi dicono sia molto, ma molto, ma molto rara: l’Elbrus è celebre per le violente bufere che avvolgono la sua parte sommitale - e la vetta “facile”, l’Occidentale, è lì che pare toccarla col dito. Disubbidisco - sono o non sono stato eletto “imperatore”? - e invito il brianzolo Faustino a tentare con me l’ascensione a quella vetta. Vladimir protesta (si vede già a insegnare in un gulag). Alle 9:50 io e Faustino partiamo, a ritmo più elevato: il nostro. A quota 5000 m (le quote le rilevo dal mio altimetro Thommen 8000) troviamo delle cordate russe che rientrano sconfitte: troppo ghiaccio ricopre la parete terminale della vetta Orientale, la più bassa ma decisamente la più “cattiva” delle due. Scatto delle foto a quota 5110 m, mi faccio riprendere a quota 5250 metri, riscatto altre foto. Alle 12:30 siamo ad un bivacco fisso, un canile metallico inutilizzabile perché sommerso dalla neve, a quota 5415 metri. Alle 12:50 siamo alla forcella tra le due vette: a destra si drizza la parete sommitale della Est, rocciosa e ricoperta da verglass; a sinistra vi è il ripido pendio nevoso della Ovest. Siamo senza piccozze e senza ramponi, quindi scegliamo la via più facile. A quota 5540 m, di fronte ad una placca di ghiaccio verdastro, desistiamo e iniziamo la discesa. Il nostro arrivo al Priut Adinist viene salutato con gioia da Vladimir (siamo vivi, quindi il gulag si è allontanato) e dagli alpinisti russi presenti, che mostrano meraviglia per la rapidità con cui siamo saliti, senza adeguata attrezzatura, dalle Pastuhoff in poi. Dopo il briefing serale, dove imposto il programma per il giorno seguente, vengo avvicinato da Vladimir e da due giovani russe, Irina e Tania. Vladimir m’informa che le due ragazze stanno cercando di ottenere il diploma di Maestro dello Sport e che la salita dell’Elbrus Orientale fornirà loro il punteggio utile a chiudere il corso e ottenere l’ambito diploma. Mi chiede: accetti di assumerti la responsabilità di unirle a noi, portandole in vetta? Cambio le carte, ricompongo le cordate italiane e ricreo la mia: domani salirò in compagnia di Tania, di Irina e di Wladimir. Partenza alle ore 4:00.
4) La sveglia del mio orologio suona alle 3; i miei compagni di camerata, italiani, dichiarano che non sono disponibili, rifiutando di seguirmi. Chiedo loro di restare al Priut Adinist, per completare l’acclimatazione. Alle 4, fuori del Priut, ci siamo io, i tre russi, Faustino e Francesco. La temperatura è barbara. Accendiamo le frontali e partiamo, lasciando a Vladimir il compito di fare il passo. Neve dura, pendenza sui 60 gradi, ramponi calzati. Alle 5:30 siamo alle Pastuhoff, dove sostiamo per 15 minuti (tradizione russa, acc...); alle 7:45 siamo al bivacco; ripartiamo alle 7:50 puntando alla forcella. Nel frattempo il tempo si è rapidamente volto al brutto: la forcella è avvolta dalle nebbie, tira un vento siberiano, le placche rocciose sono verdi di ghiaccio. Mi consulto coi russi e con i due italiani, poi decido: autorizzo Faustino e Francesco a tentare di salire l’Elbrus Ovest, io e i tre russi attacchiamo la vetta orientale. Dal colle in poi passo in testa e guido la cordata. Alle 9:00 siamo tutti in vetta, 5621 metri. Il vento è terribile e tutti ci sdraiamo al suolo per non essere “strappati”. Scatto delle foto “orizzontali” alle amiche russe, poi preparo la macchina e chiedo ad Irina di essere rapida nel farmi la foto ricordo: veloce balzo in piedi vicino alla bandiera rossa e Irina - sdraiata sul dorso - esegue lo scatto. Adesso si tratta di scendere. Non ci sono corde fisse, né è possibile fare delle doppie. Assicuro i tre, poi è la mia volta di calarmi arrampicando sugli specchi per quasi 200 metri di dislivello. Alla forcella troviamo un uomo aggrappato alla roccia, in evidente stato di ipotermia. Lo prendiamo con noi e sempre ostacolati dalla bufera scendiamo a tentoni in direzione delle Pastuhoff e da lì al Priut Adinist, splendente sotto il caldo sole d’agosto! I russi prendono in consegna l’assiderato compagno, Irina, Tania e Vladimir raccontano la nostra salita e discesa nella bufera. Più tardi rientrano anche Francesco e Faustino, che mi dicono d’essere arrivati sulla vetta Ovest, 5642 m. Ma non è tempo di regali: per la fitta nebbia e per il vento gelido 8 alpinisti russi mancano all’appello e i loro superstiti compagni raccontano di cadute nei crepacci.
5) La mattina del 5 agosto una forte nevicata ci impedisce di organizzare la ricerca degli alpinisti morti o dispersi. Dispongo di lasciare il Priut ai russi e di scendere a valle.
6) Ripreso dall’oblio il mio taccuino di quei giorni, scarno in verità, ho passato allo scanner le due pagine - una scritta in loco, l’altra a casa - dove ho riepilogato i tempi di salita, soste escluse: 4h e 25 minuti il giorno 4 (tentativo alla Ovest), 4h e 40 min per la salita all’Elbrus Est, in piena bufera.

Epilogo: due giorni dopo, mandando a quel paese il direttore di Camp Asau, che mi proibisce di lasciare il rifugio per raggiungere il territorio dei “pericolosi Suani, ladri e assassini”, metto lo zaino in spalla e seguito da pochi fidati valico la catena del Caucaso, passando dal suo versante europeo a quello asiatico. Seguendo vecchie piste, scivolando tra seracchi e crepacci e camminando sul pericolosissimo letto ghiacciato di un fiume, il 9 agosto arrivo al villaggio di Mèstia, capoluogo della popolazione Suana. Ma questa è tutta un’altra storia, da me raccontata in numerose conferenze illustrate da slides.
Terminata la campagna alpinistica - con importanti “prime” su pareti inviolate - una volta rientrati a Mosca, su pressione degli alpinisti polacchi, cekz e tedeschi DDR, il Ministro dello Sport mi ha fatto dono del distintivo di Alpinist URSS ad honorem. Ho ringraziato, ho risposto alle domande dell’intervistatore di Radio Mosca, poi …sono sfuggito a tutte le preventivate visite “ufficiali” - con guida e interprete - vagando per la città in compagnia delle forti alpiniste polacche Anna Okopinska e Halina Kruger-Syrokomska, la prima cordata femminile ad aver salito un Ottomila in stile alpino (“siamo diventate un’icona del movimento lesbico della California” mi ha detto un giorno Anka, scherzandoci sopra ma non troppo: lei viveva in un Paese socialista, non negli USA…). Gli anni sono passati e Anka mi è sempre rimasta amica, con numerosi soggiorni a casa mia. Halina è morta nel 1982 a causa di un edema polmonare mentre con Anka tentava la prima femminile al K2. La rivedo alla stazione ferroviaria di Mosca, dove l’avevo accompagnata al treno per Varsavia: uno zaino pesante e gli scarponi (tedeschi DDR) ai piedi con le suole staccate, tenute unite alla tomaia da lacci per scarpe… Conservo la sua ultima cartolina “non ufficiale” inviatami da Skardu, che ritrae Anka sulla vetta del G2, 8032 metri. È in allegato: guardate l’abbigliamento …e dovrebbe bastare per capire di che tempra erano fatti i “poveri” alpinisti polacchi.

Il Priut Adinist, distrutto da un incendio nell’estate del 1998, è stato sostituito da una nuova e più moderna struttura nota come Capanna Diesel o Maria.

© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri
(da slides Kodakhrome)

Valle di Adyl-Su
Bjedù, 4272 m (NE)

Donguzorum (4452) e Nakra (3805)

Germoghianov (3993), Ullù-Karà (4302),
Passo Kashkatask (3770), versanti NO

Giantugam (4277) e Germoghianov (3993)

Volnaia Espagna (4200), Bjedù (4272) da NE

Elbrus
Priut Adinist, 4163 m

Elbrus Ovest (5642 m), Est (5621 m)

Tania, Vladimir e Irina sulla vetta dell'Elbrus Orientale

Gcm, Irina e Vladimir sulla vetta dell'Elbrus Orientale

sulla vetta dell'Elbrus Orientale, 5621 m

Anna Okopińska

Anna Okopińska sul G2 (sullo sfondo il K2)