Anni
fa, al termine di una mia conferenza sul massacro dei Catari una signora -
perfetto rappresentante della peggior borghesia europea - commentò (ma a bassa
voce, “per educazione”): «che senso ha tirar fuori oggi queste storie ormai
vecchie di secoli?». Già, che senso ha? Aboliamo quindi la Storia, aboliamo
ogni “disturbante” ricordo e culliamoci nella bambagia della quotidiana
disinformazione, che tanto ci rallegra con le sue stucchevoli storielle da
“serate nella stalla” come al tempo che fu.
Ho
ripreso in mano Nostalgia di Milano, il
libro scritto da Antonio Monti e pubblicato nel 1945 dal grande Ulrico Hoepli.
Il secondo capitolo è dedicato alla peste del 1630-32, e alle pp. 15-18 leggo:
«Le condizioni
igieniche e finanziarie della città e dello Stato di Milano già rese difficili
per le guerre passate, s’aggravarono nel 1627 in seguito alla carestia dovuta
agli scarsi raccolti ed all’ingordigia dei «munizionieri» che estraendo il
frumento, la segale ed il miglio dal Ducato, lo vendevano con grandi utili
oltre ai confini. La fame e la miseria giunsero allora al punto d’indurre, come
dice il Tadino, «la disperata plebe a fare un esecrando eccesso la vigilia di
Santo Martino» a saccheggiare cioè il forno «che in toscano viene a dire il
forno delle Grucce», come narra il Manzoni nel dodicesimo capitolo dei Promessi
Sposi. Alla carestia, al balzelli ed alla svalutazione della moneta, s’aggiunse
anche il peso dei continui alloggiamenti delle soldatesche alemanne che
transitavano nel Ducato per recarsi all’impresa di Mantova e che erano già
infette dalla peste, sì che il morbo trovò facile terreno per diffondersi.
A Milano, i primi casi
d’infezione sembra siano avvenuti nell’ottobre del 1629 nel borgo P. Orientale.
I migliori fisici d’allora, il Tadino ed il Settala, fecero presente l’urgente
necessità d’isolare gli ammalati, ma i loro consigli non furono ascoltati
perché il Senato, tratto forse in inganno da chi aveva interesse d’impedire le
misure restrittive e forte del parere di altri medici, non credeva che il male
fosse contagioso; e intanto il flagello si diffondeva in tutto il Ducato. I
Conservatori della Sanità pubblicavano solo il 9 marzo le norme riguardanti le
«Bollette di Sanità», o passaporti di libera-pratica. Nella grida del
Governatore Ambrogio Spinola si commina la pena di morte a chi falsifica la
bolletta o ardisca entrare furtivamente nella città dello Stato, e a differenza
degli altri bandi, termina con questo inciso «Le copie stampate in Milano per
Francesco Malatesta.... habbino fede e vigore come fossero autenticate».
Nonostante questa severità, è nota ai lettori dei Promessi Sposi la virtù del
mezzo ducatone fatto volare da Renzo ai piedi del gabelliere, che tosto grida
«va innanzi presto».
La credenza che si
trattasse di una febbre derivata dalla penuria di viveri dei due anni di
carestia era così diffusa, anche nel popolo, che il Tadino ed il Settala, che
sostenevano l’opinione della peste, furono ingiuriati e percossi sulla pubblica
via. Al sopravvenire della calda stagione il morbo prese tale vigore che anche
i più increduli dovettero arrendersi davanti alla dolorosa ecatombe
giornaliera. Ma l’immaginazione popolare, più che alla scienza, ama chiedere la
spiegazione dei fatti, agli interventi misteriosi e così la peste, come già in
quella precedente di S. Carlo ed in quelle di Palermo e di Messina del 1624, è
diffusa dagli «untori», o predetta e dominata dagli influssi delle due comete
apparse nel 1628 e nel 1630.
Alla sera del 17 maggio
parve ad alcuno vedere persone che ungessero gli assiti e le panche del Duomo.
Si credette fosse stata una burla degli studenti di Pavia, una vendetta di
Gonzalo Fernandez de Cordova per le ingiurie ricevute quand’era partito, una
bizzarria degli ufficiali che s’annoiavano all’assedio di Casale, ma la notizia
correndo di bocca in bocca perde i suoi contorni indecisi e si trasforma nel
fatto vero e provato: “sono gli untori”. Qualche giorno dopo si trovano unti i
catenacci delle porte ed i muri delle case, poi nelle pile dell’acqua benedetta
galleggiano polveri venefiche, e composti pestiferi vengono gettati nelle
strade: la città o tutta in subbuglio ed il Governatore emana ordini
severissimi per scoprire i rei del malefizio. La fantasia popolare non si
arresta tanto facilmente e siccome sono a centinaia le case sporcate nottetempo
col liquido giallastro, così si afferma essere necessario l’intervento
diabolico per poterlo fabbricare in quantità sufficiente. Il Tadino, dal quale
togliamo le notizie, racconta diversi interventi maliardici che correvano sulle
bocche di tutti.
Una settimana dopo la
pubblicazione della grida «è stato significato al Senato che hieri mattina
furono onte con ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra de’
Cittadini» o con quest’accusa s’aprì il processo di Giangiacomo Mora. Il giorno
21 giugno 1630, dietro indicazioni di alcune donne che abitavano nella via
detta della Vetra dei Cittadini (ora G. G. Mora), veniva arrestato il
Commissario di Sanità Guglielmo Piazza, sotto l’accusa d’aver unto i muri allo
scopo si diffondere la peste e poco dopo seguivano la medesima sorte il
barbiere G. G. Mora, che apriva la sua bottega all’angolo della Vetra, ed altri
imputati. I particolari del processo furono così largamente illustrati da
Pietro Verri, dal Cantù e dal Manzoni, che noi ci dispensiamo dal ricordarli.
La sentenza del Senato
fu terribile. I condannati dal palazzo del Capitano di Giustizia furono
condotti alla Vetra legati schiena a schiena, sovra un carro tirato dai buoi, e
tormentati lungo la strada dai morsi di tenaglie roventi. Davanti alla casa del
barbiere si tagliò loro la mano destra, giunti sul luogo del supplizio furono
arrotati, ed ancor vivi, colle ossa rotte, esposti al pubblico per sei ore,
indi abbruciati e le ceneri gettate nella Vettabbia. L’esecuzione di giustizia
fu ricordata nei truci particolari dalla lapide fissata poi nel muro, mentre di
fronte s’abbatteva la casa del Mora per elevare a perenne ricordo dei posteri
la Colonna Infame.
Una stampa pubblicata
da Federico Agnelli ed incisa da Cesare Bassano, riunisce in un quadro non solo
i vari elementi dei dintorni della casa di G. G. Mora senza curare però la loro
disposizione topografica, ma anche i supplizi dati posteriormente ad altri
supposti untori. Dal codice Giustizie che
diconsi fatte sotto al Governo di Mil. incominciando dall’anno 1474 in avanti,
vediamo come G. B. Farletta (indicato nell’incisione colla lettera M) essendo
morto in prigione fu abbruciato in effigie il giorno 9 settembre; Pietro Paolo
Rigotto (indicato colla lettera N) fu sospeso per un piede davanti al Monastero
Maggiore in P. Vercellina «e ivi stette ore sei, e di poi fu archibuggiato et
abbruggiato e le ceneri sparse per aver anch’esso onto»; Giacomo Maganza e
Martino Recalcato (indicati colla lettera P) furono giustiziati rispettivamente
il 5 agosto ed il 19 ottobre.
Era naturale pensare
che gli untori sarebbero stati per i primi colpiti dal malore se non si fossero
precedentemente immunizzati, ungendosi con altro specifico. Fu appunto un
barattolo contenente questo specifico, allora detto «unguento dell’appiccato»,
che rinvenuto nella casa del barbiere della Vetra permise ai giudici d’imbastire
il processo di G. G. Mora.
La Colonna Infame era
ancora in posto verso la metà del secolo xviii,
quando si pensò di livellare la Vetra dei Cittadini col corso di P. Ticinese. Il
ministro, il governatore arciduca Ferdinando ed i consultori pensarono che
fosse opportuno, anche per la propaganda fatta allora da C. Beccaria e da P.
Verri, che il ricordo disonorevole perisse spontaneamente, perché le leggi d’allora
vietavano di restaurare i monumenti d’infamia. Il Senato sapendo che la
richiesta derivava dal desiderio di cancellare un vecchio errore commesso dal
Senato stesso, si oppose alla domanda del Governo, ma questo nella notte dal 24
al 25 agosto 1778, chiusi gl’ingressi delle vie perché non vi fossero
testimoni, mandò alcuni muratori ad abbatterla. La lapide fu tolta nel 1803, e
ora trovasi, mutila in basso, nel cortile della Rocchetta del Castello
Sforzesco.»
Non essendomi mai scordato che la Grande
Storia è formata da tante Piccole Storie (le maiuscole rimarcano il distacco
dalle “storie”), il brano qui sopra riportato mi rimbalza nella mente ogni
volta che passo dai luoghi citati, quindi almeno una volta alla settimana. Che
resta oggi a ricordo di quelle “bestiali” condanne? Inizio dal Castello
Sforzesco: nella sua Corte Ducale ogni anno decine di migliaia di turisti
tranquillamente ignorano la lastra di marmo messa ai piedi dall’affresco “dell’elefante”,
la cui scritta in latino è stata così tradotta dal Verri:
Qui dov’è questa piazza
sorgeva un tempo la Barbieria
di Gian Giacomo Mora
il quale con Guglielmo Piazza
pubblico commissario di sanità
e con altri fatta una congiura
mentre la peste infieriva più atroce
sparsi qua e là mortiferi unguenti
molti trasse a cruda morte
entrambi adunque giudicati nemici
della patria
sopra un alto carro
martoriati prima con rovente tanaglia
e troncata la mano destra
si frangessero colla ruota
e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati
poscia abbruciati
e perché d’uomini così scellerati
nulla resti
confiscati gli averi
si gettassero le ceneri nel fiume
il senato medesimo ordinò
a memoria perpetua di tale reato
questa casa officina del delitto
di radere al suolo
e giammai rialzarsi in futuro
ed erigere una colonna
che si appelli infame
lungi adunque lungi da qui
buoni cittadini
che voi l’infelice infame suolo
non contamini
il primo d’agosto mdcxxx.
La “barbieria” di Giangiacomo Mora era a
due passi dalle colonne di San Lorenzo, dove oggi vi è l’incrocio tra Corso di
Porta Ticinese e la via dedicata allo stesso Mora. Nell’angolo del condominio,
all’interno del passaggio pedonale una lapide e un bronzeo monumento ricordano
l’atroce morte dell'innocente "untore" e degli altri suoi compagni di sventura. Da
questo, arguisco che non sono rimasto solo nell’insistere a voler ricordare.
Del resto, già Dumas padre aveva capito tutto quando metteva nero su bianco che «la piccola borghesia produce cattivi umori di giorno, cattivi odori la notte» (e comperava la legna per i sacri roghi, aggiungo io).
Del resto, già Dumas padre aveva capito tutto quando metteva nero su bianco che «la piccola borghesia produce cattivi umori di giorno, cattivi odori la notte» (e comperava la legna per i sacri roghi, aggiungo io).
Insistiamo a voler ricordare, che è
meglio.
© testo e foto di Giancarlo Mauri
© testo e foto di Giancarlo Mauri