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mercoledì 11 giugno 2014

Gian Giacomo Mora


Anni fa, al termine di una mia conferenza sul massacro dei Catari una signora - perfetto rappresentante della peggior borghesia europea - commentò (ma a bassa voce, “per educazione”): «che senso ha tirar fuori oggi queste storie ormai vecchie di secoli?». Già, che senso ha? Aboliamo quindi la Storia, aboliamo ogni “disturbante” ricordo e culliamoci nella bambagia della quotidiana disinformazione, che tanto ci rallegra con le sue stucchevoli storielle da “serate nella stalla” come al tempo che fu.

Ho ripreso in mano Nostalgia di Milano, il libro scritto da Antonio Monti e pubblicato nel 1945 dal grande Ulrico Hoepli. Il secondo capitolo è dedicato alla peste del 1630-32, e alle pp. 15-18 leggo:

«Le condizioni igieniche e finanziarie della città e dello Stato di Milano già rese difficili per le guerre passate, s’aggravarono nel 1627 in seguito alla carestia dovuta agli scarsi raccolti ed all’ingordigia dei «munizionieri» che estraendo il frumento, la segale ed il miglio dal Ducato, lo vendevano con grandi utili oltre ai confini. La fame e la miseria giunsero allora al punto d’indurre, come dice il Tadino, «la disperata plebe a fare un esecrando eccesso la vigilia di Santo Martino» a saccheg­giare cioè il forno «che in toscano viene a dire il forno delle Grucce», come narra il Manzoni nel dodicesimo capitolo dei Promessi Sposi. Alla carestia, al balzelli ed alla svalutazione della moneta, s’aggiunse anche il peso dei continui alloggiamenti delle soldatesche alemanne che transitavano nel Ducato per recarsi all’impresa di Mantova e che erano già infette dalla peste, sì che il morbo trovò facile terreno per diffondersi.
A Milano, i primi casi d’infezione sembra siano avvenuti nell’ottobre del 1629 nel borgo P. Orientale. I migliori fisici d’allora, il Tadino ed il Settala, fecero presente l’urgente necessità d’isolare gli ammalati, ma i loro consigli non furono ascoltati perché il Senato, tratto forse in inganno da chi aveva interesse d’impedire le misure restrittive e forte del parere di altri medici, non credeva che il male fosse contagioso; e intanto il flagello si diffondeva in tutto il Ducato. I Conservatori della Sanità pubblicavano solo il 9 marzo le norme riguardanti le «Bollette di Sanità», o passaporti di libera-pratica. Nella grida del Governatore Ambrogio Spinola si commina la pena di morte a chi falsifica la bolletta o ardisca entrare furtivamente nella città dello Stato, e a differenza degli altri bandi, termina con questo inciso «Le copie stampate in Milano per Francesco Malatesta.... habbino fede e vigore come fossero autenticate». Nonostante questa severità, è nota ai lettori dei Promessi Sposi la virtù del mezzo ducatone fatto volare da Renzo ai piedi del gabelliere, che tosto grida «va innanzi presto».
La credenza che si trattasse di una febbre derivata dalla penuria di viveri dei due anni di carestia era così diffusa, anche nel popolo, che il Tadino ed il Settala, che sostenevano l’opinione della peste, furono ingiuriati e percossi sulla pubblica via. Al sopravvenire della calda stagione il morbo prese tale vigore che anche i più increduli dovettero arrendersi davanti alla dolorosa ecatombe giornaliera. Ma l’immaginazione popolare, più che alla scienza, ama chiedere la spiegazione dei fatti, agli interventi misteriosi e così la peste, come già in quella precedente di S. Carlo ed in quelle di Palermo e di Messina del 1624, è diffusa dagli «untori», o predetta e dominata dagli influssi delle due comete apparse nel 1628 e nel 1630.
Alla sera del 17 maggio parve ad alcuno vedere persone che ungessero gli assiti e le panche del Duomo. Si credette fosse stata una burla degli studenti di Pavia, una vendetta di Gonzalo Fernandez de Cordova per le ingiurie ricevute quand’era partito, una bizzarria degli ufficiali che s’annoiavano all’assedio di Casale, ma la notizia correndo di bocca in bocca perde i suoi contorni indecisi e si trasforma nel fatto vero e provato: “sono gli untori”. Qualche giorno dopo si trovano unti i catenacci delle porte ed i muri delle case, poi nelle pile dell’acqua benedetta galleggiano polveri venefiche, e composti pestiferi vengono gettati nelle strade: la città o tutta in subbuglio ed il Governatore emana ordini severissimi per scoprire i rei del malefizio. La fantasia popolare non si arresta tanto facilmente e siccome sono a centinaia le case sporcate nottetempo col liquido giallastro, così si afferma essere necessario l’intervento diabolico per poterlo fabbricare in quantità sufficiente. Il Tadino, dal quale togliamo le notizie, racconta diversi interventi maliardici che correvano sulle bocche di tutti.
Una settimana dopo la pubblicazione della grida «è stato significato al Senato che hieri mattina furono onte con ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra de’ Cittadini» o con quest’accusa s’aprì il processo di Giangiacomo Mora. Il giorno 21 giugno 1630, dietro indicazioni di alcune donne che abitavano nella via detta della Vetra dei Cittadini (ora G. G. Mora), veniva arrestato il Commissario di Sanità Guglielmo Piazza, sotto l’accusa d’aver unto i muri allo scopo si diffondere la peste e poco dopo seguivano la medesima sorte il barbiere G. G. Mora, che apriva la sua bottega all’angolo della Vetra, ed altri imputati. I particolari del processo furono così largamente illustrati da Pietro Verri, dal Cantù e dal Manzoni, che noi ci dispensiamo dal ricordarli.
La sentenza del Senato fu terribile. I condannati dal palazzo del Capitano di Giustizia furono condotti alla Vetra legati schiena a schiena, sovra un carro tirato dai buoi, e tormentati lungo la strada dai morsi di tenaglie roventi. Davanti alla casa del barbiere si tagliò loro la mano destra, giunti sul luogo del supplizio furono arrotati, ed ancor vivi, colle ossa rotte, esposti al pubblico per sei ore, indi abbruciati e le ceneri gettate nella Vettabbia. L’esecuzione di giustizia fu ricordata nei truci particolari dalla lapide fissata poi nel muro, mentre di fronte s’abbatteva la casa del Mora per elevare a perenne ricordo dei posteri la Colonna Infame.
Una stampa pubblicata da Federico Agnelli ed incisa da Cesare Bassano, riunisce in un quadro non solo i vari elementi dei dintorni della casa di G. G. Mora senza curare però la loro disposizione topografica, ma anche i supplizi dati posteriormente ad altri supposti untori. Dal codice Giustizie che diconsi fatte sotto al Governo di Mil. incominciando dall’anno 1474 in avanti, vediamo come G. B. Farletta (indicato nell’incisione colla lettera M) essendo morto in prigione fu abbruciato in effigie il giorno 9 settembre; Pietro Paolo Rigotto (indicato colla lettera N) fu sospeso per un piede davanti al Monastero Maggiore in P. Vercellina «e ivi stette ore sei, e di poi fu archibuggiato et abbruggiato e le ceneri sparse per aver anch’esso onto»; Giacomo Maganza e Martino Recalcato (indicati colla lettera P) furono giustiziati rispettivamente il 5 agosto ed il 19 ottobre.
Era naturale pensare che gli untori sarebbero stati per i primi colpiti dal malore se non si fossero precedentemente immunizzati, ungendosi con altro specifico. Fu appunto un barattolo contenente questo specifico, allora detto «unguento dell’appiccato», che rinvenuto nella casa del barbiere della Vetra permise ai giudici d’imbastire il processo di G. G. Mora.
La Colonna Infame era ancora in posto verso la metà del secolo xviii, quando si pensò di livellare la Vetra dei Cittadini col corso di P. Ticinese. Il ministro, il governatore arciduca Ferdinando ed i consultori pensarono che fosse opportuno, anche per la propaganda fatta allora da C. Beccaria e da P. Verri, che il ricordo disonorevole perisse spontaneamente, perché le leggi d’allora vietavano di restaurare i monumenti d’infamia. Il Senato sapendo che la richiesta derivava dal desiderio di cancellare un vecchio errore commesso dal Senato stesso, si oppose alla domanda del Governo, ma questo nella notte dal 24 al 25 agosto 1778, chiusi gl’ingressi delle vie perché non vi fossero testimoni, mandò alcuni muratori ad abbatterla. La lapide fu tolta nel 1803, e ora trovasi, mutila in basso, nel cortile della Rocchetta del Castello Sforzesco.»

Non essendomi mai scordato che la Grande Storia è formata da tante Piccole Storie (le maiuscole rimarcano il distacco dalle “storie”), il brano qui sopra riportato mi rimbalza nella mente ogni volta che passo dai luoghi citati, quindi almeno una volta alla settimana. Che resta oggi a ricordo di quelle “bestiali” condanne? Inizio dal Castello Sforzesco: nella sua Corte Ducale ogni anno decine di migliaia di turisti tranquillamente ignorano la lastra di marmo messa ai piedi dall’affresco “dell’elefante”, la cui scritta in latino è stata così tradotta dal Verri:

Qui dov’è questa piazza
sorgeva un tempo la Barbieria
di Gian Giacomo Mora
il quale con Guglielmo Piazza
pubblico commissario di sanità
e con altri fatta una congiura
mentre la peste infieriva più atroce
sparsi qua e là mortiferi unguenti
molti trasse a cruda morte
entrambi adunque giudicati nemici della patria
sopra un alto carro
martoriati prima con rovente tanaglia
e troncata la mano destra
si frangessero colla ruota
e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati
poscia abbruciati
e perché d’uomini così scellerati
nulla resti
confiscati gli averi
si gettassero le ceneri nel fiume
il senato medesimo ordinò
a memoria perpetua di tale reato
questa casa officina del delitto
di radere al suolo
e giammai rialzarsi in futuro
ed erigere una colonna
che si appelli infame
lungi adunque lungi da qui
buoni cittadini
che voi l’infelice infame suolo
non contamini
il primo d’agosto mdcxxx.

La “barbieria” di Giangiacomo Mora era a due passi dalle colonne di San Lorenzo, dove oggi vi è l’incrocio tra Corso di Porta Ticinese e la via dedicata allo stesso Mora. Nell’angolo del condominio, all’interno del passaggio pedonale una lapide e un bronzeo monumento ricordano l’atroce morte dell'innocente "untore" e degli altri suoi compagni di sventura. Da questo, arguisco che non sono rimasto solo nell’insistere a voler ricordare.

Del resto, già Dumas padre aveva capito tutto quando metteva nero su bianco che «la piccola borghesia produce cattivi umori di giorno, cattivi odori la notte» (e comperava la legna per i sacri roghi, aggiungo io).

Insistiamo a voler ricordare, che è meglio.

© testo e foto di Giancarlo Mauri








Testo della lapide posta sul luogo dell'esecuzione, poi rimossa