Visualizzazione post con etichetta Parlaschino. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Parlaschino. Mostra tutti i post

martedì 27 gennaio 2015

Santa Maria della Fontana, a Vigadore



Invitato dalla locale Pro Loco, la sera del 24 febbraio 2012 a Varano de’ Melegari (Parma) ho tenuto una conferenza illustrata da diapositive sul tema: Tre vallate dell’Himalaya indiano. Come sempre, le mie argomentazioni si fondano sulle esperienze etno-antropologiche, con mirata attenzione agli arcaici culti rituali.
Commentando l’area del Nag Tibba, non mi ero scordato di illustrare e commentare l’uso di costruire dei templi sopra le polle d’acqua sorgiva, un metodo che ha due giustificazioni: 1) conservare integra la purezza dell’acqua alla fonte, un dovere per chi non dispone di un acquedotto e di una distribuzione capillare controllata; 2) far guadagnare quanto più denaro possibile alla casta clericale che ha in esclusiva gli affari del tempio.
In un'altra vallata, invece, le giovani madri mi venivano appresso e si slacciavano le vesti per mostrarmi i loro seni carichi di latte, chiedendomi di toccare con mano. Un segno d’orgoglio per loro: ho il latte per nutrire mio figlio.

Qui aggiungo il testo della mail da me inviata il 12 agosto 2000:

Panthwari. Il cielo è ingrigito dalle nuvole monsoniche, quindi passo alcune ore gironzolando per le stradine della parte più antica del villaggio, quella a valle della strada sterrata. È molto, molto interessante, con le sue tipiche case di legno ornate d’intarsi. Come da contratto, sono subito circondato da un gruppo di bambini e tutti vogliono una loro foto ricordo.
Poco dopo mezzogiorno rompo gli indugi e m’incammino verso il Nag Tibba, il monte sulla cui vetta - a 3048 metri - vi è un arcaico tempio dedicato al culto del Naga, il serpente-padre degli umani, esportato nei paesi vicini - Cina, Birmania, Thailandia e altri - sotto forma di dragone. Procedo veloce. Il sentiero sale in direttissima verso l’alto, senza andirivieni inutili. Sui 2500 metri di quota entro nella zona della pioggia, ma ormai ci ho fatto il callo. Pochi minuti prima delle 15, avvolto dalle nebbie arrivo al tempio, una costruzione di pochi metri quadrati circondata da un bianco muro di cinta. Nel mezzo del cortile (il tempio occupa l’angolo sinistro, in fondo) sgorga dell’acqua sorgiva, elemento prezioso sia per gli umani sia per abbeverare (incanalata e portata all’esterno del recinto sacro) le mandrie di bufali che i Gujjars - nomadi musulmani provenienti dai lontani monti pakistani - portano fin qui ogni anno da tempo immemore.
Scattate le foto esco dal recinto del tempio, dove trovo ad aspettarmi un giovane pastore Gujjars con una grossa roncola in mano. Mi fa cenno di seguirlo, io esito a farlo. Forse intuendo l’origine del mio disagio, il ragazzo posa l’attrezzo su di un sasso; adesso possiamo andare, e insieme valichiamo un costone erboso. Un centinaio di metri più in basso vi sono le tende nere dei nomadi. Tolgo le scarpe infangate ed entro in una di queste. Il tempo di adattare la vista al buio e mi ritrovo - seduto per terra, su di un tappeto - a bere latte appena munto in compagnia di uomini, donne e bambini. Alla faccia di chi, in India, mi aveva sempre dipinto i Gujjars come un’efferata banda di ladri e di assassini.
Più scendo a valle e più apprezzo il sole e il caldo. I contadini - sembra che nessuno ti veda, ma non fai un passo senza essere sotto il loro controllo - mi vengono incontro e tutti vogliono offrire qualcosa allo straniero che si è fatto oltre 1500 metri di dislivello per rendere visita al “loro” tempio. Chi mi porta del latte cagliato, chi delle pannocchie di mais abbrustolite, chi una tazza di the. Rientro a Panthwari giusto in tempo per la puja al tempio dedicato a devta Nag e a sua moglie devi Tilka. All’interno, le loro statue si trovano in due stanze separate, ai lati di un’impetuosa sorgente d’acqua. In queste valli è uso che tutte le strutture religiose dedicate ai Naga siano erette a protezione delle sorgenti, e questo perché mantenere la purezza dell’acqua alle sue origini è una ricchezza per la vita collettiva. In altre parole: gli spiriti degli antenati sono messi a difesa della vita futura.

* * *

Il giorno seguente, tornando da Varano de’ Melegari ho introdotto una deviazione, uscendo dall’autostrada al casello di Lodi per raggiungere una sua frazione, Vigadore. Il perché è subito detto: da tempo raccolgo materiale inedito su Giovanni Gavazzi Spech, l’uomo che ha firmato il primo articolo inerente un’ascensione alpinistica nel Gruppo delle Grigne - (L’Alpinista, anno 1875, n. 6) - la cui vita chiuderà la serie di libri sul tema Scienziati e Letterati Esploratori del Gruppo delle Grigne, una collana da me ideata e di cui ho già pubblicato le monografie dedicate a Leonardo da Vinci, Paride Cattaneo della TorreNiccolò Stenone, Lazzaro Spallanzani, Mario Cermenati e al Parlaschino.
L’articolo di GGS, possidente che agli affari di famiglia preferì la letteratura, è scritto con taglio giornalistico e risente delle frequentazioni da lui avute con la Scapigliatura milanese e con gli autori che ronzavano attorno alla Cronaca bizantina dell’editore Sommaruga.
Apriti cielo. Letto l’articolo di GGS, nelle Sedi delle prime Sezioni del giovane Club Alpino Italiano - provinciale imitazione dell’Alpine Club di Londra - immediata s’innalza al cielo la domanda-protesta: Carneade, chi è costui!
Da Lecco, il politicante socialista Mario Cermenati, già membro di un reale governo, lancia la sua dolorosa frecciatina contro il Gavazzi sotto forma di nota inserita a piè di pagina in uno dei suoi troppi scritti.
L’onere di dare una solenne risposta ufficiale all’incauto GGS se l’accolla il botanico Vincenzo Cesati - al tempo docente universitario presso l’ateneo di Napoli, uomo che si fregia del titolo acquisito di barone di Vigadore – anch’essa pubblicata sulla rivista del C.A.I. (L’Alpinista, anno 1875, n. 11).
La carriera alpinistica di GGS – sempre che lui avesse inteso di darle un seguito – è definitivamente stroncata: che ogni uccello svolazzi pure nello spazio a lui destinato, ma che lasci liberi i cieli più alti, più tersi, più blu, area di competenza degli aquilotti C.A.I.ni.

* * *

Oggi come allora, Vigadore è una frazione prettamente agricola, che così ho descritto in una mail:

[…] Stamattina, strada facendo, ho fatto una deviazione per visitare la cascina Vigadore, un tempo baronia dei Cesati, di cui uno, Vincenzo, è coinvolto nella mia storia dell’esplorazione delle Grigne. [...] Prima di salutarci, mi è stata indicata una vicina chiesa dedicata a Santa Maria della Fontana: come da me raccontato e dimostrato parlando del Nag Tibba, anche questa chiesa “inferiore” è stata costruita a custodia di una sorgente. L’interno e l’esterno è tutto affrescato, e un cameo pare riprodurre, con molta fantasia, le due Grigne ed i Corni di Canzo. Sopra l’altare, vi è una vergine che allatta, chiaro legame al culto del latte materno, la prima fonte nutriente, come sopra ricordato parlando dell’Har-ki-dun. Ai suoi piedi, un tombino copre la fonte d’acqua. Migliaia di km di distanza, ma stessi culti e stessi simboli. La conferma di ciò che affermo da una vita: studiare i popoli tribali per capire noi stessi.

© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri















mercoledì 21 maggio 2014

Il Parlaschino ritrovato


Sono finalmente riuscito a rendere omaggio alla tomba dell’abate Paolo Emilio Busi, importante figura di poeta e letterato nato nel 1571 in seno ad una famiglia di Parlasco e per questo detta “i Parlaschini”. Di lui scrive Giuseppe Arrigoni nel fascicolo III dei suoi Documenti inediti riguardanti la storia della Valsássina ecc., s.d. ma 1857:

«Nacque povero, visse da prodigo guadagnando molto e consumando tutto, da vero letterato, morì miserabile.
[NOTA: Da un istromento di vendita in data 16 giugno 1586 rogato Prospero Grattarola di Margno esistente nell’archivio parochiale di Taceno si ricava che essendo morto senza testare Bartolommeo Barlaschino De Busi, e successi nella eredità Battista ed Angelica suoi figli, non che Paolo Emilio e Rosa figli del premorto altro suo figlio Francesco, relicto satis ideneo patrimonio tamen relictis tot debitis qui assorbent fere vires patrimonii, né avendo la madre di Paolo Emilio (passata a seconde nozze) mezzi per continuare la educazione del figlio avviato al sacerdozio, questi ricorse al Senato per impetrare il permesso di alienare la propria sostanza, e che in fatti la vendette al nob. Gio. Piero Barroverio di Perlasco per la somma d’imp. lire 1050 depurata delle passività. In una lettera che, vecchio, scriveva ad un amico egli stesso dice: «Io sono ingombrato dalla mia solita malinconia, e perché puochi mi veggono uscir di casa, stimano, ch’io procuri di nascosto dalla inesorabil Atropos, comodità di varcar sopra le sue spalle l’horribile et oblivioso Lethe, che mi vieta il stizzoso Caronte, perché di tanti scudi e doppie da me guadagnate con stupor di chi mi ha conosciuto, hora non ho un quattrino, con che potessi, dopo traghettato, pagar a lui, come conviene il nolo della barca». Ed altrove dice: “Già dei viventi una felice morte / M’avrebbe sciolto, se non mi premesse / De’ creditori miei la trista sorte.”]
Fu maestro di grammatica prima a Bellano, poi ad Asso, ed indi professore di belle lettere e rettore del Collegio Calchi-Traegio a Milano. Bersagliato per tutta la vita dall’invidia e dalle disgrazie, ritornò nel 1651 a Bellano a “terminare gli anni dell’infiacchita vecchiezza”, com’egli si esprime in una lettera di congratulazione in data 18 agosto del 1652 a Martino Denti di Bellano per la costui elezione al vescovado di Stróngoli. Ed in fatti ivi spirò nella grave età d’anni 82 il giorno 15 gennajo del 1653, ed il dì 11 giugno successivo venne il suo cadavere trasportato nel sepolcro che egli stesso nella chiesa della Natività di Getana si era preparato nel timore di essere còlto dalla terribile e celebre peste del 1630, di cui furono vittime gli amici suoi Gussalli e Boldoni e che egli aveva schivato ritirandosi a Gorgonzola in casa di un suo parente. Sulla pietra sepolcrale ancor si legge l’iscrizione che aveva fatto scolpire così concepita: DONEC TUBA / PAULUS AEMILUS PARLASCHINUS / FREQUENTISSIMA ULTIMI TERRIBILIUM / COGITATIONE COMMOTUS IN HOC / DELUBRO UBI CASIBUS ADVERSIS / PRÆSENTEM DIVINI NUMINIS / CLEMENTIAM EST EXPERTUS HUNC / TUMULUM SIBI PONENDUM CURAVIT / ANNO REPARATIONIS HUMANÆ / MDCXXX ETATIS SUÆ LX / QUIESCAM. Dopo due secoli dacchè vi fu deposto ne feci levare il coperchio e con un lume spinsi lo sguardo nel bujo sepolcro ed esclamai : Che ci rimane del Parlaschino? del corpo poca terra, dello ingegno ancora i frutti.»

Aggiungo: benché nato povero, Paolo Emilio riuscì a completare i suoi studi a Parigi. Della sua opera, oltre ad una Breve Descrizione della Valle Sássina mi piace ricordare il Transitus Corinnae Paulli Aemylii Parlaschini Academici Parthenij ad Io. Baptistam Pinium Datiensem …, Mediolani : Apud Malatestas Regios Impressores, 1608, nonché il compendio e la traduzione dei Progymnasmatum latinitatis sive Dialogorum del gesuita Spanmüller (Giacomo Pontano), originariamente scritti per un pubblico tedesco e pubblicati in Italia col titolo Brieue scelta de ciuili costumi estratti dal secondo volume de Dialogi latini del p. Giacomo Pontano della Compagnia di Giesù. Utilissimo à tutti, e principalmente a chi dappò il compimento di ogni buona creanza desidera intendere, come si habbin da regolare i propri sentimenti. Nouamente a beneficio commune tradotti da Paolo Emilio Parlaschino. In Milano : appresso Gio. Battista Bidelli, 1621 -, opera, questa, da accostare alla traduzione in volgare del notissimo Galathaei lectissima de moribus praecepta in studiosae civilisque juventutis di Giovanni Della Casa, anch’essa portata a buon fine dal Parlaschino e pubblicata nel 1624 per i tipi di Laer. Jo. Bapt. Columnae. Queste due traduzioni dimostrano una sensibilità del nostro uomo verso un modello di vita entrato nell’immaginario collettivo come “galateo”.

In passato, “da lui” sono stato più volte, trovando la chiesetta sempre chiusa. Un bel giorno una signora del posto m’informa che la domenica mattina un sacerdote viene a celebrare la messa nella vicina chiesa, e che di solito lui porta con sé le chiavi.
Le credo ed eccomi di nuovo a Gittana, con l’agognata porta finalmente aperta. Dentro, il soffitto è tutto solcato da pericolose fenditure e il pavimento è utilizzato come deposito per ogni cosa possibile. Della tomba nessuna traccia, ma l’esperienza insegna e allora con calma e con l’aiuto di mia moglie comincio a spostare tutto lo spostabile, riempiendo l’aria di polvere decennale. Al centro del pavimento rimane un lungo e pesante tavolo. Spostato anche questo, l’ultimo ostacolo è rappresentato da una tavola di legno e sotto ... ecco la lapide tombale di Paolo Busi, rotta in più pezzi. Ho scattato alcune foto, poi ho rimesso ogni cosa al suo posto.

Ora non pretendo che tutti sappiano del Parlaschino, ma qui, tra il « Beatus Pater Larius » (parole del poeta) e la Valsassina non è che ci sia stata un’invasione di menti sopraffine tali da giustificare questo abbandono. Ovunque in Europa, una chiesetta d’origine longobarda che raccoglie i resti di un poeta che aveva goduto di un certo prestigio non è merce da buttare, come ho visto fare qui, ennesimo esempio che conferma quel che penso da sempre: questo Paese non uscirà mai dalla sua profonda crisi morale, molto più pericolosa di quella economica. Perché i soldi vanno e vengono, ma la l’ignoranza volutamente seminata rimane - e prolifica più della gramigna.



LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
scatti del 25 marzo 2016