Con “Milano ne' suoi monumenti” Carlo Romussi vince
il premio bandito nel 1872 dalla Società Pedagogica Italiana per “un’opera che
illustrasse popolarmente i monumenti di Milano”. Il libro, 408 pagine, esce nel
1873 pei tipi della Libreria Editrice G. Brigala di Milano e il suo primo
capitolo, una prefazione, così recita:
I.
Monumenti.
I monumenti sono un libro sempre aperto sulle cui pagine
secolari ognuno può leggere la veritiera istoria de’ suoi padri; perché mentre
gli scrittori anche più coscienziosi van quasi sempre soggetti all’influenza
di un partito o di un’idea preconcetta, i monumenti, imparziali testimoni, ci
rappresentano le età trascorse colla civiltà, le virtù, i vizi e perfino il
pensiero degli uomini che innalzarono le loro moli. [Nota 1: Dirà alcuno: E
che? non vi son forse monumenti bugiardi? il trofeo di granito che esisteva
fino a pochi anni sono, fuor di Porta Ticinese e che attribuiva a Don Pedro
Enriquez de Azevedo conte di Fuentes, la gloria di aver messo in comunicazione,
per mezzo del naviglio di Pavia, il Verbano ed il Lario col Po, non era
bugiardo? il conte di Fuentes, che l’aveva innalzato a se stesso, non compì
mai quell’opera che voleva ricordare ai posteri. Ma rispondiamo che quello era
un monumento veridico dell’età sua, poiché nessuno prestava fede all’intenzione
di chi l’aveva innalzato, ma ad ognuno ricordava la miseria di un’epoca in cui
la boria dei dominatori spagnuoli, che aveva ogni cosa corrotto, credeva poter
corrompere perfino la storia dei vinti.]
A chiunque si accinga a discorrere dei monumenti di una
città, si affacciano due vie opposte: la prima è d’esaminare partitamente
ciascuno di essi secondo la rispettiva posizione topografica: l’altra di
parlarne seguendo invece la traccia delle storiche vicende. Il primo metodo
offre monografie che possono essere di grande utilità, specialmente per i
dotti; ma l’altro raccoglie ed affratella i monumenti in una sola origine e li
fissa nella mente con una sequela di patrie memorie, ora liete ora tristi, ma
pur sempre care all’animo fervente di cittadino amore. Questa seconda via
mantiene continuata la narrazione, stabilisce più viva la corrispondenza fra
chi legge e chi scrive, fa apparire più manifesto come un solo linguaggio
parlino arte e patria e sia uno solo il loro culto, fonte delle più generose
inspirazioni e delle più nobili virtù.
Quanto benediremmo la nostra fatica se queste povere pagine
giovassero in qualche modo a frenare la smania demolitrice che ci rapisce ogni
giorno tanti ricordi dei maggiori: e facendo meglio conoscere ai nostri
concittadini la natia città nel suo passato, ogni monumento, per quanto guasto
dal tempo e dagli uomini, ogni sasso, per quanto annerito, suscitasse un
pensiero nella mente, un sussulto nel cuore: parlasse alla mente,
ammaestrandoci col ricordo delle trascorse età: al cuore perché sono le opere
dei padri nostri e le dobbiamo venerare con un senso di riverenza, come fossero
la croce che li ricorda, ma insieme di nobile orgoglio, perché sono la prova
più bella della loro potenza ed operosità.
La storia non ci tramandò il nome degli artefici di molte
di quelle opere grandiose: chi le imaginò? chi tradusse il pensiero in azione?
lo si ignora; forse popolani oscuri al par di noi che però consumarono la vita
a render bella e forte la patria: che soffrirono fors’anco guerre di emuli,
stenti e dolori per tramandare ai nipoti eredità di opere che non passano. Ma
noi impareremo pur sempre da essi: e se non sortimmo dalla fortuna illustre
nascita o splendidi censi, se altro non possediamo che le braccia e le divine
gioie del lavoro, cessiamo dal guardare con invidia i prediletti della sorte:
anche noi siamo ricchi e nobili, perché nostri sono questi monumenti: qui
troviamo i nostri stemmi gentilizi, le glorie avite.
Studiamoli adunque per non sentirci ripetere quelle amare,
ma giuste parole che l’illustre Tomaseo ci rivolgeva: «I forastieri vengono a
saperne più di noi dei nostri monumenti: a essere loro più di noi, nello
spirito, eredi di quella gloria: essi cittadini e noi stranieri in patria: essi
padroni del pensiero italiano, e noi da meno che schiavi, bruti che a piè di
quei monumenti stanno stupidi ruminando.»
Un libro tira l’altro, come le buone ciliegie
colte dall’albero. E qui, seguendo il filone aperto dalla nota [1] c’è da farne
indigestione….
Si potrebbe iniziare degustando la funzione
delle note al testo, un lavoro ottimamente svolto da Anthony Grafton e
pubblicato in Italia col titolo “La nota
a piè di pagina. Una storia curiosa” dalle Edizioni Sylvestre Bonnard,
Milano 2000. Nel risguardo di copertina si legge:
Nel capitolo iniziale de La nota a piè di pagina Anthony
Grafton offre vari divertenti esempi dei molti modi in cui, nel suo specifico
campo di studio: la storia, l’uso apparentemente neutro delle note a piè di
pagina costituisca in realtà una raffinata risorsa per le ambizioni
individuali, la rivalità o le divergenze di impostazione culturale. Alcuni
storici le considerano l’occasione per esibire credenziali. Per altri, esse
offrono l’opportunità di pugnalare i colleghi - anche soltanto grazie a un
freddo, poco appariscente aggettivo (come in Francia) o per omissione (come in
Italia) o utilizzando “cfr.”, che Grafton definisce “sottile ma micidiale.”
Tra i tanti, di certo un maestro nell’uso del
“pugnale” è stato il politico e storico lecchese Mario Cermenati, le cui note a
piè di pagina sono imperdibili: non poche volte vi si legge “ringrazio per il
suo pregevole lavoro l’esimio Tal dei Tali”, frase subito seguita dal
sistematico smantellamento del citato “pregevole lavoro”. Innalzare il valore
del nemico per rendere più importante la propria (presunta) vittoria è un
vecchio trucco, sempre d’attualità, soprattutto tra i politicanti di bassa lega…
Nel passato molti “eroi” di turno hanno
lasciato tracce del proprio passaggio sulla Terra facendo scolpire nel marmo
false vittorie. Oggi sappiamo che un faraone d’Egitto lasciò scolpito d’aver
vinto una battaglia da lui persa… Per approndimenti rinvio a Ceram C.W., Il libro delle rupi. Alla scoperta del regno degli
Ittiti, Einaudi, 1974, libro da me amato: dopo averlo letto presi armi e
bagagli (le macchine fotografiche, libri e la famiglia) e a bordo di una R5 partii dalla natìa Martesana (terra che separa la Brianza dal milanese) per approdare, via Atene -
Istanbul - Ankara, ai confini con l’Iran, in visita ai resti delle allora
dimenticate città degli Hittiti e dell’affascinante tempio rupestre di Yazilikayà,
sulle cui pareti sono scolpite le principali divinità hittite, con tanto
di nome e di simboli, inclusi i 12 seguaci del Dio principale; 12 come i
profeti maggiori, 12 come i profeti minori, 12 come gli apostoli, 12 come i
mesi dell’anno, etc. etc.
In tempi più recenti la falsità ha raggiunto
livelli mondiali grazie all’uso della stampa. In casa, giusto per limitare gli
esempi, ho le Enneadi di Plotino ma anche i sermoni del Buddha in due volumi, eppure
tutti sappiamo che né Plotino né il Buddha (e nemmeno il Cristo, Maometto, il
tirthankara Jaina e tutti gli altri "fondatori" di religioni) hanno scritto una
sola parola. Che fossero analfabeti? I “loro” testi non sono che invenzioni
postume, diventate verità colata per convenienza economica e politica delle
parti interessate. Stesso discorso si può fare coi quattro vangeli attribuiti a
Marco, Luca, Matteo e Giovanni, di certo non scritti dai quattro “apostoli”. In
materia rinvio a Verità e menzogne della Chiesa cattolica. Come è stata manipolata
la Bibbia, un saggio di Pepe Rodriguez pubblicato in Italia da Editori Riuniti, a.d. 2000.
Che la
truffa piaccia “a bruti
che a piè di quei monumenti stanno stupidi ruminando” (parole di Niccolò
Tomaseo, nota 2 al capitolo I del libro di Romussi) lo dimostra il successo
planetario di un libro probabilmente non scritto ma firmato da Dan Brown, autore di altri volumi di scarso appeal divenuti bestsellers
solo dopo il successo de Il codice da Vinci, lavoro da inserire nella lotta
per il potere “religioso” negli Usa ai tempi dell’imbelle presidente George
Walker Bush, un alcolizzato finito nelle mani di un ambizioso prete della Chiesa cristiana evangelica.
In questo
periodo sono impegnato nella trascrizione in formato Word del fascicolo 103 - inserito
nel volume 10 delle Famiglie
celebri di Italia di Pompeo Litta - dal titolo Torriani di Valsassina, Dottor
Giulio Ferrario Editore, Milano, 1850, in folio (47 cm), 12 tavole di testo, 3
tavole incise. La Tavola IV è interamente dedicata a GUIDO, quarto e ultimo
signore di Milano, e ai suoi eredi. Di un suo figlio così scrive il conte Litta:
LAMORALE. È un personaggio verosimilmente ideale. Sono
alcuni d’opinione che da esso derivi la famiglia di Torquato Tasso, la quale
aveva preso cognome dal soggiorno che essa aveva negli antichi tempi nella
contrada detta il Cornello in Valle Brembana. Giace il Cornello in confine
della Valsassina, e colà vi è il monte del Tasso così detto dall’abbondanza dei
tassi. Ruggero di questa famiglia nel 1493 introdusse le poste nella Germania,
e da ciò i cavalli di posta portano in fronte la pelle del tasso, e la famiglia
Tasso porta la cornetta da postiglione nello stemma. Ruggero per questo
servizio, dall’imperatore Massimiliano ebbe in titolo feudale il generalato
delle poste dell’impero. Da lui derivò una famiglia ricchissima e potente, che
si propagò nella Spagna, nelle Fiandre, in Napoli ed altri luoghi, ove gli
imperatori avevano il diritto di tenere uffizio indipendente di posta, come
allora si usava. In Germania i Tasso presentarono un memoriale all’imperatore
Ferdinando III, col quale vollero provare di discendere dai Della Torre, o Torriani
già signori di Milano, e domandavano di essere repristinati nel loro primitivo
cognome. L’imperatore nel 1650, 4 dicembre diè loro un diploma, con cui li
riconobbe tali e li intitolò quali essi desideravano, e obbligò i magistrati e
i tribunali a fare altrettanto. Dopo il diploma i Tasso in Germania si fecero
chiamare Thurn et Taxis di Valsassina. A tutto ciò prestarono assenso i conti
Della Torre o Torriani del Friuli, i quali uniti in congresso in Udine,
esaminarono e accettarono le prove loro presentate dai conti Tassis di
Germania. Questo è il fatto, ed io a suo tempo pubblicherò la loro famiglia
Tasso, la quale è, quanto sembra, affatto indipendente della famiglia Torriani.
Il ramo della famiglia Tasso, da cui derivano i principi Thurn e Taxis di Germania,
è da non molti anni in Bergamo estinto. I rami della casa de’ Torriani o Della
Torre, che stanno in Germania si chiamano conti di Thurn.
Ecco: grazie a ricche elargizioni di prebende, Lamorale - “un personaggio verosimilmente ideale” - è diventato il riconosciuto capostipite
di almeno due rami dinastici: i bergamaschi Tasso e i tedeschi Thurn und Taxis,
gli inventori delle poste moderne e dei taxi, che da loro prendono il nome.
Essendo in Germania, vien facile la battuta: quel che per noi è “giusta
mercede”, per i teutonici diventa “giusta mercedes”. Versione Taxis.
Visto che ho citato due pezzi da novanta,
Pompeo Litta e Niccolò Tommaseo, così scrive di loro un terzo nobile letterato, lo
scapigliato Carlo Alberto Pisani Dossi, nelle sue gustosissime Note azzurre (edite e riedite da Adelphi):
Il conte Pompeo Litta, dilettante pittore, che fa, come
dice la S.ra Confalonieri, delle magnifiche cornici a’ suoi quadri,
invita un giorno a pranzo Cesare Confalonieri - per dargli pane raffermo, cacio
avanzato nelle trappole, manzo buono a far scarpe - vino senz’uva, e quattro
zaccherelle (mandorle spaccherelle) e 6 noci. Sulla porta intanto della sala da
pranzo leggevasi scritto a grandi caratteri. «E se talor la vita partì amara -
Pensa a Bokara» (dove il Litta col Meazza e il Gavazzi rimase un anno
prigioniero del kan, molto kan) - E Confalonieri battendo sulla spalla del
conte Pompeo… Dovresti cambiar, sai, l’iscrizione - e metterci: e se amara
talor partì la vita - Pensa al pranzo del Litta.
La frase: “dilettante pittore, che fa delle
magnifiche cornici a’ suoi quadri” da sola completa il discorso sulle note a
piè di pagina: frasi buttate lì per dire (in questo caso): le cornici sono la
veste grafica, i quadri sono i contenuti delle pubblicazioni del Litta…
E del Tommaseo? che dice di lui il Dossi nelle sue Note azzurre?
Tommaseo, egregio puttaniere. Manzoni udendo tale una sera
imbrodolare di lodi il dalmatino, saltò su a dire «l’è ora de finilla con sto
Tommaseo, ch’el gha on pè in sagrestia e vun in casin». Tommaseo, già
attempato, entrando nell’usato bordello, chiedeva alla fantesca «c’è la
candela?» Poiché il serafico poetuccio, l’autore di tanti libri di pedagogia,
per eccitarsi al sagrificio venereo avea bisogno di una candela di sego nell’ano.
E Tommaseo chiamava poi le mammelle «le ali dell’uccello».
Dopo aver letto quest’ultimo aneddoto, a
Venezia tanti turisti mi hanno visto ridacchiare ogni volta che passo da Piazza
Santo Stefano, rallegrata dalla statua del Tommaseo seduto su di una “paccata” di
libri e questi, visti da una particolare angolazione, hanno fatto sì che per i
veneziani doc “il dalmatino” diventasse “el cagalibri”… perché quei libri sembrano uscire
dal posto dove il celebre Niccolò gradiva sentir entrare la candela…
Troppo bella la letteratura: ci si diverte, frequentandola.
© testo e foto di Giancarlo Mauri
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Mario Cermenati |
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Niccolò Tommaseo |
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Pompeo Litta |
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prima edizione (purgata), 1964 |
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riedizione integrale, 2010 |