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sabato 9 aprile 2016

Sulle tracce degli Hittiti



In questi ultimi tempi è riaffiorata la mai sopita guerra tra Grecia e Turchia. Stavolta non si usano le armi ma si riempiono piccole isole con centinaia di migliaia di migranti in fuga dalle guerre create ad hoc dai Paesi esportatori di democrazia bancaria. Questa drammatica realtà mi dà lo spunto per raccontare delle mie esperienze vissute in terra turca, storie ambientate negli anni in cui m’interessavo all’affascinante mondo degli Hittiti, che mai furono una piccola tribù citata nella Bibbia come storiella vuole, ma una grande e influente progenitrice della nostra civiltà.

Agosto 1982. Sostituita la vecchia e distrutta R4 con una nuova, fiammante R5 (950 cc di cilindrata) io, mia moglie e nostro figlio (sette anni, otto a novembre) osiamo spostare i nostri confini puntando decisi verso sud, con sosta a Brindisi, il porto d’imbarco per Igoumenitsa. In terra greca la nostra rotta punta verso oriente: Salonicco, Stavros, Kavala (con le rovine di Filippi) e Alexandroupoli, l’ultimo avamposto prima del confine turco - ma anche l’unica città dove le banche usavano cambiare la valuta greca con quella turca. Sì, perché trent’anni fa l’Euro non esisteva …e tra la Grecia e la Turchia non è mai corso buon sangue.
Passare certi confini, poi, non era cosa facile: meglio arrivare di buon mattino, armarsi di santa pazienza e sperare di non trovare un militare represso. Aggiungo: noi tre si viaggiava in beata solitudine, senza scorta né raccomandazioni …e mia moglie ha i capelli biondi naturali, cosa che in certe parti del mondo ha tuttora i suoi pro e i suoi contro.
Essendoci passato quattro volte, quel confine lo ricordo bene: una vasta area pianeggiante ricoperta da acque palustri da superare su di uno stretto ponte, lungo un paio di chilometri, al cui termine vi era l’area di sosta ingombra di camion. Qui si doveva lasciare l’automezzo, e dopo un primo controllo dei documenti iniziare il giro delle sette chiese per farsi mettere sul passaporto i timbri di prammatica, operazione complicata dal fatto che noi si viaggiava su di un’automobile immatricolata in Italia. Marca e targa venivano trascritti sul passaporto e questo significava che io e quella macchina eravamo uniti in matrimonio indissolubile: insieme entravamo in Turchia, insieme dovevamo uscire, anche nel caso che l’auto (e/o il proprietario) fosse andata distrutta in un incidente: i carri attrezzi e i carri funebri servivano allo scopo. Una precauzione voluta per evitare che una volta in Turchia dichiarassi un furto dopo aver venduto l’auto, una transazione vietata dalla legge.
Dopo un’intera mattinata passata a sbrigare carte, ecco il momento del si passi e allora via, verso Istanbul e il suo campeggio comunale. Istanbul: un sogno avverato e una pausa di alcuni giorni per alleviare i disagi del lungo viaggio. Sebbene le strade di questa metropoli fossero sature di biciclette, furgoncini, carretti e …dromedari, senza difficoltà raggiungevo il centro con la mia R5, posteggiando fuori delle moschee, dei musei - e la sera nei pressi del vecchio ponte di Galata (quello di legno, ora distrutto) dove usavamo cenare in uno dei fatiscenti ristoranti del suo piano inferiore, con un cameriere che m’invitava a seguirlo per scegliere i pesci da cucinare direttamente dalle barche dei pescatori.

Lasciare l’Europa e mettere le ruote in Asia minore era l’ultimo punto fisso del viaggio: la prima volta abbiamo voluto provare il vecchio traghetto, le successive abbiamo optato per il ponte sul Bosforo, quello inaugurato nel 1973. Una volta in terra asiatica, ad Alikahya Fatih le strade si dividevano: a destra per Bursa e la costa, sempre diritti per Ankara e l’entroterra. Noi abbiamo puntato sulla capitale, anche perché interessati alla visita del suo Museo delle Civiltà Anatoliche, il luogo dove sono custoditi molti reperti hittiti. Ricordo ancora l’arrivo in salita, su strada sterrata, con sosta davanti all’ingresso del museo. Nessun turista oltre a noi e tanta curiosità di vecchi e bambini per i tre italiani che viaggiavano su di una piccola automobile e non sulla classica Mercedes di quarta mano e coprivolante in finto pelo di pecora, orgoglio dei turchi lavoranti in Germania tornati in patria per le ferie estive.
Dopo Ankara, ancora verso oriente tra campi multicolori, fitti boschi alpini, strade tortuose, camion riccamente dipinti e radi villaggi dove fermarsi per un pasto, per fare benzina (solo distributori BP, acronimo di British Petroleum …e anche questo insegna) o per dormire. Una sera ho chiesto ad un ragazzo se nei dintorni vi era un campeggio. Lui mi ha guardato strano, poi mi ha risposto: perché? non ti bastano tutti i prati che ci sono qui? Finimmo ospiti in una linda casa, con nostro figlio libero di andare a giocare coi suoi coetanei - e come facessero a capirsi (e si capivano, eccome!) resta ancora un mistero.
Alla fine, dopo le dovute soste per visitare sperduti siti archeologici, eccoci alla meta: Boğazköy-Hattuša, l’antica capitale hittita sviluppatasi ai piedi dell’acropoli di Büyükkale. Al villaggio arriviamo di pomeriggio e subito la nostra automobile è circondata da una torma di ragazzini che reclamano la presenza di nostro figlio nei loro giochi - e che noi all’ora di cena dovevamo cercare di strada in strada. Era questo, l’arrivo in un villaggio, uno dei momenti più attesi da noi, quando ci lasciavamo coinvolgere dall’ospitalità del popolo contadino. Una famiglia volle farci visitare la loro cantina, dove, alla luce di una torcia improvvisata con le pagine di un giornale, ammirammo gli affreschi del soffitto, la volta di una chiesa cristiana.
Una mattina, mentre noi si vagava alla ricerca di antiche strutture, ci vediamo avvicinare da un uomo della mia età, coi suoi neri baffoni e un asino alla briglia. Lui parla il suo dialetto, noi il nostro e quindi non capiamo le sue intenzioni. A questo punto lui agisce: prende Daniella per i fianchi e la issa sulla groppa dell’asino. Poi prende Marco e lo fa sedere dietro a sua madre. Adesso tutto è chiaro: sarà lui a guidarci tra valli e meandri, portandoci nei luoghi da noi ricercati. Strada facendo il nostro uomo si ferma, estrae di tasca un coltello e punta la lama verso di me. Ho capito: metto le mani in tasca e tolgo un affilatissimo coltello regalatomi a Creta, un vero rasoio. Lui lo ammira con occhi da competente. Entro pochi secondi lo scambio è fatto: lui ha in tasca il coltello di Creta, io il coltello turco. Adesso possiamo proseguire: gli uomini a piedi, donne e bambini sulla groppa dell’asino, come buona educazione pretende.
Il nostro giro finisce a casa dell’improvvisata guida, dove sua moglie si prodiga per rimpinzarci di cibo e di tè bollente. Non soddisfatta, estrae da sotto il letto una cassa, ne estrae un abito tradizionale e lo offre a Daniella. Con tatto lei rifiuta il dono: la nostra ospite ne ha bisogno, in Italia finirebbe in un armadio. La donna comprende e rilancia: se non vuoi il mio abito non potrai rifiutare un ingombrante e pesante vaso da cui spunta un alberello. Qui intervengo io, aprendo il bagagliaio dell’auto per far capire che mai quel dono potrebbe entrare in così poco spazio. Alla fine ce ne siamo andati con una forma di pane fresco, ancora caldo, cotto nel forno di casa…

Nei primi anni Ottanta in queste lande anatoliche non ancora invase dalle truppe cammellate dei viaggi organizzati tutto era a disposizione di tutti, senza controllori né biglietterie e noi, essendo l’area archeologica di Boğazköy-Hattuša immensa, per visitare i reperti e per fare il giro interno delle mura ci siamo serviti del nostro automezzo, come consigliatoci nel villaggio. Simpatici ragazzini si proponevano di farci da guida, ma si capiva subito che era una scusa per entrare in un’automobile, una novità per loro. I più timidi ci avvicinavano per offrirci improbabili reperti antichi in cambio di pochi spiccioli; dopo una giocosa trattativa nessuno è rimasto deluso.
L’area archeologica: dopo la visita al museo di Ankara, dove sono custoditi gli originali, ben sapevamo che i leoni messi a guardia delle porte di Karatepe e di Malatia erano delle riproduzioni, ma essendo davvero simili ai deportati queste falsità nulla toglievano al fascino di quei luoghi. Anzi: erano più belli questi falsi in loco, illuminati dal sole, che non gli originali, custoditi in un ambiente buio e male illuminato da fioche lampade a luce verdastra. Trovai istruttiva la traversata delle mura entro gli stretti passaggi ricavati alla loro base, postierle lunghe decine di metri e utilizzate in tempo di guerra per le sortite degli assediati. Una tecnologia, questa, datata XIV-XIII secoli aec: oggi sapremmo fare di meglio senza l’uso del calcestruzzo?

Distante alcuni chilometri dal villaggio, al santuario rupestre di Yazilikaya abbiamo dedicato un’intera giornata. Posteggiata l’auto, per prima cosa ho voluto fare il giro esterno del recinto, Il libro delle rupi di Ceram alla mano, dove la foto di frontespizio mostra una roccia su cui è scolpita una processione divina: dodici rilievi di Dio in marcia da sinistra verso destra. Dodici, come dodici sono i Profeti maggiori, dodici i Profeti minori, dodici gli Apostoli, dodici i mesi dell’anno e tanti altri dodici sacralizzati. Trovato il pertugio da dove è stata scattata la foto del frontespizio, è tempo di dedicarsi all’intera struttura. Scavalcati i resti dei muri ci si ritrova nel vasto cortile interno, dove una parete di calcare a forma di U è tutta scolpita con figure di divinità che rimandano, per simboli palesemente esibiti, alle divinità hindu - laggiù arrivate dopo un passaggio tra i miti della Mesopotamia e della religiosità iraniana. L’ingresso alla seconda camera, nascosta alla vista, è stato il mio battesimo nel regresso in utero: una stretta fessura nella roccia introduce in un primo, breve, corridoio. Poi si piega a destra e si entra nel sancta sanctorum, chiuso sul fondo. Si è nell’utero rigenerativo della Grande Madre e con la pazienza si ha modo di comprendere quel che gli antichi scultori hanno realizzato. Pazienza, ho scritto, perché si deve aspettare che i raggi del sole fecondino questa galleria e solo allora, e per un breve lasso di tempo, si ha la visione della nascita (o rinascita) dei simboli sacri scolpiti nella roccia: la luce radente, creando piccole ombre, mette in rilievo quel che a prima vista ci è stato negato di vedere, grigio su grigio. Sulla parete est, quella che fronteggia la processione delle dodici divinità, ecco pian piano apparire la grande figura del dio-spada (alta più di tre metri), con alla sua destra l’immagine del re Tudhaliya IV in veste cerimoniale e cartiglio reale, protetto dal dio Šarruma.
La perfetta visione di questi rilievi rupestri - datati 1250-1220 aec - dura poco: mezzora o giù di li. Poi il sole diventa frontale, le ombre svaniscono e le immagini tornano ad essere invisibili anche se, adesso che sappiamo dove si trovano, aguzzando la vista qualcosa s’intuisce…
Tre giorni dopo ci rimettiamo in viaggio, puntando verso alcune delle città più antiche del mondo: Alacahöyük, con la sua monumentale Porta delle Sfingi datata XIV secolo aec, con sosta ristoratrice, strada facendo, alle acque sorgive di Pamukkale: piscine naturali deserte, strade non asfaltate, i primi alberghi in fase di costruzione.

Tre anni dopo - stavolta su di una Fiat Ritmo Sport acquistata di seconda mano e subito sperimentata nel deserto del Sahara (agosto 1983; noi tre, le piste di terra battuta, le oasi, la popolazione locale …e tanto caldo) - eccoci ad Aphrodisias, allora sconosciuta area archeologica rivelatami il giorno prima della partenza da un provvidenziale articolo del National Geographic, il mensile allora riservato ai soli membri dell’omonima società. Pochi lavoranti, serpi e ramarri in quantità, una miriade di blocchi di marmo scolpito sepolti dalle erbacce. E poi di nuovo a Pamukkale, ospiti del generoso Mehmet, produttore di vino e venditore di antichi tappeti. Seguì il giro dei laghi centrali, la visita dei villaggi della Cappadocia e infine, sulla strada del ritorno, dopo una sosta a Çatalhöyük - sito dove è stata rinvenuta la statua della Dea seduta sul trono (o Dea partoriente), terracotta datata 7000-5500 aec, oggi esposta ad Ankara - eccoci a Bursa, la città nota per le danze dei Dervisci e per la qualità dei suoi coltelli: ancor oggi metto in tavola quelli acquistati nel suo bazaar. Istanbul rimane l’ultima tappa prima di Alexandroupoli, città greca che mai ha mancato di darci il bentornato nella civile Europa offrendoci il meglio della sua corrotta polizia…

Da questi viaggi sono tornato con migliaia di diapositive a colori, la cui selezione è stata da me utilizzata per una conferenza dove illustravo, scatto dopo scatto, l’apparire e il rapido svanire delle incisioni rupestri nel sancta sanctorum di Yazilikaya. Le hanno viste solo gli intervenuti alla serata organizzata dal Centro Culturale Guernica di Bresso (MI), l’unico Ente che ha osato correre questo rischio. Il vento cambiava: culi e tette imperavano sui teleschermi e la noiosa Cultura ne subiva i contraccolpi.
Oggi queste slides riposano accanto a migliaia di altre scattate in ogni angolo del mondo, oggi in gran parte estinto. Per questa ragione questo post non è illustrato con le mie fotografie, ma una dritta ve la regalo: potrete vedere quel che vi ho descritto consultando il già citato Il libro delle rupi di Ceram (pseudonimo di Kurt Wilhelm Marek), Einaudi editore e Ittiti di Kurt Bittel, volume 17 della collana Grandi Civiltà, reperibile in edizione economica stampata da RCS-Corriere della Sera: oltre alle immagini, vi troverete anche le mappe dei luoghi sopra descritti e un po’ di storia sull’affascinante mondo degli Hittiti.
Se poi vorrete approfondire alcuni temi sul culto delle Dee Madri rivolgetevi a Il linguaggio della Dea. Mito e cultura della Dea Madre nell’Europa neolitica, l’illustratissimo volume scritto da Marija Gimbutas e pubblicato da Longanesi nel 1989 (ma esistono successive ristampe, in edizione economica).

© Testo di Giancarlo Mauri

Viaggiare nei primi anni Ottanta:
due ingressi e due uscite da Grecia e Turchia
occupavano 4 pagine del passaporto




Una recente mappa dei luoghi
e due incisioni di
Charles Texier (1834)




La processione divina di Yazilikaya
e la Dea partoriente di Catalhoyuk



mercoledì 21 maggio 2014

Letterati bugiardi, pettegoli …e un po’ ruffiani


Con “Milano ne' suoi monumenti” Carlo Romussi vince il premio bandito nel 1872 dalla Società Pedagogica Italiana per “un’opera che illustrasse popolarmente i monumenti di Milano”. Il libro, 408 pagine, esce nel 1873 pei tipi della Libreria Editrice G. Brigala di Milano e il suo primo capitolo, una prefazione, così recita:

I.
Monumenti.

I monumenti sono un libro sempre aperto sulle cui pa­gine secolari ognuno può leggere la veritiera istoria de’ suoi padri; perché mentre gli scrittori anche più coscien­ziosi van quasi sempre soggetti all’influenza di un partito o di un’idea preconcetta, i monumenti, imparziali testi­moni, ci rappresentano le età trascorse colla civiltà, le virtù, i vizi e perfino il pensiero degli uomini che innalzarono le loro moli. [Nota 1: Dirà alcuno: E che? non vi son forse monumenti bugiardi? il trofeo di granito che esisteva fino a pochi anni sono, fuor di Porta Ticinese e che attribuiva a Don Pedro Enriquez de Azevedo conte di Fuentes, la gloria di aver messo in comunica­zione, per mezzo del naviglio di Pavia, il Verbano ed il Lario col Po, non era bugiardo? il conte di Fuentes, che l’aveva in­nalzato a se stesso, non compì mai quell’opera che voleva ri­cordare ai posteri. Ma rispondiamo che quello era un monu­mento veridico dell’età sua, poiché nessuno prestava fede all’in­tenzione di chi l’aveva innalzato, ma ad ognuno ricordava la miseria di un’epoca in cui la boria dei dominatori spagnuoli, che aveva ogni cosa corrotto, credeva poter corrompere perfino la storia dei vinti.]
A chiunque si accinga a discorrere dei monumenti di una città, si affacciano due vie opposte: la prima è d’esa­minare partitamente ciascuno di essi secondo la rispettiva posizione topografica: l’altra di parlarne seguendo in­vece la traccia delle storiche vicende. Il primo metodo offre monografie che possono essere di grande utilità, specialmente per i dotti; ma l’altro raccoglie ed affratella i monumenti in una sola origine e li fissa nella mente con una sequela di patrie memorie, ora liete ora tristi, ma pur sempre care all’animo fervente di cittadino amore. Questa seconda via mantiene continuata la narrazione, stabilisce più viva la corrispondenza fra chi legge e chi scrive, fa apparire più manifesto come un solo linguag­gio parlino arte e patria e sia uno solo il loro culto, fonte delle più generose inspirazioni e delle più nobili virtù.
Quanto benediremmo la nostra fatica se queste povere pagine giovassero in qualche modo a frenare la smania demolitrice che ci rapisce ogni giorno tanti ricordi dei maggiori: e facendo meglio conoscere ai nostri concitta­dini la natia città nel suo passato, ogni monumento, per quanto guasto dal tempo e dagli uomini, ogni sasso, per quanto annerito, suscitasse un pensiero nella mente, un sussulto nel cuore: parlasse alla mente, ammaestrandoci col ricordo delle trascorse età: al cuore perché sono le opere dei padri nostri e le dobbiamo venerare con un senso di riverenza, come fossero la croce che li ricorda, ma insieme di nobile orgoglio, perché sono la prova più bella della loro potenza ed operosità.
La storia non ci tramandò il nome degli artefici di mol­te di quelle opere grandiose: chi le imaginò? chi tradusse il pensiero in azione? lo si ignora; forse popolani oscuri al par di noi che però consumarono la vita a ren­der bella e forte la patria: che soffrirono fors’anco guerre di emuli, stenti e dolori per tramandare ai nipoti eredità di opere che non passano. Ma noi impareremo pur sem­pre da essi: e se non sortimmo dalla fortuna illustre nascita o splendidi censi, se altro non possediamo che le braccia e le divine gioie del lavoro, cessiamo dal guar­dare con invidia i prediletti della sorte: anche noi siamo ricchi e nobili, perché nostri sono questi monumenti: qui troviamo i nostri stemmi gentilizi, le glorie avite.
Studiamoli adunque per non sentirci ripetere quelle amare, ma giuste parole che l’illustre Tomaseo ci rivolgeva: «I forastieri vengono a saperne più di noi dei nostri monumenti: a essere loro più di noi, nello spirito, eredi di quella gloria: essi cittadini e noi stranieri in patria: essi padroni del pensiero italiano, e noi da me­no che schiavi, bruti che a piè di quei monumenti stanno stupidi ruminando.»

Un libro tira l’altro, come le buone ciliegie colte dall’albero. E qui, seguendo il filone aperto dalla nota [1] c’è da farne indigestione….

Si potrebbe iniziare degustando la funzione delle note al testo, un lavoro ottimamente svolto da Anthony Grafton e pubblicato in Italia col titolo “La nota a piè di pagina. Una storia curiosa” dalle Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2000. Nel risguardo di copertina si legge:

Nel capitolo iniziale de La nota a piè di pagina Anthony Grafton offre vari divertenti esempi dei molti modi in cui, nel suo specifico campo di studio: la storia, l’uso apparentemente neutro delle note a piè di pagina costituisca in realtà una raffinata risorsa per le ambizioni individuali, la rivalità o le divergenze di impostazione culturale. Alcuni storici le considerano l’occasione per esibire credenziali. Per altri, esse offrono l’opportunità di pugnalare i colleghi - anche soltanto grazie a un freddo, poco appariscente aggettivo (come in Francia) o per omissione (come in Italia) o utilizzando “cfr.”, che Grafton definisce “sottile ma micidiale.”

Tra i tanti, di certo un maestro nell’uso del “pugnale” è stato il politico e storico lecchese Mario Cermenati, le cui note a piè di pagina sono imperdibili: non poche volte vi si legge “ringrazio per il suo pregevole lavoro l’esimio Tal dei Tali”, frase subito seguita dal sistematico smantellamento del citato “pregevole lavoro”. Innalzare il valore del nemico per rendere più importante la propria (presunta) vittoria è un vecchio trucco, sempre d’attualità, soprattutto tra i politicanti di bassa lega…
Nel passato molti “eroi” di turno hanno lasciato tracce del proprio passaggio sulla Terra facendo scolpire nel marmo false vittorie. Oggi sappiamo che un faraone d’Egitto lasciò scolpito d’aver vinto una battaglia da lui persa… Per approndimenti rinvio a Ceram C.W., Il libro delle rupi. Alla scoperta del regno degli Ittiti, Einaudi, 1974, libro da me amato: dopo averlo letto presi armi e bagagli (le macchine fotografiche, libri e la famiglia) e a bordo di una R5 partii dalla natìa Martesana (terra che separa la Brianza dal milanese) per approdare, via Atene - Istanbul - Ankara, ai confini con l’Iran, in visita ai resti delle allora dimenticate città degli Hittiti e dell’affascinante tempio rupestre di Yazilikayà, sulle cui pareti sono scolpite le principali divinità hittite, con tanto di nome e di simboli, inclusi i 12 seguaci del Dio principale; 12 come i profeti maggiori, 12 come i profeti minori, 12 come gli apostoli, 12 come i mesi dell’anno, etc. etc.

In tempi più recenti la falsità ha raggiunto livelli mondiali grazie all’uso della stampa. In casa, giusto per limitare gli esempi, ho le Enneadi di Plotino ma anche i sermoni del Buddha in due volumi, eppure tutti sappiamo che né Plotino né il Buddha (e nemmeno il Cristo, Maometto, il tirthankara Jaina e tutti gli altri "fondatori" di religioni) hanno scritto una sola parola. Che fossero analfabeti? I “loro” testi non sono che invenzioni postume, diventate verità colata per convenienza economica e politica delle parti interessate. Stesso discorso si può fare coi quattro vangeli attribuiti a Marco, Luca, Matteo e Giovanni, di certo non scritti dai quattro “apostoli”. In materia rinvio a Verità e menzogne della Chiesa cattolica. Come è stata manipolata la Bibbia, un saggio di Pepe Rodriguez pubblicato in Italia da Editori Riuniti, a.d. 2000.
Che la truffa piaccia “a bruti che a piè di quei monumenti stanno stupidi ruminando” (parole di Niccolò Tomaseo, nota 2 al capitolo I del libro di Romussi) lo dimostra il successo planetario di un libro probabilmente non scritto ma firmato da Dan Brown, autore di altri volumi di scarso appeal divenuti bestsellers solo dopo il successo de Il codice da Vinci, lavoro da inserire nella lotta per il potere “religioso” negli Usa ai tempi dell’imbelle presidente George Walker Bush, un alcolizzato finito nelle mani di un ambizioso prete della Chiesa cristiana evangelica.
In questo periodo sono impegnato nella trascrizione in formato Word del fascicolo 103 - inserito nel volume 10 delle Famiglie celebri di Italia di Pompeo Litta - dal titolo Torriani di Valsassina, Dottor Giulio Ferrario Editore, Milano, 1850, in folio (47 cm), 12 tavole di testo, 3 tavole incise. La Tavola IV è interamente dedicata a GUIDO, quarto e ultimo signore di Milano, e ai suoi eredi. Di un suo figlio così scrive il conte Litta:

LAMORALE. È un personaggio verosimilmente ideale. Sono alcuni d’opinione che da esso derivi la famiglia di Torquato Tasso, la quale aveva preso cognome dal soggiorno che essa aveva negli antichi tempi nella contrada detta il Cornello in Valle Brembana. Giace il Cornello in confine della Valsassina, e colà vi è il monte del Tasso così detto dall’abbondanza dei tassi. Ruggero di questa famiglia nel 1493 introdusse le poste nella Germania, e da ciò i cavalli di posta portano in fronte la pelle del tasso, e la famiglia Tasso porta la cornetta da postiglione nello stemma. Ruggero per questo servizio, dall’imperatore Massimiliano ebbe in titolo feudale il generalato delle poste dell’impero. Da lui derivò una famiglia ricchissima e potente, che si propagò nella Spagna, nelle Fiandre, in Napoli ed altri luoghi, ove gli imperatori avevano il diritto di tenere uffizio indipendente di posta, come allora si usava. In Germania i Tasso presentarono un memoriale all’imperatore Ferdinando III, col quale vollero provare di discendere dai Della Torre, o Torriani già signori di Milano, e domandavano di essere repristinati nel loro primitivo cognome. L’imperatore nel 1650, 4 dicembre diè loro un diploma, con cui li riconobbe tali e li intitolò quali essi desideravano, e obbligò i magistrati e i tribunali a fare altrettanto. Dopo il diploma i Tasso in Germania si fecero chiamare Thurn et Taxis di Valsassina. A tutto ciò prestarono assenso i conti Della Torre o Torriani del Friuli, i quali uniti in congresso in Udine, esaminarono e accettarono le prove loro presentate dai conti Tassis di Germania. Questo è il fatto, ed io a suo tempo pubblicherò la loro famiglia Tasso, la quale è, quanto sembra, affatto indipendente della famiglia Torriani. Il ramo della famiglia Tasso, da cui derivano i principi Thurn e Taxis di Germania, è da non molti anni in Bergamo estinto. I rami della casa de’ Torriani o Della Torre, che stanno in Germania si chiamano conti di Thurn.

Ecco: grazie a ricche elargizioni di prebende, Lamorale - “un personaggio verosimilmente ideale” - è diventato il riconosciuto capostipite di almeno due rami dinastici: i bergamaschi Tasso e i tedeschi Thurn und Taxis, gli inventori delle poste moderne e dei taxi, che da loro prendono il nome. Essendo in Germania, vien facile la battuta: quel che per noi è “giusta mercede”, per i teutonici diventa “giusta mercedes”. Versione Taxis.
Visto che ho citato due pezzi da novanta, Pompeo Litta e Niccolò Tommaseo, così scrive di loro un terzo nobile letterato, lo scapigliato Carlo Alberto Pisani Dossi, nelle sue gustosissime Note azzurre (edite e riedite da Adelphi):

Il conte Pompeo Litta, dilettante pittore, che fa, come dice la S.ra Confalonieri, delle magnifiche cornici a’ suoi quadri, invita un giorno a pranzo Cesare Confalonieri - per dargli pane raffermo, cacio avanzato nelle trappole, manzo buono a far scarpe - vino senz’uva, e quattro zaccherelle (mandorle spaccherelle) e 6 noci. Sulla porta intanto della sala da pranzo leggevasi scritto a grandi caratteri. «E se talor la vita partì amara - Pensa a Bokara» (dove il Litta col Meazza e il Gavazzi rimase un anno prigioniero del kan, molto kan) - E Confalonieri battendo sulla spalla del conte Pompeo… Dovresti cambiar, sai, l’iscrizione - e metterci: e se amara talor partì la vita - Pensa al pranzo del Litta.

La frase: “dilettante pittore, che fa delle magnifiche cornici a’ suoi quadri” da sola completa il discorso sulle note a piè di pagina: frasi buttate lì per dire (in questo caso): le cornici sono la veste grafica, i quadri sono i contenuti delle pubblicazioni del Litta…
E del Tommaseo? che dice di lui il Dossi nelle sue Note azzurre?

Tommaseo, egregio puttaniere. Manzoni udendo tale una sera imbrodolare di lodi il dalmatino, saltò su a dire «l’è ora de finilla con sto Tommaseo, ch’el gha on pè in sagrestia e vun in casin». Tommaseo, già attempato, entrando nell’usato bordello, chiedeva alla fantesca «c’è la candela?» Poiché il serafico poetuccio, l’autore di tanti libri di pedagogia, per eccitarsi al sagrificio venereo avea bisogno di una candela di sego nell’ano. E Tommaseo chiamava poi le mammelle «le ali dell’uccello».

Dopo aver letto quest’ultimo aneddoto, a Venezia tanti turisti mi hanno visto ridacchiare ogni volta che passo da Piazza Santo Stefano, rallegrata dalla statua del Tommaseo seduto su di una “paccata” di libri e questi, visti da una particolare angolazione, hanno fatto sì che per i veneziani doc “il dalmatino” diventasse “el cagalibri”… perché quei libri sembrano uscire dal posto dove il celebre Niccolò gradiva sentir entrare la candela…

Troppo bella la letteratura: ci si diverte, frequentandola.

© testo e foto di Giancarlo Mauri


Mario Cermenati

Niccolò Tommaseo

Pompeo Litta


prima edizione (purgata), 1964

riedizione integrale, 2010