In questi
ultimi tempi è riaffiorata la mai sopita guerra tra Grecia e Turchia.
Stavolta non si usano le armi ma si riempiono piccole isole con centinaia di
migliaia di migranti in fuga dalle guerre create ad hoc dai
Paesi esportatori di democrazia bancaria. Questa drammatica realtà mi dà lo
spunto per raccontare delle mie esperienze vissute in terra turca, storie
ambientate negli anni in cui m’interessavo all’affascinante mondo degli
Hittiti, che mai furono una piccola tribù citata nella Bibbia come
storiella vuole, ma una grande e influente progenitrice della nostra civiltà.
Agosto 1982.
Sostituita la vecchia e distrutta R4 con una nuova, fiammante R5 (950 cc di
cilindrata) io, mia moglie e nostro figlio (sette anni, otto a novembre) osiamo
spostare i nostri confini puntando decisi verso sud, con sosta a Brindisi, il
porto d’imbarco per Igoumenitsa. In terra greca la nostra rotta punta verso
oriente: Salonicco, Stavros, Kavala (con le rovine di Filippi) e
Alexandroupoli, l’ultimo avamposto prima del confine turco - ma anche l’unica
città dove le banche usavano cambiare la valuta greca con quella turca. Sì,
perché trent’anni fa l’Euro non esisteva …e tra la Grecia e la Turchia non è
mai corso buon sangue.
Passare
certi confini, poi, non era cosa facile: meglio arrivare di buon mattino,
armarsi di santa pazienza e sperare di non trovare un militare represso.
Aggiungo: noi tre si viaggiava in beata solitudine, senza scorta né
raccomandazioni …e mia moglie ha i capelli biondi naturali, cosa che in certe parti
del mondo ha tuttora i suoi pro e i suoi contro.
Essendoci
passato quattro volte, quel confine lo ricordo bene: una vasta area
pianeggiante ricoperta da acque palustri da superare su di uno stretto ponte,
lungo un paio di chilometri, al cui termine vi era l’area di sosta ingombra di
camion. Qui si doveva lasciare l’automezzo, e dopo un primo controllo dei
documenti iniziare il giro delle sette chiese per farsi
mettere sul passaporto i timbri di prammatica, operazione complicata dal fatto
che noi si viaggiava su di un’automobile immatricolata in Italia. Marca e targa
venivano trascritti sul passaporto e questo significava che io e quella
macchina eravamo uniti in matrimonio indissolubile: insieme entravamo in Turchia,
insieme dovevamo uscire, anche nel caso che l’auto (e/o il proprietario) fosse
andata distrutta in un incidente: i carri attrezzi e i carri funebri servivano
allo scopo. Una precauzione voluta per evitare che una volta in Turchia
dichiarassi un furto dopo aver venduto l’auto, una transazione vietata dalla
legge.
Dopo
un’intera mattinata passata a sbrigare carte, ecco il momento del si
passi e allora via, verso Istanbul e il suo campeggio comunale. Istanbul:
un sogno avverato e una pausa di alcuni giorni per alleviare i disagi del lungo
viaggio. Sebbene le strade di questa metropoli fossero sature di biciclette,
furgoncini, carretti e …dromedari, senza difficoltà raggiungevo il centro con
la mia R5, posteggiando fuori delle moschee, dei musei - e la sera nei pressi
del vecchio ponte di Galata (quello di legno, ora distrutto) dove usavamo
cenare in uno dei fatiscenti ristoranti del suo piano inferiore, con un cameriere che m’invitava a seguirlo per scegliere i pesci da cucinare
direttamente dalle barche dei pescatori.
Lasciare
l’Europa e mettere le ruote in Asia minore era l’ultimo punto fisso del
viaggio: la prima volta abbiamo voluto provare il vecchio traghetto, le
successive abbiamo optato per il ponte sul Bosforo, quello inaugurato nel 1973.
Una volta in terra asiatica, ad Alikahya Fatih le strade si dividevano: a
destra per Bursa e la costa, sempre diritti per Ankara e l’entroterra. Noi
abbiamo puntato sulla capitale, anche perché interessati alla visita del suo
Museo delle Civiltà Anatoliche, il luogo dove sono custoditi molti reperti
hittiti. Ricordo ancora l’arrivo in salita, su strada sterrata, con sosta
davanti all’ingresso del museo. Nessun turista oltre a noi e tanta curiosità di
vecchi e bambini per i tre italiani che viaggiavano su di una piccola
automobile e non sulla classica Mercedes di quarta mano e coprivolante in finto
pelo di pecora, orgoglio dei turchi lavoranti in Germania tornati in patria per
le ferie estive.
Dopo Ankara,
ancora verso oriente tra campi multicolori, fitti boschi alpini, strade
tortuose, camion riccamente dipinti e radi villaggi dove fermarsi per un pasto,
per fare benzina (solo distributori BP, acronimo di British Petroleum …e anche
questo insegna) o per dormire. Una sera ho chiesto ad un ragazzo se nei
dintorni vi era un campeggio. Lui mi ha guardato strano, poi mi ha risposto:
perché? non ti bastano tutti i prati che ci sono qui? Finimmo ospiti in una
linda casa, con nostro figlio libero di andare a giocare coi suoi coetanei - e
come facessero a capirsi (e si capivano, eccome!) resta ancora un mistero.
Alla fine,
dopo le dovute soste per visitare sperduti siti archeologici, eccoci alla
meta: Boğazköy-Hattuša, l’antica capitale hittita sviluppatasi ai piedi
dell’acropoli di Büyükkale. Al villaggio arriviamo di pomeriggio e subito
la nostra automobile è circondata da una torma di ragazzini che reclamano la
presenza di nostro figlio nei loro giochi - e che noi all’ora di cena dovevamo
cercare di strada in strada. Era questo, l’arrivo in un villaggio, uno dei
momenti più attesi da noi, quando ci lasciavamo coinvolgere dall’ospitalità del
popolo contadino. Una famiglia volle farci visitare la loro cantina, dove, alla
luce di una torcia improvvisata con le pagine di un giornale, ammirammo gli
affreschi del soffitto, la volta di una chiesa cristiana.
Una mattina, mentre noi si vagava alla ricerca di antiche strutture, ci
vediamo avvicinare da un uomo della mia età, coi suoi neri baffoni e un asino
alla briglia. Lui parla il suo dialetto, noi il nostro e quindi non capiamo le
sue intenzioni. A questo punto lui agisce: prende Daniella per i fianchi e la
issa sulla groppa dell’asino. Poi prende Marco e lo fa sedere dietro a sua
madre. Adesso tutto è chiaro: sarà lui a guidarci tra valli e meandri,
portandoci nei luoghi da noi ricercati. Strada facendo il nostro uomo si ferma,
estrae di tasca un coltello e punta la lama verso di me. Ho capito: metto le
mani in tasca e tolgo un affilatissimo coltello regalatomi a Creta, un vero
rasoio. Lui lo ammira con occhi da competente. Entro pochi secondi lo scambio è
fatto: lui ha in tasca il coltello di Creta, io il coltello turco. Adesso
possiamo proseguire: gli uomini a piedi, donne e bambini sulla groppa
dell’asino, come buona educazione pretende.
Il nostro giro finisce a casa dell’improvvisata guida, dove sua moglie si
prodiga per rimpinzarci di cibo e di tè bollente. Non soddisfatta, estrae da
sotto il letto una cassa, ne estrae un abito tradizionale e lo offre a
Daniella. Con tatto lei rifiuta il dono: la nostra ospite ne ha bisogno, in
Italia finirebbe in un armadio. La donna comprende e rilancia: se non vuoi il
mio abito non potrai rifiutare un ingombrante e pesante vaso da cui spunta un
alberello. Qui intervengo io, aprendo il bagagliaio dell’auto per far capire
che mai quel dono potrebbe entrare in così poco spazio. Alla fine ce ne siamo andati
con una forma di pane fresco, ancora caldo, cotto nel forno di casa…
Nei primi anni Ottanta in queste lande anatoliche non ancora invase dalle
truppe cammellate dei viaggi organizzati tutto era a
disposizione di tutti, senza controllori né biglietterie e noi, essendo l’area
archeologica di Boğazköy-Hattuša immensa, per visitare i reperti e
per fare il giro interno delle mura ci siamo serviti del nostro automezzo, come
consigliatoci nel villaggio. Simpatici ragazzini si proponevano di farci da
guida, ma si capiva subito che era una scusa per entrare in un’automobile,
una novità per loro. I più timidi ci avvicinavano per offrirci improbabili
reperti antichi in cambio di pochi spiccioli; dopo una giocosa
trattativa nessuno è rimasto deluso.
L’area archeologica: dopo la visita al museo di Ankara, dove sono custoditi
gli originali, ben sapevamo che i leoni messi a guardia delle porte di Karatepe
e di Malatia erano delle riproduzioni, ma essendo davvero simili ai deportati queste falsità nulla toglievano al fascino di quei luoghi. Anzi:
erano più belli questi falsi in loco, illuminati dal sole, che non gli
originali, custoditi in un ambiente buio e male illuminato da fioche lampade a luce
verdastra. Trovai istruttiva la traversata delle mura entro gli stretti passaggi
ricavati alla loro base, postierle lunghe decine di metri e utilizzate in tempo
di guerra per le sortite degli assediati. Una tecnologia, questa, datata
XIV-XIII secoli aec: oggi sapremmo fare di meglio senza l’uso del calcestruzzo?
Distante alcuni chilometri dal villaggio, al santuario rupestre di
Yazilikaya abbiamo dedicato un’intera giornata. Posteggiata l’auto, per prima
cosa ho voluto fare il giro esterno del recinto, Il libro delle rupi di
Ceram alla mano, dove la foto di frontespizio mostra una roccia su cui è
scolpita una processione divina: dodici rilievi di Dio in marcia da sinistra verso destra. Dodici, come
dodici sono i Profeti maggiori, dodici i Profeti minori, dodici gli Apostoli,
dodici i mesi dell’anno e tanti altri dodici sacralizzati. Trovato il pertugio
da dove è stata scattata la foto del frontespizio, è tempo di dedicarsi
all’intera struttura. Scavalcati i resti dei muri ci si ritrova nel vasto
cortile interno, dove una parete di calcare a forma di U è tutta scolpita con
figure di divinità che rimandano, per simboli palesemente esibiti, alle
divinità hindu - laggiù arrivate dopo un passaggio tra i miti della Mesopotamia
e della religiosità iraniana. L’ingresso alla seconda camera, nascosta alla
vista, è stato il mio battesimo nel regresso in utero: una stretta
fessura nella roccia introduce in un primo, breve, corridoio. Poi si piega a
destra e si entra nel sancta sanctorum, chiuso sul fondo. Si è
nell’utero rigenerativo della Grande Madre e con la pazienza si ha modo di
comprendere quel che gli antichi scultori hanno realizzato. Pazienza, ho
scritto, perché si deve aspettare che i raggi del sole fecondino questa
galleria e solo allora, e per un breve lasso di tempo, si ha la visione
della nascita (o rinascita) dei simboli sacri
scolpiti nella roccia: la luce radente, creando piccole ombre, mette in rilievo
quel che a prima vista ci è stato negato di vedere, grigio su grigio. Sulla
parete est, quella che fronteggia la processione delle dodici divinità,
ecco pian piano apparire la grande figura del dio-spada (alta più di tre
metri), con alla sua destra l’immagine del re Tudhaliya IV in veste cerimoniale
e cartiglio reale, protetto dal dio Šarruma.
La perfetta visione di questi rilievi rupestri - datati 1250-1220
aec - dura poco: mezzora o giù di li. Poi il sole diventa frontale, le ombre
svaniscono e le immagini tornano ad essere invisibili anche se, adesso che
sappiamo dove si trovano, aguzzando la vista qualcosa s’intuisce…
Tre giorni dopo ci rimettiamo in viaggio, puntando verso alcune delle città
più antiche del mondo: Alacahöyük, con la sua monumentale Porta delle Sfingi datata XIV secolo aec, con
sosta ristoratrice, strada facendo, alle acque sorgive di Pamukkale: piscine
naturali deserte, strade non asfaltate, i primi alberghi in fase di
costruzione.
Tre anni
dopo - stavolta su di una Fiat Ritmo Sport acquistata di seconda mano e subito
sperimentata nel deserto del Sahara (agosto 1983; noi tre, le piste di terra
battuta, le oasi, la popolazione locale …e tanto caldo) - eccoci ad
Aphrodisias, allora sconosciuta area archeologica rivelatami il giorno prima
della partenza da un provvidenziale articolo del National Geographic,
il mensile allora riservato ai soli membri dell’omonima società. Pochi
lavoranti, serpi e ramarri in quantità, una miriade di blocchi di marmo
scolpito sepolti dalle erbacce. E poi di nuovo a Pamukkale, ospiti del generoso
Mehmet, produttore di vino e venditore di antichi tappeti. Seguì il giro dei
laghi centrali, la visita dei villaggi della Cappadocia e infine, sulla strada
del ritorno, dopo una sosta a Çatalhöyük - sito dove è stata rinvenuta la
statua della Dea seduta sul trono (o Dea partoriente), terracotta datata 7000-5500 aec,
oggi esposta ad Ankara - eccoci a Bursa, la città nota per le danze dei
Dervisci e per la qualità dei suoi coltelli: ancor oggi metto in tavola quelli
acquistati nel suo bazaar. Istanbul rimane l’ultima tappa prima di
Alexandroupoli, città greca che mai ha mancato di darci il bentornato nella
civile Europa offrendoci il meglio della sua corrotta polizia…
Da questi
viaggi sono tornato con migliaia di diapositive a colori, la cui selezione è
stata da me utilizzata per una conferenza dove illustravo, scatto dopo scatto,
l’apparire e il rapido svanire delle incisioni rupestri nel sancta
sanctorum di Yazilikaya. Le hanno viste solo gli intervenuti alla
serata organizzata dal Centro Culturale Guernica di Bresso (MI), l’unico Ente
che ha osato correre questo rischio. Il vento cambiava: culi e tette imperavano
sui teleschermi e la noiosa Cultura ne subiva i contraccolpi.
Oggi
queste slides riposano accanto a migliaia di altre scattate in
ogni angolo del mondo, oggi in gran parte estinto. Per questa ragione
questo post non è illustrato con le mie fotografie, ma una
dritta ve la regalo: potrete vedere quel che vi ho descritto consultando il già
citato Il libro delle rupi di Ceram (pseudonimo di Kurt
Wilhelm Marek), Einaudi editore e Ittiti di Kurt Bittel,
volume 17 della collana Grandi Civiltà, reperibile in edizione economica stampata
da RCS-Corriere della Sera: oltre alle immagini, vi troverete anche le mappe
dei luoghi sopra descritti e un po’ di storia sull’affascinante mondo degli
Hittiti.
Se poi
vorrete approfondire alcuni temi sul culto delle Dee Madri rivolgetevi a Il
linguaggio della Dea. Mito e cultura della Dea Madre nell’Europa neolitica,
l’illustratissimo volume scritto da Marija Gimbutas e pubblicato da Longanesi
nel 1989 (ma esistono successive ristampe, in edizione economica).
© Testo di Giancarlo Mauri
Viaggiare nei primi anni Ottanta:
due ingressi e due uscite da Grecia e Turchia
occupavano 4 pagine del passaporto
Una recente mappa dei luoghi
e due incisioni di
Charles Texier (1834)
e due incisioni di
Charles Texier (1834)
La processione divina di Yazilikaya
e la Dea partoriente di Catalhoyuk