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domenica 16 settembre 2018

Gigi Grana, operaio, alpinista, Accademico del CAI


Stamattina, del tutto casualmente, in una libreria ho scoperto Eravamo immortali, libro che mostra in copertina il volto del suo autore, Maurizio “Manolo” Zanella. Lo apro e subito mi trovo alla pagina che il destino ha voluto propinarmi, dove l’occhio sosta su due parole: Sass Maor. Fulmineo il collegamento: Sass Maor (si pronuncia Maòr), via Biasin-Scalet, Gigi Grana. Leggo le righe sottostanti ed è proprio di quella via che Manolo scrive, ricordando di averla ripetuta e menzionando che la sua era la seconda ripetizione, anni dopo che altri ne avevano fatto la prima “impiegando tre giorni” - il che non è del tutto vero.
Nel libro Manolo non rammenta i nomi di quei primi ripetitori (o secondi salitori che dir si voglia), ma io sì e voglio ricordarli adesso: Gigi Grana, Onorato Casiraghi e Alberto Maschio.



Una volta a casa ho cercato su internet e qui ho trovato Sass Maòr, la supermatita delle dolomiti, uno scritto (ben illustrato) di Francesco Lamo postato il 9 giugno 2011 in alpinesketches, da cui estraggo queste righe:

Nove anni più tardi, nell’agosto del 1964, venne realizzato uno dei massimi capolavori nella parete sud-est: Samuele Scalet e Giancarlo Biasin salirono in 3 giorni le grigie e ripide placche che partono verticalmente a metà della «Banca Orba» e poi continuarono per gli spaventosi gialli soprastanti. Nella parte strapiombante, un diedro giallo e nascosto, la successiva traversata a sinistra e la serie di successive verticali placche nere li condussero alla base della cupola strapiombante, che verrà risolta anche con l’aiuto di qualche chiodo a pressione. Purtroppo, per una banale scivolata sul sentiero del Cacciatore (e a salita compiuta), Biasin morì nella discesa e Scalet decise di dedicargli la strabiliante salita. La tragedia lasciò tracce così profonde in Samuele che decise addirittura di lasciare l’alpinismo.
Scalet dichiarò che in apertura furono usati oltre 200 chiodi, per paura che la salita venisse svalutata, anche se in realtà ne piantarono poco più di 30. In ogni caso la Biasin, come appunto viene comunemente indicata, fu considerata per decenni uno dei banchi di prova per i Dolomitisti di tutta Europa e rimane a tutt’oggi una bellissima salita, difficile ed estremamente esposta. La sua chiodatura, mai troppo eccessiva, mantiene elevato l’impegno: nessun ripetitore, nemmeno il più sfrontato, potrà mai affermare che la Biasin è una salita mediocre o dal limitato significato estetico!
Sarà Gigi Grana, Onorato Casiraghi e Alberto Maschio ad effettuare la prima ripetizione l’anno successivo, mentre il fuoriclasse Renato Casarotto firmerà la prima solitaria invernale nel 1980. Nel 1979 il feltrino Maurizio Zanolla (soprannominato Manolo) ripeterà la Biasin completamente in arrampicata libera, toccando il 7c nello strapiombante muro finale. Attualmente, per chi ripete la salita nello stile classico, le difficoltà toccano il VI+ (obbligatorio) e A0 con passi di A1, per un dislivello totale di 600 metri.



Seconda metà degli anni Sessanta. Avevo preso ad arrampicare - il più delle volte in solitaria per mancanza di un socio - e il Rifugio della SEM dedicato allo “zio” Eubole Cavalletti ai Piani Resinelli era il mio punto di riferimento. Qui, tra una bisboccia e l’altra, conobbi molti alpinisti famosi, altri che lo sarebbero diventati e altri che non ebbero modo di continuare. Erano gli anni dove erano più frequenti i funerali che le feste. Fra tanti, solo alcuni di loro mi regalarono una tangibile amicizia: Domenico Mazzini, Eriberto Pedrotti, Paolo Armando, Giorgio Brianzi e Gigi Grana.
Col Dumenigh feci non poche salite in Grigna, finché un giorno mi disse (in dialetto milanese, ovviamente): sei bravo abbastanza per farti una tua cordata - e mi trovai “licenziato”, in cerca di un secondo - che dopo varie avventure trovai in Giuseppe Verderio, con cui feci cordata fissa fino al tragico 2 marzo 1969, quando lui precipitò dalla vetta della Medale. Eravamo fuori dalle difficoltà, slegati e su di un sentiero, né più né meno di quel che era accaduto a Giancarlo Biasin sul Sass Maor.




Reagii alla morte del Beppe arrampicandomi sulla strapiombante lavagna (l’Onda la chiamano oggi) della parete nord-est del Corno Orientale di Canzo. In un gelido inizio di novembre, assicurato da Diego Pellacini, impiegai due giorni per domare quello strapiombo, a cui diedi il nome Via Giuseppe Verderio. Poi abbandonai le Grigne, i Corni di Canzo e presi a frequentare le Piccole Dolomiti vicentine, territorio che Gigi Grana mi aveva dischiuso. Il venerdì sera le ruote del Gilera 150 cc entravano in autostrada ad Agrate per uscire a Vicenza Ovest e da qui per la SS46 fino al Rifugio Nerone Balasso, allora gestito da Mariateresa e Cesco Zaltron.
Qui mi sentivo di casa perché ritrovavo un amico: conclusa l’esperienza lavorativa in una fonderia di Caronno Pertusella, Gigi Grana era tornato a Schio, la sua città natale. Talvolta lo andavo a cercare a casa sua, dove abitava col padre rimasto vedovo, talvolta ci incontravamo al Balasso. Un fatidico 8 giugno del 1969 - ma stavolta eravamo dalla Lorenza, ex Colonia alpina, a quei tempi un’osteria frequentata da chi andava in Pasubio - Gigi mi presentò una ragazza dai biondi capelli.
- Ha frequentato il corso roccia, mi disse Gigi, e adesso la porto ad arrampicare per farle fare qualche bella via. Quel giorno si andò insieme allo Spigolo del Primo Apostolo: Gigi capocordata, la ragazza bionda saliva da secondo. Io seguivo con un altro compagno. Una volta in vetta lei mi chiese: Dove abiti? Tagliai corto, buttando lì: Milano.
- Milano? Un posto dove non andrò mai, tranciò lei. Infatti …il 19 ottobre del 1970 un assessore ci dichiarava marito e moglie, con residenza a due passi da Milano (e questo aneddoto vuole rimarcare quanto l’aver conosciuto Gigi abbia influito sulla mia vita).
A sua volta Gigi si sposò con Bruna Sella, divenendo i genitori di Silvia.


8 giugno 1969 - Daniella Forestan,
Gigi Grana e Maria Cichellero


Spigolo del Primo Apostolo
29 giugno 1969



Un passo indietro: anno 1968. Gigi aveva promesso ad alcuni suoi amici che li avrebbe guidati sullo Spigolo del Velo, Pale di San Martino, e per l’occasione mi chiese di essere della partita. Nel pomeriggio del 29 giugno, la Seicento del Beppe e le auto degli amici di Gigi (Piero Colombo, il Bula e Giancarlo Balossi) trovano un posteggio in Val Canali. Sopra di noi incombe la Est del Sass Maor. Gigi mi indica la via Biasin-Scalet, da lui ripetuta tre anni prima. Cambiamo gli abiti da città con quelli da montagna, poi via verso il Rifugio Pradidali - e da qui si ha una bella vista sulla Est del Sass Maor. Segue la via ferrata del Monte di Ball e al calar della sera eccoci al bivacco del Velo. Tutte le cuccette sono occupate, noi dormiamo per terra, su un lato del corpo, ché per stare sul dorso non c’è lo spazio.





Strada facendo, Gigi mi racconta di quella salita, di cui poteva vantare una primogenitura morale, essendo stato il primo (in cordata con Samuele Scalet) ad intuirne le possibilità, respinto soltanto dalla volontà di non utilizzare i chiodi a pressione - strumenti poi utilizzati da Biasin e Scalet per vincere lo strapiombo terminale. Vittoria triste la loro: durante la discesa, Biasin inciampò in un pino mugo, perse l’equilibrio e cadde dalla parete.




Gigi mi parla dei fori minuscoli che non accettano i chiodi, problema poi risolto grazie all’uso di un rampino, quel ferro che ai tempi delle stufe economiche serviva per sollevare le piastre circolari messe tra il fuoco e la pentola (ma anche per rimestare la legna, ravvivando la fiamma). Roba da mettere i brividi …quindi invitante. Una volta a casa, mi sono rivolto ad un fabbro chiedendogli di fabbricarne un paio, con robusto anello per poterci mettere il moschettone. Era infatti mia intenzione di tentare la seconda ripetizione (o terza salita) della via dedicata a Giancarlo Biasin …un altro sogno svanito dopo la morte del Beppe.

* * *

Avendo sposato una scledense era naturale che l’andirivieni Lombardia-Veneto si incrementasse. A Schio viveva mia suocera, a cui ero legato da sincero affetto. Alla nascita di Marco (1974) il mio andar per monti aveva già cambiato registro: le vie in verticale-strapiombante avevano ceduto il passo all’esplorazione di nuovi orizzonti. Ora mi dedicavo alla ricerca di vecchi sentieri, ricostruendone la perduta storia, inanellando di tanto in tanto delle ascensioni in solitaria. Presi anche ad interessarmi all’emergente fenomeno delle vie attrezzate (o vie ferrate), di cui intendevo raccontarne la genesi sulla Rivista della montagna, mensile a cui saltuariamente collaboravo.


Dopo il grandioso exploit della prima ascensione solitaria dello spigolo del Sojo d’Uderle - una via firmata da Mario Boschetti e Cesco Zaltron - portato a buon fine in un piovoso giorno di settembre, per Gigi Grana la vita alpinistica si fece difficile. Un paio di incidenti stradali avevano intaccato le sue ossa, l’impossibilità di cimentarsi su altre vie di sesto grado ne intaccarono lo spirito. Quando ero a Schio lo andavo a trovare. Lui era contento di vedermi ma restava un velo… Un giorno gli dissi:
- Perché domani non vieni con me a fare la Mori al Monte Albano?
- Ma la Mori è una ferrata, mi rispose piccato.
- Si, la Mori è una ferrata, ribattei, ma tra lo stare a casa e rimettere le mani sulla roccia non è meglio la seconda? Aggiunsi: e poi da quelle parti nessuno sa che sei un accademico…
Intervenne Bruna: Ha ragione Giancarlo; dai vai con lui che così ti svaghi un po’.
Il giorno dopo passai da casa sua e con la mia R4 arancione valicammo il passo delle Fugazze (italianizzazione di fugassa, nome dialettale della merda vaccina, o boassa), scendemmo a Rovereto e da qui in piano fino a Mori. Cordino e due moschettoni non ci mancavano, ma noi si andava in libera, utilizzando al minimo indispensabile il ferro cementato alla parete, per lo più per le soste ad uso fotografico. Man mano che salivamo Gigi riprendeva a vivere: aveva di nuovo il vuoto sotto ai piedi e tanti ricordi affioravano:
- Giancarlo, non ti pare che questo passaggio ricordi quello della Fox-Stenico all’Ambiez?
- Questo mi ricorda un passaggio sulla nord della Grande (tra le altre, nel 1967 Gigi aveva ripetuto l’Hasse-Brandler, una bella bestia da domare a quei tempi, quando si arrampicava coi piedi infilati negli scarponi di cuoio).


Tra un ricordo e l’altro, in breve arrivammo in vetta - e Gigi riprese la strada verso i monti, portando altre persone sulla Mori e scoprendo altre vie similari: aveva compreso che essere accademici del CAI non impedisce di potersi divertire sul facile.



















Oggi Gigi lo vedo di rado, ma sempre con gioia e immutato affetto: la tomba che condivide coi suoi genitori è a pochi metri di distanza da quella di mia suocera e quando passo non manco mai di fermarmi per un saluto.


NOTA: qualche anno fa sua figlia Silvia mi consegnò tutto l’archivio alpinistico di Gigi. Ho passato quei documenti allo scanner e le ho reso gli originali. Non nego che mi ha sorpreso non poco ritrovare i due fogli da lui utilizzati per chiedere l’ammissione al CAAI.
Spiego: io avevo una Olivetti 22, Gigi i suoi manoscritti. Una sera venne a casa mia e insieme scegliemmo quali salite proporre e quali scartare. Poi, con Gigi seduto al mio fianco, presi a pestare sui tasti, utilizzando sia il colore rosso che il colore blu. In seguito Gigi consegnò quei due fogli a Nandino Nusdeo e ad Angelo Pizzocolo (il mitico Bufera), i due Accademici che avevano deciso la sua cooptazione. Ammesso al CAAI con 36 voti su 36, appena ricevuto il telegramma Gigi mi chiamò al telefono. Il pomeriggio del sabato successivo io e il Beppe eravamo alla Trattoria Stella, l’osteria con alloggio dove Gigi risiedeva a Caronno Pertusella - e da qui la Seicento del Beppe impiegò nove ore per salire alla SEM, tanti erano gli amici con cui condividere quel momento di gioia.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI


Eriberto Pedrotti, Gigi Grana
Giuseppe Verderio, Armando Da Dalt
(Pian Schiavaneis, 10.08.1967)




In Grigna




DALL'ARCHIVIO PERSONALE DI
GIGI GRANA



















 





Lettera di Angelo Pizzocolo
(Bufera)