Di Vallauris ho ricordi offuscati: la memoria proietta
l’immagine di un grande piazzale assolato, dove avevo tranquillamente
posteggiato l’automobile, e tutt’intorno magrebini abbigliati come si usa a
casa loro. L’altra immagine che mi appare è l’interno di un museo con vasi di
ceramica, che – lo confesso – è un genere d’arte che poco mi erotizza. Ma qui, nel
1947, Picasso aveva scoperto quest’arte antica e il suo prodigarsi (oltre 2000
pezzi creati in un solo anno) aveva ridato vita a un villaggio che il
dopoguerra aveva condannato a morte, con le sue industrie di tegami di bassa
qualità costrette a chiudere di fronte all’avanzata in cucina dell’acciaio e
dell’alluminio. Introducendo il concetto di ceramica artistica – tecnicamente
supportato dagli amici Ramié, titolari della Madoura Pottery - Picasso rilanciò
l’industria locale, subito riconvertitasi, ricreando i posti di lavoro perduti.
Una notizia, questa, da passare a colui che disse che “con la cultura non si
mangia” (ma forse voleva dire “io con la cultura non mangio” e noi non abbiamo
capito).
La Vallauris che ritrovo oggi è certamente diversa da
allora, ma non troppo. Un grande piazzale esiste ancora, ma attrezzato a
giardino pubblico e con tante statue variopinte. Il posteggio per l’auto è a
pagamento, interrato sotto lo spiazzo.
Riemerso in superficie, attraverso i giardini con le
statue di cui ho già detto, tutte opere di Roger Capron (1922-2006), in gran
parte rappresentazione monotematica dello stesso soggetto ridipinto con colori
diversi: una giovane donna con piccole ali e due grosse, cilindriche,
svolazzanti mammelle.
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* * *
Trovo
nella cartella
stampa fornita in occasione della presentazione della mostra Picasso, la joie de vivre, 1945-1948, questa nota di Jean-Louis Andral, conservatore capo del museo Picasso
di Antibes:
A Vallauris,
Picasso scopre la ceramica.
[…] Luglio 1946: mostra annuale dei vasai
di Vallauris. In questa occasione, Picasso incontra Georges e Suzanne Ramié,
proprietari della fabbrica Madoura. La coppia giovane e dinamica si dispera per
la decadenza di un arte, di cui tenta, non senza fatica, di preservare la
qualità. Picasso visita il laboratorio, fa mille domande e si diverte a far
nascere dalla terra alcune figurine fantastiche. Promette loro di tornare, non
torna… Fine della storia?
Estate 1947: un’automobile si ferma davanti alla fabbrica; i Ramié, stupefatti, ne vedono scendere Picasso. «Se mi date un operaio che si occupi dei problemi tecnici, tornerò e lavorerò seriamente», dichiara mostrando loro una decina di schizzi che ha realizzato durante l’inverno in vista di nuovi tentativi con la ceramica. I Ramié accettano con entusiasmo.
«Pochi pittori si erano interessati alla ceramica: salvo qualche rara eccezione, la consideravano nient’altro che un’attività complementare, spiega Pierre Cabanne nella sua monumentale biografia di Picasso pubblicata nel 1975. Per Picasso che, da qualche mese dipingeva poco e sembrava manifestare nei confronti del quadro una certa stanchezza, fu una rivelazione […] Ora più che mai aveva bisogno di uno stimolante e soprattutto di uno stimolante artigianale.»
Picasso si ricorda delle ceramiche che si fabbricavano a Malaga quando era bambino; fa appello a tutto quello che ha visto, a tutto quello sa delle antiche tradizioni del mondo greco e della Persia. La sua tecnica è libera, incessantemente innovativa e provoca spesso lo sbigottimento degli operai, come racconta Jean Ramié, figlio di Georges e di Suzanne, in occasione della mostra Picasso céramiste à Vallauris. Pièces uniques allestita nel 2004: «Picasso assimilò rapidamente le tecniche classiche utilizzate normalmente per la decorazione in ceramica: ingobbi o ossidi sotto coperta, ossido su smalto crudo, riflessi metallici su smalto cotto. Ne sviluppò rapidamente altri, molto meno ortodossi se non addirittura eretici, come l’ingobbo su smalto crudo o su biscuit, e ci riuscì contro ogni aspettativa, al prezzo di un’infinita pazienza e di una prodigiosa ingegnosità.»
[...] Dall’ottobre 1947 all’ottobre 1948, Picasso realizza più di duemila pezzi, recandosi alla Madoura quasi tutti i pomeriggi, «Mi domando se i collezionisti apprezzeranno mai le ceramiche di Picasso come apprezzano la sua opera in altri campi, spiega con dispiacere Françoise Gilot in Vivre avec Picasso. Dopo tutto, se si è dipinto su una brutta tela, si può sempre rintelare. In ceramica, invece, non si può separare la decorazione dalla forma su cui è applicata. A causa della fragilità del supporto, molti collezionisti si sono astenuti dall’acquistare, malgrado l’ammirazione per queste creazioni di Picasso.»
Estate 1947: un’automobile si ferma davanti alla fabbrica; i Ramié, stupefatti, ne vedono scendere Picasso. «Se mi date un operaio che si occupi dei problemi tecnici, tornerò e lavorerò seriamente», dichiara mostrando loro una decina di schizzi che ha realizzato durante l’inverno in vista di nuovi tentativi con la ceramica. I Ramié accettano con entusiasmo.
«Pochi pittori si erano interessati alla ceramica: salvo qualche rara eccezione, la consideravano nient’altro che un’attività complementare, spiega Pierre Cabanne nella sua monumentale biografia di Picasso pubblicata nel 1975. Per Picasso che, da qualche mese dipingeva poco e sembrava manifestare nei confronti del quadro una certa stanchezza, fu una rivelazione […] Ora più che mai aveva bisogno di uno stimolante e soprattutto di uno stimolante artigianale.»
Picasso si ricorda delle ceramiche che si fabbricavano a Malaga quando era bambino; fa appello a tutto quello che ha visto, a tutto quello sa delle antiche tradizioni del mondo greco e della Persia. La sua tecnica è libera, incessantemente innovativa e provoca spesso lo sbigottimento degli operai, come racconta Jean Ramié, figlio di Georges e di Suzanne, in occasione della mostra Picasso céramiste à Vallauris. Pièces uniques allestita nel 2004: «Picasso assimilò rapidamente le tecniche classiche utilizzate normalmente per la decorazione in ceramica: ingobbi o ossidi sotto coperta, ossido su smalto crudo, riflessi metallici su smalto cotto. Ne sviluppò rapidamente altri, molto meno ortodossi se non addirittura eretici, come l’ingobbo su smalto crudo o su biscuit, e ci riuscì contro ogni aspettativa, al prezzo di un’infinita pazienza e di una prodigiosa ingegnosità.»
[...] Dall’ottobre 1947 all’ottobre 1948, Picasso realizza più di duemila pezzi, recandosi alla Madoura quasi tutti i pomeriggi, «Mi domando se i collezionisti apprezzeranno mai le ceramiche di Picasso come apprezzano la sua opera in altri campi, spiega con dispiacere Françoise Gilot in Vivre avec Picasso. Dopo tutto, se si è dipinto su una brutta tela, si può sempre rintelare. In ceramica, invece, non si può separare la decorazione dalla forma su cui è applicata. A causa della fragilità del supporto, molti collezionisti si sono astenuti dall’acquistare, malgrado l’ammirazione per queste creazioni di Picasso.»
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Mi dirigo al castello che ospita il Musée nationale
Picasso e strada facendo mi colpisce il palese contrasto tra le nude statue di
Capron e gli abiti degli uomini e delle donne che incontro. Oggi come allora,
Vallauris ospita una numerosa comunità magrebina, gente che cammina per strada
coperta da abiti tradizionali. Di tanto in tanto il colore della pelle diventa
più scuro, altro ricordo del periodo coloniale francese.
I primi francesi caucasici li incontro al Musée
Picasso, nel cui piccolo cortile fervono i lavori. Una signora m’informa che i
locali sono chiusi alla visita perché (udite udite) “stiamo preparando
l’esposizione mondiale delle opere in ceramica”. Avesse detto “internazionale” anziché
“mondiale” già sarebbe bastato… Considero l’iperbole un retaggio della grandeur associata
ai bei tempi in cui Picasso e Françoise Gilot tenevano casa a Vallauris (dal 1948 al 1953, data
della loro separazione) e passo oltre.
Con calma, le faccio comunque presente che sul sito
internet è scritto che il museo è aperto e che io per visitarlo ho fatto tanta
strada, venendo appositamente dall’Italia. Touché. La signora
cambia tono e malgrado sia ora di chiusura mi concede una gratuita visita
a Le temple de la Paix, la cappella sulle cui pareti Picasso ha
dipinto La Guerre et la Paix, l'unico, vero motivo di questa mia
visita.
Scrive Antonina Vallentin in Storia di Picasso,
Einaudi 1961, capitolo XVI:
A Vallauris esiste una cappella sconsacrata che un tempo era stata dei
monaci di Lérins, per molto tempo ha servito da frantoio e tuttora è ingombra
di blocchi di sanse. Picasso è tentato da questo stretto spazio chiuso da muri
che si uniscono in una bassa volta. […] La cappella
sconsacrata lo attira, e non solo come campo d’esperienze. Matisse ha appena
finito la decorazione della cappella del convento delle Domenicane a Vence e
questo maestro della luce ha volontariamente rinunciato al colore. Lo spirito
d’emulazione che per tanto tempo ha spinto i due uomini nello slancio creativo,
non gioca che in un certo senso. Picasso è così vicino al suo tempo che pensa
di dare un seguito al suo Massacre
en Corée, di dipingere cioè
l’inferno della guerra e il paradiso della pace, questa vera religione dell’umanità,
più vicina all’angoscia degli uomini che non i santi estatici. […] Dalla fine d’aprile del 1952 Picasso si
raccoglie intorno alla sua grande opera. Rimane faccia a faccia con il suo
doppio tema della pace e della guerra fino alla metà di settembre. Sa tuttavia
come lo tratterà, come un romanziere sa già quale sarà la forma del suo
romanzo, e pensa già ai cambiamenti di stile, prima di essere arrivato a
costruirne interamente la trama. Picasso riempie taccuini di rapidi schizzi, di
appunti di idee, non di studi così elaborati come quelli che metteva giù quando
preparava Guernica.
[…] Nonostante questa voluta rapidità,
esegue non meno di centosettantacinque tra schizzi e appunti. Vuole un racconto
per così dire nudo, che indugi sui particolari per non appesantire o rallentare
l’esposizione. Cerca perciò di individuare un’idea-forza e di renderla, non
attraverso una lenta penetrazione di immagini, ma, contraddicendo in certo modo
alle leggi della figurazione plastica, attraverso suggestioni; vuole fissare una
sorta di stenogramma di ciò che inventa lì per lì per proprio uso. Il risultato
di tutto questo sarà un ritorno agli incubi dell’uomo primitivo e ai simboli
dei suoi terrori, e nello stesso tempo un tuffo nell’inquietudine del nostro
tempo espressa per segni inediti.
Varco la soglia e mi trovo di fronte ad un grande
asino seduto sopra una montagna di libri. La gentile signora – che già mi ha
informato che gli eredi Picasso non permettono di fotografare la cappella (“la
solita storia di chi ha cartoline e libercoli da vendere” dico io; “oui, il est
vrai” risponde lei), mi dice che l’asino sui libri, opera di una giovane
spagnola, è fotografabile. L’ambiente è tenuto all’oscuro, illuminato dalla
luce che entra da mezza porta aperta, ma per invogliarmi all’opera
fotografica madame si premura di chiudere questa mezza porta
creando un semi-buio uniforme: “così non c’è contrasto tra luce e ombra” mi
sussurra, aggiungendo: “sa, anche mio marito è un appassionato fotografo”.
Comprendo, e per non deluderla scatto una foto a casaccio, visto che il buio
(in verità, un po' di luce entra da una finestrella) m’impedisce di
controllare l’inquadratura nel mirino, ma ho fortuna (oddio: se usi un 24 mm e
punti al centro…). La signora vuole vedere l’immagine e sorride contenta.
Stasera avrà una notizia in più da portare all’amato.
Pagato il conto alla passione, è per lei giunto il
momento di riaprire la porta e far entrare quel poco di luce che mi basta per
oltrepassare la porta che immette al sancta sanctorum, sulla
cui parete di sinistra è fissato il lungo pannello di compensato (10,20 m per
4,70) su cui Picasso ha dipinto a olio La Paix, mentre il pannello
con La Guerre occupa la parete di destra. Tra i due, al
centro, vi è il vistoso pannello quadrato de Les Quatre parties du
monde.
Olio su compensato? Basta riaprire il libro
dell’ottima Vallentin ed ecco la risposta:
Nel barocco di Picasso, così caratteristico nella sua tonalità bruna,
rientra anche il Panorama di Vallauris. A quel tempo dipinge quasi esclusivamente su tavole
di compensato, che a Vallauris si trovano più facilmente che non le tele delle
dimensioni volute.
Integra
Daniele Giraudy ne Il Museo Picasso di
Antibes, Jaca Book 1990:
È un periodo in cui, d’altra parte, i colori in tubetto scarseggiano, come testimonia la corrispondenza tra Matisse e Camoin che ho
pubblicato: in essa i due artisti si rendono partecipi delle rispettive difficoltà e se si legge che
Matisse aveva rimediato delle lenzuola invitando Camoin a dividerle con
lui, quest’ultimo a sua volta racconta come
avesse dovuto riempire di colore due
vecchi tubetti di metallo vuoti, essendosi il metallo fatto raro.
Picasso, da parte sua, si dimostra, come sempre, ricco di inventiva.
Tra le difficoltà della guerra, la vita nel Museo è frugale. Un giorno, durante le passeggiate che soleva compiere con Françoise Gilot, la sua
compagna, sulla spiaggia, Picasso trova dei barattoli di conserva, traccia del passaggio di una nave americana, che
utilizzerà per preparare i colori. Quei colori che, direttamente collegati
alla vicinanza del Mediterraneo, trasformeranno
le tonalità scure e pallide delle opere eseguite a Parigi, nella luminosità dell’azzurro marino e del beige della
sabbia. Sono tinte queste mai mischiate tra di loro, che si ritrovano in
molte delle opere di Antibes. Esse sono, tra l’altro, caratterizzate dalla quasi totale assenza del rosso e dalla
scomparsa dei contrasti violenti. E
poi interessante notare come la gamma dei colori impiegati dall’artista per i
ventiquattro quadri e le quattordici opere su carta consti unicamente di tredici colori. Spesso Picasso utilizza
la pittura per barche «Laques Ripolin», che, stesa con un pennello da imbianchino, presenta il vantaggio di
essere molto resistente al tempo e ben si sposa con i materiali che egli adopera. Ecco infatti che Picasso
all’inizio tenta di dipingere sulle pareti del castello, come testimoniato da Le chiavi di
Antibes, ma l’umidità lo obbligherà a ricorrere a materiali differenti - nel
caso de La Capra
e dei Pescatori, legno compensato -, per poi scoprire il
fibrocemento per opere quali il trittico Satiro, fauno e centauro, La gioia di vivere, i nudi e
le nature morte. Tuttavia le risorse
di Picasso non si fermano qui e, negli ultimi tempi del suo soggiorno nel castello, in mancanza di tele,
dipingerà su vecchi quadri trovati nel magazzino del Museo; così, come
hanno rivelato le radiografie, l’immagine di
una giovane dipinta da Caroline
Comanville, nipote di Flaubert, cederà il posto alla Natura morta con persiane nere,
murena, seppia e tre ricci di mare.
Come dire: si fa di necessità virtù.
E ancora la Vallentin, opera citata:
Negli ultimi dieci anni la giovane donna che vive al suo fianco è molto
cambiata. Picasso non se ne rende pienamente conto che lui è rimasto lo stesso,
assorto nei problemi della sua opera, stretto nella tirannia delle sue
abitudini. «Il
tempo non è passato per noi due allo stesso modo», dirà più tardi Françoise
Gilot. Gli anni dai venti ai trenta sono tutto nella vita di una donna,
soprattutto se possono fiorire nella serra calda della passione. E questa
passione doveva necessariamente logorarsi negli urti della vita quotidiana. Era
cominciata in modo troppo splendido per poter trasformarsi in una placida
felicità. Un giorno Françoise lascia Vallauris portando con sé i due bambini.
Ancora una volta la solitudine si abbatte bruscamente sull’uomo che non ha mai
saputo vivere solo e che sente terribilmente la mancanza di queste presenze.
© per il testo e le foto di Giancarlo Mauri
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