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mercoledì 2 febbraio 2022

2 febbraio 1945


2 febbraio, ore 7 e 10 minuti. Nel 1945, a quest’ora della giornata, sull’area del campo d’aviazione di Arcore, 5 giovani partigiani venivano fucilati alla schiena. Volutamente alla stessa ora del mattino di oggi, 2 febbraio 2022, mi sono seduto davanti alla tastiera e al monitor per stendere queste brevi note di ricordo.

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«Il primo ad essere arrestato dai fascisti della squadra politica di Monza fu Emilio Cereda (…) solo dopo la tragica morte di Iginio Rota ad Arcore venni a sapere che mio fratello era un partigiano» è la testimonianza di Luisa Cereda raccolta dai redattori di Vimercate nella storia contemporanea 1918-1945, un prezioso volume edito nel 1985 a cura dell’Amministrazione Comunale e del Comitato Unitario Antifascista.

«la sera del primo gennaio Aldo era a casa perché si doveva trovare coi compagni per partire in montagna; (…) Alle ore 1,15 irruppero dentro casa i fascisti della squadra politica di Monza, presero mio fratello, gli misero in testa un basco e uno esclamò: Sì, è proprio lui! Signorina, non si preoccupi, lo arrestiamo per accertamenti, sarà rilasciato domani in giornata!». (Ida Motta)

All’insaputa dei componenti il primo distaccamento, quella notte Pierino Colombo e Luigi Ronchi rientrarono da Milano. «(…) circa all’una di notte un gruppo di fascisti, una quindicina, irruppero in casa, cominciarono a perquisire i locali e arrestarono mio fratello» (Lucia Colombo)

«(…) nel silenzio della notte sentimmo battere violentemente alla porta: un gruppo di fascisti irruppe, perquisì la casa nella ricerca frenetica di documenti o armi che comprovassero la sua “colpevolezza” ed arrestarono Luigi. Fu tradotto con gli altri nella caserma della G.N.R.» (Rosa Ronchi)

«(…) intorno alle due sentimmo dei passi salire le scale, poco dopo udimmo battere violentemente all’uscio che venne spalancato: irruppero i fascisti. Pochi attimi prima, resosi conto di quanto stava succedendo, Renato riuscì a nascondersi tra i vetri e le imposte della finestra pronto a saltare di sotto nel cortile. Tale intento gli fu precluso dalla presenza di fascisti che avevano circondato l’abitazione. L’accurata ispezione portò inevitabilmente alla scoperta del nascondiglio e al conseguente arresto di nostro fratello». (sorelle Pellegatta)

«(…) la cella in eravamo reclusi era fredda, aleggiava un tanfo di escrementi che proveniva dal bugliolo sito al centro di essa. Non ci vennero fornite le gavette necessarie a contenere quella specie di brodaglia che costituiva l’unica fonte di sostentamento; poiché la fame era tanta, il secondo giorno decidemmo di utilizzare un putrido catino di alluminio pulito alla meno peggio coi nostri fazzoletti, in quanto non vi era la possibilità da lavarlo. La mattina del terzo giorno di reclusione giunse l’ordine di scarcerazione: contenti passammo a ritirare i documenti e già pensavamo all’orario del tram per il ritorno a casa.
La nostra gioia fu di breve durata: alcuni reubblichini ci caricarono su di un camion per trasferirci, ammanettati, al carcere di Monza. Ricominciarono le operazioni di prassi: immatricolazione, ritiro dei documenti, assegnazione della cella. Fui rinchiuso col padre di Carlo Levati, Francesco, e con Alfredo Parma.» (Felice Carzaniga)

«(…) il 26 gennaio, ottenuto il permesso dal Vice Federale Vaghi, mi recai, con le sorelle degli altri partigiani reclusi, al carcere di Monza. Qui ci dissero che i prigionieri erano stati portati alla Villa Reale per essere interrogati.» (Luisa Cereda)

«(…) il 28 gennaio, una domenica, ci recammo ancora a Monza per portare il cambio dei vestiti; percorremmo la strada a piedi poiché la neve era talmente alta da non consentire al tram il normale esercizio. Giunti alle carceri ci dissero che i nostri cari erano stati trasferiti a Milano per il processo.» (Carla Motta)

«(…) giungemmo a Milano il 28 gennaio, ci fecero un’istruttoria formale in cui ci lessero i capi d’imputazione e ciascuno di noi negò la propria colpevolezza. (…) Il mattino dopo ci fu il processo militare al Palazzo di Giustizia. Il dibattimento si svolse a porte chiuse e durò circa un’ora. La Corte e la Giuria era composta da militari. (…) Dopo circa una mezz’ora ci fu la lettura della sentenza.» (Carlo Verderio - Felice Carzaniga)

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Le pagine che seguono finiscono con una poesia scritta da una persona a me molto cara: Alessandro Peducci, il mio zio Sandro.













domenica 30 gennaio 2022

Ribelli per Amore della Libertà


Leggo a pagina 18 di Ribelli per Amore della Libertà, libro di ricordi scritto dal vimercatese Carlo Levati, già condannato a morte in contumacia dal Tribunale militare straordinario di guerra per l’attacco partigiano al campo di aviazione di Arcore del 29 dicembre 1944:

… a questo proposito voglio ricordare che all’appello del filosofo fascista Giovanni Gentile, rivolto a tutti gli italiani perché recuperassero lo spirito nazionale per rifare la patria disfatta, Concetto Marchesi rispondeva dalle pagine di “La Rinascita” (mensile del Pci, luglio 1944) scrivendo che nel generale disfacimento “restano, per fortuna d’Italia, i ‘ribelli’, Eccellenza Gentile: quelli che voi chiamate i ‘sobillatori’, ‘i traditori, venduti o in buona fede’ ”.

Sì, “per fortuna” (e non solo dell’Italia) vi sono sempre degli esseri umani che non accettano di vivere da servi, usi a obbedir tacendo in nome e per conto di ogni nefandezza spacciata per ‘moralità’, ‘convenzione’, ‘dovere’. Questi ribelli si chiamano partigiani perché di parte, uomini e donne che hanno scelto di decidere da che parte stare, di come condurre la propria vita restando al di fuori del gregge tanto amato dai gestori di ogni forma di potere. Una vita dura la loro, sempre nuotando controcorrente, ma l’unica che vale la pena d’essere vissuta perché propria, mai altrui.
 
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Sono nato il 17 novembre 1946 a Vimercate, non in un ospedale ma in casa, nella stanza e nel letto dove con ogni probabilità ero stato concepito. Una stanza al piano terra, con una grande finestra protetta da una inferriata, dove vi erano due letti: quello grande dei miei genitori e, in fondo, vicino al muro, il mio. Mia sorella, nata nel 1940, dormiva nel locale d’ingresso alla casa, su di un divano letto. Una piccola cucina buia perché senza finestre completava la geografia.
Il cesso - al tempo nessuno lo chiamava ‘bagno’ - era fuori, in cortile. Un cubicolo di poco più di un metro per lato, col buco in presa diretta con la pozza per la raccolta di feci e urina. D’estate emanava un fetore insopportabile, arricchito da nugoli di mosche e mosconi. Un cubicolo che condividevamo con altre due famiglie, di cui una portava lo stesso nostro cognome, Mauri, ma tra di noi non vi era parentela.
Enrico Mauri, il loro capofamiglia, di professione era ombrellaio. Nei giorni caldi, usava portare all’esterno il suo tavolo di lavoro, mentre sua moglie, la signora Angelina, correva per le strade in cerca di ombrelli da riparare e/o consegnare i riparati. Raccontate oggi queste sono storie hanno dell’incredibile, più da medioevo che da anni del boom post-bellico.
L’indirizzo. Già, l’indirizzo di casa era via Aldo Motta 57, zona intermedia tra Vimercate e la sua frazione di San Maurizio, dove abitavano i miei nonni e i miei zii Mauri. Una provenienza che pesava nei rapporti coi parenti materni che abitavano ‘al ponte’: tanto erano vicini al clero cattolico i Canavìt del pünt quanto se ne erano liberati i Cavalèn de san Maurisi. Mio nonno Villa lo vedevo sfilare in processione in abiti simil sacerdotali, reggendo stendardi con immagini ‘sacre’. Mio nonno Mauri la domenica usciva di casa per distribuire l’Unità mentre lo zio Dante distribuiva l’Avanti!
Da loro si stava bene. C’era pace, serenità, mai un litigio, tanta allegria e nessun genere di pressione (im)morale. La zia Stella era sempre sorridente e premurosa e una fetta di pane e burro non me la negava mai. Il nonno mi lasciava andare in stalla, prendere l’asino (Saragàt il suo nome …e zoccoli dipinti di rosso), portarlo fuori, ‘vestirlo’ e attaccarlo al carretto. Poi insieme si andava in campagna (a fö). Una vita libera la mia, con momenti di gioia quali l’arrampicarmi sull’albero carico di ciliegie, o sul tetto del pollaio per abbuffarmi di uva americanina (e poi il rapido calar di braghe nel campo per gli inevitabili effetti collaterali), oppure entrare nell’orto per staccare i pomodori o strappare le carote che consumavo sul posto dopo una superficiale pulizia. E poi le uova fresche, appena deposte (e per stimolare la gallina mi era stato insegnato il trucco: infilare un dito nella cloaca fino a toccare l’uovo in gestazione). Momenti di vita sconosciuti ai bambini di oggi, chiusi nelle loro conigliere ipersterilizzate, masturbando in continuazione i tasti di un dispositivo elettronico.
 
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Non ho citato luoghi e nomi così tanto per raccontare. No. Via Aldo Motta ricorda uno dei cinque partigiani vimercatesi fucilati il 2 febbraio 1945 sul campo d’aviazione di Arcore. Alle 7 e 10 di quella mattina accanto alla sua vi erano altre quattro sedie, prese dalla vicina chiesa, e su queste, dando le spalle al plotone d’esecuzione (l’ultimo affronto a loro inflitto) sedevano altri quattro giovani: Renato Pellegatta (21 anni), Luigi Ronchi (24), Pierino Colombo (24), Emilio Cereda (24). Aldo Motta di anni ne aveva 23. Tutti e cinque - nonché gli altri giovani come loro morti durante la resistenza partigiana: Iginio Rota, Carlo Galbussera, Emilio Antonio Colombo, Francesco Rurali e Orazio Parma, appartenevano alla 103a Brigata Garibaldi. Comunisti! urlerebbe la ben nota ed amata dentiera ridens che mai ha raccontato come ha fatto a diventare così tanto ricco in così poco tempo, pur operando in un mondo che aveva strozzato tutti gli utopisti che prima di lui avevano osato parlare di tv privata.
Comunisti! si mormorava (facendosi il segno della croce) anche nella bigotta Vimercate degli anni Cinquanta e Sessanta, laddove le mamme e le zie (dis)educavano la prole a recitare ‘sia lodato Gesù Cristo’ ogni volta che per strada s’incontrava un sacerdote di nero vestito oppure una monaca. Tutto questo non deve stupire: basta consultare i libri di storia locale e si scoprirà come il capoluogo del contado della Martesana - come Vimercate lo era stato - pullulava di monasteri maschili e femminili. A Vimercate ve n’era un’inflazione. Così tanti che a me ricorda la Firenze ai tempi di Cosimo II, dove il numero delle monache superava di gran lunga il numero delle donne non rinchiuse in un monastero. Tutte figure che dovevano essere nutrite a spese del popolo tenuto povero e ignorante, quello che lavorava le terre di proprietà dei nobili e del clero.
Lo faceva anche mio nonno Villa. Poi un giorno la madre superiora delle Canossiane lo chiamò a rapporto. Quando uscì dall’ufficio mio nonno non aveva più un lavoro. Licenziato - e su questo fatto cadde un silenzio, mai rotto. Un mistero doloroso, per il nonno soprattutto. Anime pietose gli trovarono un ripiego come spazzino comunale. Ogni tanto mi faceva entrare nella verde carriola e insieme giravamo per le strade in cerca di carte da spazzare. Lui di questa umiliazione ne soffriva, al pari o forse più di una precedente, così come mi è stata raccontata da mia madre: in via Cavour, di fronte all’osteria della zia Orsolina (una sorella della nonna), un fascista, certo manina perché aveva una mano di legno, schiaffeggiò pubblicamente il nonno Villa. Altro fatto su cui in famiglia era caduto il silenzio, una damnato memoriae. Ricordo il nostro ultimo incontro. Ero stato rinchiuso in un collegio, ad Affori. Una domenica lui venne a trovarmi in compagnia di mia madre. Mi guardava e non parlava. Rimase muto tutto il tempo. Morì poco dopo.
 
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Il fratello di Aldo Motta gestiva un piccolo negozio di giocattoli a due passi da palazzo Trotti, la sede municipale. Ovviamente anche lui era iscritto al Partito comunista, quindi in odore d’inferno, come Fatima insegna. Se la memoria non m’inganna, il suo nome e quello della sposa sono iscritti sul registro dei matrimoni civili di Vimercate sotto il numero 1. Avevano un figlio, Aldo, della mia età, con cui per un certo periodo ci siamo frequentati. Era un ragazzo non vivace, ma lo eravamo tutti noi nati a ridosso della guerra, figli di padri combattenti, circondati da parenti combattenti - i Mauri nel mio caso (tra Africa e Albania lo zio Dante si era fatto 11 anni di guerra). Poi, crescendo, ognuno ha seguito la sua via e ci si è dispersi.

Lunedì 19 ottobre 1970 ho sposato una ragazza veneta, che abitava a Schio, conosciuta in parete su una via di IV e V grado. Il nostro matrimonio è stato celebrato da un assessore all’interno di palazzo Trotti. Rito civile. Sul registro siamo il numero 2. Scandalo! Comunisti! Il parentado materno si ritenne offeso e umiliato. Sotto l’influsso dei parenti più stretti persino i miei genitori disertarono la cerimonia: in chiesa sì, in comune no! Avete disonorato la famiglia è una frase che le mie orecchie hanno registrato. Insieme agli sposi, in municipio vi erano quattro amici e la famiglia della sposa. Otto in tutto, sposi inclusi. In compenso, nel cortile interno del municipio si erano radunati gruppetti di beghini arrivati per vedere i due ‘ribelli’.
 
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Ritorno in via Aldo Motta 57. El sciur Enrico umbrelée e la sciura Angelina umbrelera avevano quattro figli: Luisa, Mariuccia, Angelo e Mario, miei ‘fratelli’ maggiori. Soprattutto Mario, più vecchio di me di 18 anni. Estroverso, di bell’aspetto - era anche andato a Roma per cercare di trovare un posto nel mondo del cinema in veste di attore -, proprietario di una barca ancorata nell’Adda ad Imbersago, ma soprattutto di una piccola biblioteca, cosa rarissima in quei tempi, con titoli quali la pluri voluminosa Storia Romana di Theodor Mommsen e La storia del Risorgimento italiano (1815-1918) di Ettore Fabietti stampata nel 1941 da La Universale Barion. Lo so con certezza perché me ne fece dono e io questo libro lo conservo ancora.
Nei miei ricordi di fanciullo, il signor Enrico era una persona buona. Lavorava al suo desco, parlava poco, non rideva mai. Poi …la settimana scorsa una gentilissima signora mi ha fatto omaggio di tre libri preziosi e tra questi vi è Vimercate nella storia contemporanea 1918-1945, che mi dicono raro da trovare. Leggo, e a pagina 40 trovo:
 
Nelle fabbriche e nei punti di aggregazione, si cercava di informare le giovani leve sulla necessità di mantenere viva l’idea di democrazia, proponendo le logiche dei partiti democratici in contrapposizione alla spersonalizzazione dell’individuo operata dalla dittatura. Durante una di queste riunioni vennero arrestati diversi giovani di ispirazione comunista e processati dal tribunale speciale.
 
SENTENZA n. 73 del 10.12.1931
Pres. Ciacci - Rel. Presti
 
Capo d’imputazione: Costituzione del Partito Comunista d’Italia, appartenenza allo stesso, propaganda.
 
VERDERIO ENRICO     Vimercate     sellaio            5 anni
MAURI ENRICO            Vimercate     ombrellaio      assolto
COLOMBO FLAVIO       Bresso         fattorino          4 anni
 
Rileggo: Mauri Enrico, ombrellaio ...ed è così che sono venuto a sapere che il sciur Enrico nel 1931 era stato arrestato perché vicino al Partito comunista italiano. Mai saputo prima.
Oggi, per pura coincidenza - vedi gli scherzi del destino! - nel cimitero di Vimercate i miei genitori occupano una posizione dirimpettaia ai dö umbrelèe. E così il vecchio cortile di via Aldo Motta 57 si è ricomposto e io ne sono contento.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI