Leggo a pagina 18 di Ribelli
per Amore della Libertà, libro di ricordi scritto dal vimercatese Carlo
Levati, già condannato a morte in contumacia dal Tribunale militare
straordinario di guerra per l’attacco partigiano al campo di aviazione di
Arcore del 29 dicembre 1944:
… a questo proposito voglio ricordare che all’appello del filosofo
fascista Giovanni Gentile, rivolto a tutti gli italiani perché recuperassero lo
spirito nazionale per rifare la patria disfatta, Concetto Marchesi
rispondeva dalle pagine di “La Rinascita” (mensile del Pci, luglio 1944)
scrivendo che nel generale disfacimento “restano,
per fortuna d’Italia, i ‘ribelli’, Eccellenza Gentile: quelli che voi chiamate
i ‘sobillatori’, ‘i traditori, venduti o in buona fede’ ”.
Sì, “per fortuna”
(e non solo dell’Italia) vi sono sempre degli esseri umani che non accettano di
vivere da servi, usi a obbedir tacendo in nome e per conto di ogni nefandezza
spacciata per ‘moralità’, ‘convenzione’, ‘dovere’. Questi ribelli si chiamano partigiani
perché di parte, uomini e donne che
hanno scelto di decidere da che parte stare, di come condurre la propria vita
restando al di fuori del gregge tanto amato dai gestori di ogni forma di
potere. Una vita dura la loro, sempre nuotando controcorrente, ma l’unica che
vale la pena d’essere vissuta perché propria,
mai altrui.
* * *
Sono nato il 17 novembre 1946 a Vimercate, non in un
ospedale ma in casa, nella stanza e nel letto dove con ogni probabilità ero
stato concepito. Una stanza al piano terra, con una grande finestra protetta da
una inferriata, dove vi erano due letti: quello grande dei miei genitori e, in
fondo, vicino al muro, il mio. Mia sorella, nata nel 1940, dormiva nel locale
d’ingresso alla casa, su di un divano letto. Una piccola cucina buia perché senza
finestre completava la geografia.
Il cesso - al tempo nessuno lo chiamava ‘bagno’ - era fuori,
in cortile. Un cubicolo di poco più di un metro per lato, col buco in presa
diretta con la pozza per la raccolta di feci e urina. D’estate emanava un
fetore insopportabile, arricchito da nugoli di mosche e mosconi. Un cubicolo
che condividevamo con altre due famiglie, di cui una portava lo stesso nostro
cognome, Mauri, ma tra di noi non vi era parentela.
Enrico Mauri, il loro capofamiglia, di professione era ombrellaio.
Nei giorni caldi, usava portare all’esterno il suo tavolo di lavoro, mentre sua
moglie, la signora Angelina, correva per le strade in cerca di ombrelli da
riparare e/o consegnare i riparati. Raccontate oggi queste sono storie hanno
dell’incredibile, più da medioevo che da anni del boom post-bellico.
L’indirizzo. Già, l’indirizzo di casa era via Aldo Motta 57,
zona intermedia tra Vimercate e la sua frazione di San Maurizio, dove abitavano
i miei nonni e i miei zii Mauri. Una provenienza che pesava nei rapporti coi parenti
materni che abitavano ‘al ponte’: tanto erano vicini al clero cattolico i Canavìt del pünt quanto se ne
erano liberati i Cavalèn de san Maurisi.
Mio nonno Villa lo vedevo sfilare in processione in abiti simil sacerdotali,
reggendo stendardi con immagini ‘sacre’. Mio nonno Mauri la domenica usciva di
casa per distribuire l’Unità mentre lo
zio Dante distribuiva l’Avanti!
Da
loro si stava bene. C’era pace, serenità, mai un litigio, tanta allegria e nessun
genere di pressione (im)morale. La zia Stella era sempre sorridente e premurosa
e una fetta di pane e burro non me la negava mai. Il nonno mi lasciava andare
in stalla, prendere l’asino (Saragàt
il suo nome …e zoccoli dipinti di rosso), portarlo fuori, ‘vestirlo’ e
attaccarlo al carretto. Poi insieme si andava in campagna (a fö). Una vita libera
la mia, con momenti di gioia quali l’arrampicarmi sull’albero carico di
ciliegie, o sul tetto del pollaio per abbuffarmi di uva americanina (e poi il rapido calar di braghe nel campo per gli
inevitabili effetti collaterali), oppure entrare nell’orto per staccare i
pomodori o strappare le carote che consumavo sul posto dopo una superficiale
pulizia. E poi le uova fresche, appena deposte (e per stimolare la gallina mi
era stato insegnato il trucco: infilare un dito nella cloaca fino a toccare l’uovo
in gestazione). Momenti di vita sconosciuti ai bambini di oggi, chiusi
nelle loro conigliere ipersterilizzate, masturbando in continuazione i tasti di
un dispositivo elettronico.
* * *
Non ho citato luoghi e nomi così tanto per raccontare. No.
Via Aldo Motta ricorda uno dei cinque partigiani vimercatesi
fucilati il 2 febbraio 1945 sul campo d’aviazione di Arcore. Alle 7 e 10 di
quella mattina accanto alla sua vi erano altre quattro sedie, prese dalla
vicina chiesa, e su queste, dando le spalle al plotone d’esecuzione (l’ultimo
affronto a loro inflitto) sedevano altri quattro giovani: Renato Pellegatta (21 anni), Luigi
Ronchi (24), Pierino Colombo (24), Emilio Cereda (24). Aldo Motta di anni ne
aveva 23. Tutti e cinque - nonché gli altri giovani come loro morti durante la
resistenza partigiana: Iginio Rota, Carlo Galbussera, Emilio Antonio Colombo,
Francesco Rurali e Orazio Parma, appartenevano alla 103a Brigata
Garibaldi. Comunisti! urlerebbe la ben nota ed amata dentiera
ridens che mai ha raccontato come ha fatto a diventare così tanto ricco in
così poco tempo, pur operando in un mondo che aveva strozzato tutti gli utopisti
che prima di lui avevano osato parlare di tv privata.
Comunisti! si
mormorava (facendosi il segno della croce) anche nella bigotta Vimercate degli
anni Cinquanta e Sessanta, laddove le mamme e le zie (dis)educavano la prole a
recitare ‘sia lodato Gesù Cristo’ ogni volta che per strada s’incontrava un
sacerdote di nero vestito oppure una monaca. Tutto questo non deve stupire:
basta consultare i libri di storia locale e si scoprirà come il capoluogo del
contado della Martesana - come Vimercate lo era stato - pullulava di monasteri
maschili e femminili. A Vimercate ve n’era un’inflazione. Così tanti che
a me ricorda la Firenze ai tempi di Cosimo II, dove il numero delle monache
superava di gran lunga il numero delle donne non rinchiuse in un monastero. Tutte
figure che dovevano essere nutrite a spese del popolo tenuto povero e
ignorante, quello che lavorava le terre di proprietà dei nobili e del clero.
Lo faceva anche mio nonno Villa. Poi un giorno la madre
superiora delle Canossiane lo chiamò a rapporto. Quando uscì dall’ufficio mio
nonno non aveva più un lavoro. Licenziato - e su questo fatto cadde un
silenzio, mai rotto. Un mistero doloroso,
per il nonno soprattutto. Anime pietose gli trovarono un ripiego come spazzino
comunale. Ogni tanto mi faceva entrare nella verde carriola e insieme giravamo
per le strade in cerca di carte da spazzare. Lui di questa umiliazione ne
soffriva, al pari o forse più di una precedente, così come mi è stata raccontata da mia madre: in via Cavour, di fronte all’osteria della zia Orsolina (una
sorella della nonna), un fascista, certo manina
perché aveva una mano di legno, schiaffeggiò pubblicamente il nonno Villa.
Altro fatto su cui in famiglia era caduto il silenzio, una damnato memoriae. Ricordo il nostro ultimo incontro. Ero stato rinchiuso in un collegio, ad Affori. Una domenica lui venne a trovarmi in
compagnia di mia madre. Mi guardava e non parlava. Rimase muto tutto il tempo.
Morì poco dopo.
* * *
Il fratello di Aldo Motta gestiva un piccolo negozio di
giocattoli a due passi da palazzo Trotti, la sede municipale. Ovviamente anche
lui era iscritto al Partito comunista, quindi in odore d’inferno, come Fatima
insegna. Se la memoria non m’inganna, il suo nome e quello della sposa sono iscritti sul registro dei matrimoni civili di Vimercate sotto il numero 1.
Avevano un figlio, Aldo, della mia età, con cui per un certo periodo ci siamo
frequentati. Era un ragazzo non vivace, ma lo eravamo tutti noi nati a ridosso
della guerra, figli di padri combattenti, circondati da parenti combattenti - i
Mauri nel mio caso (tra Africa e Albania lo zio Dante si era fatto 11 anni di guerra). Poi, crescendo, ognuno ha seguito la sua via e ci si è
dispersi.
Lunedì 19 ottobre 1970 ho sposato una ragazza veneta, che abitava a Schio, conosciuta in parete su una via di IV e V grado. Il nostro
matrimonio è stato celebrato da un assessore all’interno di palazzo Trotti. Rito
civile. Sul registro siamo il numero 2. Scandalo! Comunisti! Il parentado materno si ritenne offeso e umiliato. Sotto
l’influsso dei parenti più stretti persino i miei genitori disertarono la cerimonia: in chiesa
sì, in comune no! Avete disonorato la
famiglia è una frase che le mie orecchie hanno registrato. Insieme agli
sposi, in municipio vi erano quattro amici e la famiglia della sposa. Otto in
tutto, sposi inclusi. In compenso, nel cortile interno del municipio si erano
radunati gruppetti di beghini arrivati per vedere
i due ‘ribelli’.
* * *
Ritorno in via Aldo Motta 57. El sciur Enrico umbrelée e la
sciura Angelina umbrelera avevano quattro figli: Luisa, Mariuccia, Angelo e
Mario, miei ‘fratelli’ maggiori. Soprattutto Mario, più vecchio di me di 18
anni. Estroverso, di bell’aspetto - era anche andato a Roma per cercare di
trovare un posto nel mondo del cinema in veste di attore -, proprietario di una
barca ancorata nell’Adda ad Imbersago, ma soprattutto di una piccola
biblioteca, cosa rarissima in quei tempi, con titoli quali la pluri voluminosa Storia Romana di Theodor Mommsen e La storia del Risorgimento italiano
(1815-1918) di Ettore Fabietti
stampata nel 1941 da La Universale Barion. Lo so con certezza perché me ne fece
dono e io questo libro lo conservo ancora.
Nei miei ricordi di fanciullo, il signor Enrico era una
persona buona. Lavorava al suo desco, parlava poco, non rideva mai. Poi …la
settimana scorsa una gentilissima signora mi ha fatto omaggio di tre libri
preziosi e tra questi vi è Vimercate
nella storia contemporanea 1918-1945, che mi dicono raro da trovare. Leggo,
e a pagina 40 trovo:
Nelle fabbriche e nei punti di
aggregazione, si cercava di informare le giovani leve sulla necessità di
mantenere viva l’idea di democrazia, proponendo le logiche dei partiti
democratici in contrapposizione alla spersonalizzazione dell’individuo operata
dalla dittatura. Durante una di queste riunioni vennero arrestati diversi
giovani di ispirazione comunista e processati dal tribunale speciale.
SENTENZA
n. 73 del 10.12.1931
Pres.
Ciacci - Rel. Presti
Capo d’imputazione: Costituzione
del Partito Comunista d’Italia, appartenenza allo stesso, propaganda.
MAURI ENRICO Vimercate ombrellaio assolto
COLOMBO FLAVIO Bresso fattorino 4 anni
Rileggo: Mauri Enrico, ombrellaio ...ed è così che sono venuto
a sapere che il sciur Enrico nel 1931
era stato arrestato perché vicino al Partito comunista italiano. Mai saputo
prima.
Oggi, per pura coincidenza - vedi gli scherzi del destino! -
nel cimitero di Vimercate i miei genitori occupano una posizione dirimpettaia ai dö umbrelèe. E così il vecchio
cortile di via Aldo Motta 57 si è ricomposto e io ne sono contento.
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
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