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mercoledì 21 maggio 2014

Il mozarabico (3)


Alto su di un monticello, l’eremo dedicato a San Baudelio de Berlanga - il popolare martire di Nîmes, in Francia - appare come un triste cubo di pietra. Piove forte, il vento impazza. Scavate nel suolo roccioso, le antiche tombe della necropoli medievale sono piene d’acqua. Puntuale, alle sedici arriva il custode. Oltrepassata l’araba porta a ferro di cavallo (o a serratura) appare l’incredibile: all’altezza del soffitto, un pilastro centrale apre i suoi rami a mo’ di palma, l’albero paradisiaco sacro al Dio del Qur’an ma anche - un tempo - simbolo della croce. Sui vecchi muri restano le rosse tracce degli affreschi che un tempo valsero a questo isolato eremo il titolo di Sixtina de Castilla: un uomo armato di arco e freccia caccia il cervo; un altro, a cavallo, manda i suoi cani ad inseguire due lepri; un falconiere posa in sella ad un donchisciottesco ronzino. Sul tronco della palma vi è raffigurato un uomo, mentre alla sua destra ve n’è un secondo coperto da uno scudo rotondo: “san Baudelio cristiano e san Baudelio musulmano” suggerisce il custode. “Come storico debbo riferire ciò che mi vien detto, ma non ho l’obbligo di crederci” ci insegna Erodoto. Ancora: un dromedario, un elefante, altri due cani in posizione verticale, un orso. E poi soggetti biblici quali le nozze di Cana, il Cristo che cura il cieco, le tre Marie davanti al sepolcro. I dipinti originali, staccati nel 1922 da un esperto appositamente arrivato dall’Italia, hanno raggiunto gli Stati Uniti. “Ora sono a New York, Boston, Cincinnati e Indianapolis” dice il custode. “All’epoca, i venti abitanti del vicino villaggio, poveri contadini, si erano rivolti persino all’Alta Corte spagnola per fermare lo scempio, ma il potere dei soldi ha vinto su tutti”.

A destra dell’ingresso, una foresta di pilastri (replica del fitto bosco esterno, ora scomparso) nasconde l’ingresso di una grotta, il luogo dove i primi anacoreti trovarono la loro pace interiore abbracciandosi con devota fede all’archetipo detto Yahwè dagli ebrei, Dio dai cristiani, al-Ilah dai musulmani, Issa (o Isha) dalla Mesopotamia all’India. A pochi metri, una sorgente d’acqua pura li dissetava. Cinque gradini introducono al cubo dov’è l’altare per il rito cristiano: è la chiesa mediana, già non più sulla terra ma non ancora in cielo. Una ripida e stretta scala porta al terzo livello, alla chiesa celeste: un cubicolo di un metro quadrato invisibile dal basso, dove un eremita può isolarsi rispetto al già ristretto mondo della chiesa stessa. Un eremo nell’eremo: l’utero generativo della madre-chiesa.

Ma il capolavoro dell’anonimo architetto - certamente di cultura islamica - è lì, ancora una volta non facilmente comprensibile: tra le otto nervature della palma (la cifra perfetta dell’ottavo giorno divino) è stata ricavata una nicchia piccolissima (mistero della Presenza, ma anche estrema sintesi dell’esistenza umana), dove - ipotesi altamente suggestiva ma poco realistica - un umano di emaciata corporatura avrebbe potuto entrare per “sciogliersi” nel Creato. Un gesto estremo; un’auto-immolazione di stampo prettamente orientale, certamente più vicina alla scuola dei mistici jaina che non al clero cristiano. Infatti, alla luce dell’arcaica credenza indiana secondo la quale l’ultimo momento della vita ha una rilevanza decisiva sullo stato dell’individuo nella rinascita successiva, e alla luce dell’insegnamento specificatamente jaino-buddhico sulla possibilità di distruggere il karma con una graduale ritrazione dalle attività fisiche e mentali, non appare certo sorprendente che il misticismo orientale ritenga che la morte ideale sia una forma altamente controllata di deperimento progressivo conseguente al digiuno. Questo processo è noto come morte religiosa (sallekhanā), in cui la pratica ascetica centrale - che consiste nella riduzione dell’assunzione di cibo - viene portata alla sua logica conclusione affinché il corpo venga depurato (sallikhita, “eroso”) dai suoi fattori negativi e affinché, all’avvicinarsi della morte, la mente possa focalizzarsi soltanto sulle questioni spirituali.

Si ritorna all’aperto frastornati. Non si fatica a capire che qui la mistica del numero tre è di casa. «Tre non è razionale, conoscibile; non è la mente a capire il Tre, ma il complesso delle facoltà emotive umane - comprendere con il cuore, si dice. Tale livello di comprensione individuale indica il grado di civilizzazione di una persona: è possibile sapere molto e contemporaneamente comprendere poco. Riconoscere la terza forza significa accettare il bisogno fondamentale di armonizzare gli opposti; pertanto, chi è capace di comprendere la terza forza non è facilmente sviabile dal dogmatismo: sa, infatti, che in questo mondo il vero ed il falso sono relativi, e anche quando sembrano assoluti, come nei sistemi logici, è lo stesso sistema logico ad essere relativo, un’astrazione di una realtà più ampia e complessa» ha scritto J. A. West. Qui, tutto ciò lo si comprende.

Il mozarabico (2)


È venendo da nord, uscendo di nuovo alla luce del sole dopo il lungo e selvaggio orrido scavato dal rio Deva, che più si apprezza questo gioiello dell’arte mozarábica del X secolo: Santa María di Lebeña, regno apparente del numero quattro.

[NOTA. Anche ai tempi di Roma antica questo numero appariva come fondamento e base dell’ordine del mondo, nei quattro elementi, nelle quattro stagioni, o addirittura nelle quattro parti del mondo (secondo l’opinione geografica del tempo); non senza motivo, al termine di quattro anni veniva a cadere il “lustro”; perfino sulla volta del cielo una quadriga di cavalli volava davanti al carro del dio solare, e ai due grandi luminari celesti, il sole e la luna, due altri minori ne furono aggiunti: Lucifero ed Espero, la stella del mattino e quella della sera].

Ad una struttura basale quadrata - romanica, che le colonne visigotiche a loro volta suddividono in dodici sezioni - è appoggiata una seconda parte formata da un rettangolo suddiviso in tre quadrati. Ancora numeri, tanto cari ai primitivi adoratori del Dio unico, ma anche retaggio di spiritualità arcaiche. Quale basamento dell’altare è stata murata una pietra rettangolare d’origine celtica, con al centro un grande disco solare in movimento circondato da altri sei cerchi minori. In basso, due linee rette sovrastanti linee spezzate riportano - così sembra - al periodo preistorico. Dov’è il legame con la mistica araba? Perché ci si ostina a considerare questa chiesetta quale raro esempio sopravvissuto dell’arte mozarábica? Come a San Baudelio, anche qui il segreto è sotto gli occhi, dunque invisibile al profano: tutta la volumetria della chiesa - altezza, larghezza e profondità - è costruita sul modulo-trama 33,33 - il sacro numero della perfezione, lo stesso che i Padri della teologia cristiana hanno imposto quale periodo di vita del Cristo. Tuttavia, questo modulo numerico è una reinterpretazione occidentale dell’ancor più antico numero 108, caro sia ai monaci jaina e del buddhismo tantrico, sia ai brahmana vedici, gli “inventori” del rito religioso fondato sull’intermediazione del clero: la somma delle tre cifre che formano questo numero dà come risultato nove, a sua volta riportabile a tre volte tre. Nei templi dell’India ancor oggi questa simbologia è rappresentata al suolo da un gruppo di 99 “linga” (“marchi” rappresentati da itifalli di pietra) disposti su tre file, più altri nove “linga” - più importanti per grandezza e sempre disposti su tre file - in testata.
Riepilogo: tre file con 33 pietre cadauna, più altre tre file di tre pietre formano il numero 108, ovvero 36 volte il numero tre; ma 36 è dodici volte tre, e dodici è quattro volte tre, esattamente come lo è il modulo 33,33. Non a caso lo stesso modulo - dodici apostoli suddivisi in quattro gruppi di tre (3, 3, il Cristo, 3, 3) - è stato utilizzato da Leonardo per l’Ultima Cena di Milano. Perché lui - è certo - sapeva...

NOTA. Grossolanamente - perché entrare nello specifico non è compito di questo scritto - in India il numero 33 è così formato: se agli 8 Vasu si sommano i 3 prana principali (prana, apana e vyana) si dà origine agli 11 Rudra; aggiungendovi il manas (rappresentato dal Sole), si hanno i 12 Aditya. Assommando a questi numeri (8, 11 e 12) i 2 gemelli Aśvin si ha come risultato 33: il numero perfetto in cui si manifesta il divino.


Modulo trama 33,33

Credo sia qui opportuno introdurre una breve nota sulla qabbalah, parola derivata da un termine ebraico che significa “ricevere [la tradizione orale]”. Sebbene le formulazioni conosciute della qabbalah ebbero origine nel Medioevo nella Spagna meridionale, di fatto esse affondano le proprie radici in tradizioni esoteriche assai più antiche, risalenti al periodo detto dalla storiografia ebraica “del Secondo Tempio” (dal VI secolo a.e.v. al I secolo e.v.). Secondo i qabbalisti, invece, la qabbalah costituisce la parte segreta della rivelazione divina a Mosè sul Monte Sinai. I suoi testi principali sono il Yesifrah (Libro della Creazione) e il Sefer ha-Zohar. Idra rabba (Libro dello Splendore. Grande assemblea), pubblicato per la prima volta nel 1300.
Succintamente, qabbalah è l’insieme delle teorie e delle pratiche del misticismo esoterico ebraico che associa ad ogni nome un valore numerico e ad ogni valore una “vibrazione metafisica” capace di provocare eventi soprannaturali, nata dal desiderio di svelare anche i significati più reconditi del Vecchio Testamento (Torah, “Legge”, o più esattamente: “Istruzione”) che per la religione ebraica è la parola di Adonai [il nome proprio Jahvèh, in quanto ineffabile, è stato ed è tuttora letto dagli ebrei Adonai, e tradotto nel Settanta in Kyrios, “Signore”]. Quindi, ciascuna parola e ciascuna lettera delle parole che compongono la Torah diventano interpretabili secondo diversi livelli interpretativi, e poiché ogni lettera dell’alfabeto ebraico ha anche un valore numerico basato sul sistema decimale, una delle tecniche interpretative più comunemente usate della qabbalah è la numerologia.
Agli specialisti sono note la qabbalah spagnola - nel XII secolo mistici della Catalogna divulgarono nei circoli spagnoli speculazioni qabbalistiche sul male, la salvezza e l’anima - e la qabbalah lurianica - dopo il 1492, anno del forzato esodo degli ebrei dalla Spagna, Yizhaq Luria promosse da Safed, una città della Galilea, nuovi usi e riti. Ma vi fu, anche se poco o niente “reclamizzata”, una qabbalah cristiana. La scoperta del misticismo giudaico da parte dei cristiani cominciò nel 1486, con le traduzioni dei testi qabbalistici approntate dall’ebreo convertito Flavio Mitridate per Giovanni Pico della Mirandola. Fu Pico il primo intellettuale cristiano a riconoscere alla qabbalah valore interpretativo e dignità di scienza antica. I concetti qabbalistici che egli accolse nelle sue Novecento tesi trasformarono una dottrina guardata con sospetto in tema privilegiato del dibattito culturale dell’epoca. Negli insegnamenti segreti del giudaismo il conte della Mirandola cercava conferma alla propria fede cristiana, e pensava che i misteri della sefirot fossero in accordo con le verità evangeliche. Dopo di lui, l’utopia di una qabbalah cristiana fu coltivata dall’umanista tedesco Johannes Reuchlin, e conquistò persino il favore di un cardinale influente come Egidio da Viterbo, generale degli Agostiniani al tempo di Lutero. Il cardinale - che al pari di Pico si faceva copiare e tradurre opere mistiche - fu consapevole dell’importanza dei diagrammi, tanto da commissionare a un esperto amanuense un rotolo qabbalistico “con disegni di vari colori in un foglio grande di carta pecorina”. Più eclettica di quella ebraica nelle sue aspirazioni, la grafica dei qabbalisti cristiani tende a elaborare immagini composite, in cui il misticismo giudaico convive con spunti astrali e con più prepotente iconismo. Dal francescano musico e alchimista Francesco Zorzi, al medico e mago Cornelio Agrippa, al retore e poeta Achille Bocchi, e fino alle ruote mnemoniche di Giordano Bruno e alle mitologie visive di Robert Fludd, l’elemento qabbalistico divenne lievito di cultura visiva in tutta Europa.

Ma la visita non è ancora finita: avendo sviluppato il simbolismo del cubo all’interno, tocca all’aspetto esterno di Santa María di Lebeña essere modulato con le tre chiese ascensionali. Ed infatti tre sono i livelli dei tetti: quello inferiore copre l’ingresso (suddiviso dalle colonne in tre parti), quello intermedio appartiene alla chiesa, il più elevato si innalza al centro (cupola quadrata, ricoperta da un tetto spiovente sui due lati, a frontone greco, dunque triangolare). Poco discosto vi sono due giganteschi alberi, un tasso e un ulivo, che la tradizione vuole siano stati piantati dai primi costruttori della chiesa; sarebbero vecchi, quindi, di oltre mille anni. L’immancabile corso d’acqua sorgiva, un piccolo ombreggiato cimitero e imponenti pareti rocciose completano la geografia di questa preziosa zolla di Spagna.

[continua, 2/3]

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Il mozarabico (1)


Malgrado le scorrette dicerie della concorrenza, la dominazione araba della Spagna non fu soltanto un periodo di sangue versato dai “nostri” martiri, ma piuttosto un’epoca di grandi progressi scientifici, soprattutto nel campo della medicina e della matematica. Inoltre, in cambio di un affitto per i terreni, tributi e imposte personali, i musulmani assicuravano l’assoluta libertà di culto - compresa la costruzione dei templi - e la protezione militare agli ahl al-Kitab, ovvero ai “popoli del Libro”, gli ebrei e i cristiani presenti sul proprio territorio [NOTA. In epoca ottomana questa istituzione sarà chiamata “millet”]. Sarà questo contesto culturale ad agevolare, tra il VII e il X secolo, la nascita di un modo nuovo di erigere chiese e conventi - detto stile mozarábico - dove, in un unicum religioso, le ritualità tipiche del cristianesimo e dell’islam potevano pacificamente convivere. Nella sanguinosissima storia delle religioni monoteiste, questa resterà l’unica occasione in cui lo stesso Dio, pur con nomi e riti diversi, potrà essere venerato insieme, in un’unica chiesa, dalle due confessioni. Düra minga, si diceva sconsolatamente a Milano, e con ragione.


Un primo esempio d’architettura mozarábica è il monastero di San Miguel de Escalada. Dopo tanta strada, la sorpresa: causa lavori in corso l’accesso al tempio è proibito. Faccio buon viso a cattiva sorte e prendo ad arrampicarmi sul fianco della collina che costeggia il Rio Esla e da lì ammiro, tra le impalcature metalliche, l’estrema leggerezza del lungo porticato di questo manufatto, che le colonne suddividono in dodici arcate di perfetto stile islamico. Nel muro occidentale, quello che protegge il portico dai venti dell’Oceano, si apre un’elegante finestra a duplice apertura a ferro di cavallo, con una colonnina centrale ornata da fregi di tradizione islamica. La costruzione di questo monastero risale al decimo secolo, periodo in cui il regno di Léon era attraversato - volente o nolente - dalle evoluzione politiche e militari degli Stati confinanti. A nord si andavano formando i primi embrioni della reconquista (conquista, in verità) cristiana. Ad occidente il léonese confinava con la Galizia, antica terra celtica conquistata dagli eserciti di Roma, a cui erano seguiti gli Svevi, i Visigoti, gli Arabi e gli Asturiani. Verso oriente, in seguito all’invenzione (politica più che religiosa) del camino di Santiago, si era aperta una finestra sul mondo europeo. Infine - e soprattutto - il sud, dominato da quell’Islam spagnolo che Jacques Fontaine ha così stupendamente sintetizzato: “terribile per le sue armi e affascinante per la sua civiltà”.
La storia ufficiale ci informa che questo grandioso edificio - un rettangolo largo 13,50 metri e lungo 22, che tre navate e tre archi interni suddividono in nove parti - fu “edificato in soli dodici mesi e consacrato dall’arcivescovo Gennadio il dodicesimo giorno del dodicesimo mese dell’anno 951 dell’era ispanica”. Potenza dei numeri.

La seconda chiesa è la più piccola ma non per questo la meno preziosa. Già trovarla è un piacevole calvario: a ripide salite seguono altrettanto ripide discese; tratti boscosi cedono sovente il posto a verdi campi, dove pecore, cavalli e vacche vagano brucando i teneri pascoli primaverili. La ricerca del manufatto sembra complicarsi quand’ecco - all’improvviso ed inaspettati - appaiono due ragazzi con le chiavi in mano! Insieme prendiamo per un sentiero laterale e pochi minuti dopo siamo all’incontro col miraggio: San Román de Moroso è lì davanti a noi e il suo colore bruno contrasta col verde smeraldo dell’erba. Nessuno conosce con certezza quando venne eretto questo cenobio; il primo documento che ne cita il nome risale al 1119, ed è la lettera con cui la regina (doña) Urraca fa dono di questa costruzione ai monaci di Santo Domingo de Silos. La struttura è robusta, composta di due locali a base quadrata, il più alto davanti, il più piccolo dietro. Eccezionalmente, la porta d’ingresso a “serratura” si apre sul lato nord, causa la morfologia del territorio. L’interno è buio e disadorno. Ma è all’esterno dove la capacità artistica del maestro costruttore si è maggiormente sviluppata: il tetto è sorretto da una serie di modiglioni scolpiti - nove per lato sul locale più grande, sei sull’altro - con simboli circolari tipici della cultura orientale, il cui carattere pagano fu dapprima cristianizzato dai Visigoti e poi adottato dai mozarábi. Si possono ammirare motivi floreali a quattro (il numero dei pilastri che si riteneva sorreggessero la Terra), a sei (numero sacro della Mesopotamia riadattato a simbolo del Crismòn, il monogramma greco del Xristòs o Messia) e a otto petali (simbologia celestiale dell’ottavo giorno divino e della rinascita), oppure altri motivi geometrici quali il cerchio, cristiana rappresentazione della sfera celeste (non terrestre, che doveva essere quadrata perché così era scritto nei testi “sacri”) o lo swastika, qui simbolo del Cristo in quanto novello e raggiante “Sol Invictus”. Appoggiata al suolo - a un metro dalla porta - per lungo tempo una pietra scavata è servita da sarcofago agli eremiti passati a miglior vita.
                                                                                                                                         [continua, 1/3]


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