venerdì 31 luglio 2015

San Baudelio de Berlanga visto da Antonio Thiery


Antonio THIERY
A che punto è la questione mozarabica
Pubblicato in Arte Medievale
Periodico internazionale di critica dell’arte medievale
II Serie, Anno II, n. 2, 1988, pp. 29-62
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Roma

San Baudelio de Berlanga (Soria), dell’XI secolo. L’edificio riassume molti motivi simbolici dell’architettura spagnola dal VII all’XI secolo: una grande aula cubica, dalla quale si accede ad una grotta (la cappella dei primitivo insediamento) e ad un’abside quadrata, sopraelevata, che fa da scrigno all’altare. La grande aula è segnata al centro da una maestosa colonna, dalla quale si dipartono otto costoloni a costituire la nervatura della copertura a vela. Si fa riferimento ai rami di una grande palma, ma è evidente che ci troviamo di fronte ad un complesso mandalico che significa la resurrezione e la perfezione finale. Il grande senso di moto che viene conferito alla costruzione è accentuato dalle otto strettissime feritoie poste tra i costoloni che si dipartono dalla colonna centrale e che lasciano intravedere un vano impenetrabile, con una copertura a cupola, il cui ombelico, alla maniera araba, è costituito da un complesso sistema di travi che genera una figura circolare (simbolo della libertà cosmica) e otto linee di forza che incrociandosi danno vita ad un quadrato (la perfezione terrena) e che sono riassunte in un rapporto unitario da due assi posti a croce, che richiamano la lettera ebraica heth, alla quale si attribuisce il valore numerico di otto.
Il vano cieco e inaccessibile, sopra le absidi il più delle volte, è presente nell’architettura dell’età visigotica (San Pedro de la Nave, San Julián de los Prados) e mozarabica (San Miguel de Escalada) ed il significato non può che essere simbolico.
A Berlanga, la copertura del vano cieco ricorda con grande chiarezza la scena di Gog e Magog dei Commentari di Beatus, otto teste di coloro che dettero testimonianza della propria fede attorno alla testa centrale del Cristo. Nel mandala che viene a configurarsi anche a Berlanga è fondamentale il ruolo del centro, della divinità, da cui sono emanate le otto divinità periferiche.
Alcuni ipotizzano che si tratti di una cella eremitica, ma manca un possibile accesso. La cella impenetrabile ricorda bene nei suoi significati e nelle sue funzioni il senso misterico della cultura, vicino-orientale. B. Bagatti ricorda che per svelare ai soli adepti delle sètte il significato dei segni e dei simboli, i popoli antichi, compresi i giudeo-cristiani, tendevano per principio a conservare il segreto (mysterium absconditum). E perciò la spiegazione di molti segni risulta difficile. Il Vangelo di Filippo, evidenziando che a Gerusalemme tre erano le case che fungevano da luogo di sacrificio, dice che “il battesimo è la casa santa; l’unzione è il santo del santo, la camera nuziale è il santo dei santi... prima che il velo fosse strappato, non avevano altra camera nuziale, ma solo un’immagine della camera nuziale che è lassù. È per questo che il velo fu strappato dal basso in alto, perché era opportuno che qualcuno andasse dal basso in alto.” La cella, alla quale si guarda dal basso in alto, ricorda anche la grotta mistica o splendente, non per la luce che vi penetra, ma per la presenza divina, ben sottolineata dal mandala che fa da chiave alla volta.
La colonna centrale che si apre negli otto costoloni richiamando il grande albero, da cui emana la forza vitale, non è certamente una novità. Segna il legame fondamentale tra l’umano e il divino, simboleggia la croce nella quale il Dio morente si immedesima al punto da diventare solo “voce”, solo “spirito vitale.” Dice Ephrem: “Dio ha piantato un bel giardino. Egli ha costruito pure la Chiesa e in mezzo alla Chiesa ha piantato il Verbo.” È una descrizione, a secoli di distanza, del San Baudelio di Berlanga, che, nel suo sistemico insieme, è segno di Cristo.
Il vano centrale della chiesa è caratterizzato ancora sul fondo, in contrapposizione all’abside, da una tribuna sorretta da 18 colonne, forse richiamo allo spazio riservato alle donne nella sinagoga, alla quale si accede da una piccola scala, simbolo di Cristo, come ricordano Ireneo e Giustino. Dalla tribuna si accede ad una piccola cappella addossata alla colonna centrale e sorretta, quasi fosse un pulpito da quattro colonne che sorreggono quattro archetti.
Modeste pitture, staccate in epoca recente e sostituite da copie, coprivano le pareti esterne della tribuna e della cappella.
A tanta inventiva architettonica, a testimonianze di una complessa sofisticata tradizione culturale, che mira a creare un composito ed esoterico sistema di comunicazione, fanno da contrappunto balbettanti esercizi pittorici, a testimonianza di forme espressive che hanno trovato solo nelle architetture e nelle miniature la propria ragion d’essere e le proprie “funzioni.”

[…] Il riferimento all’architettura araba, nelle chiese mozarabiche, è costante. Non sono molti gli edifici musulmani giunti fino a noi, ma la Moschea di Cordoba è sufficiente per testimoniare forme comunicative che presero il via nel VII secolo dalla grande Moschea di Abd al-Malik, sulla spianata del tempio di Gerusalemme.
Non mi soffermerò ad esaminare l’architettura araba di Spagna; metto soltanto in evidenza come il sistema a costoloni di San Millán de la Cogolla e di San Baudelio de Berlanga è presente, con innumerevoli soluzioni nella Moschea di Bid-Mardúm, dalla fine del X secolo, a Toledo - ora nota come chiesa del Cristo della Luce - e come il fantasmagorico fiorire di mandala sia presente, appunto, nella grande Moschea di Cordova, ad esempio nelle cupole della cappella reale o della cappella antistante il mihrab. Non va dimenticato il forte accento ad una impostazione labirintica della pianta, né che l’edificio sacro, sia nel mondo islamico, sia in quello cristiano, è il centro di una liturgia che ha nella deambulazione interna ed esterna la sua caratterizzazione.
Nel contesto culturale definito da tante chiese, vanno studiati i codici miniati del X secolo, che meglio individuano i modi comunicativi dell’età mozarabica. Non dovrà meravigliare il costante riferimento ai testi apocrifi o al mondo arabo, giacché appare sempre più evidente la natura sincretistica della religiosità mozarabica, centrata non sulla ricerca di una teologia dogmatica o morale, ma nell’attesa apocalittica della fine già operante dei tempi, non disdegnando connotazioni giudaiche e islamiche.