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martedì 10 giugno 2014

Dei de Spech, di Giovanni Gavazzi e di Lorentino


Leggere che un cardinale “molto probabilmente trascorrerà qualche giorno di vacanza a Lorentino” (la solita notizia falsa ad hoc: infatti non ci è andato…) e pensare ai nobili de Spech è stato un tutt’uno.

Spiego. I de Spech entrano nella mia vita alcuni anni fa, ai tempi in cui giravo per archivi italiani e stranieri alla ricerca di ogni possibile manoscritto utile a realizzare una vecchia idea: scrivere le “Vite” degli scienziati e letterati esploratori del Gruppo delle Grigne, da Leonardo fino a Giovanni Gavazzi, l’autore del primo scritto a carattere prettamente sportivo. “Vite” non scritte alla maniera del Vasari, il cui miglior commento critico [mio] resta: “quel che non conosceva, lui lo inventava. E tanto inventò”.
I copiatori dai libri altrui - a loro volta copiati da altri che copiaron da altri - hanno sempre deriso Giovanni Gavazzi solo perché ...lo aveva fatto l’onorevole Mario Cermenati in un suo scritto del 1899. Ovviamente, nessuna di queste penne “d’oro o di ferro” - per dirla alla Paolo Giovio - ha mai speso tempo e denaro per indagare sul Gavazzi: chi era, qual’era la sua professione, perché decise di salire sul Grignone per aprire una via “mai percorsa da altri” in compagnia di una celebrata guida di Courmayeur. Ma anche: cosa si celava dietro quel suo stile di scrittura, ostico ai letterati del suo tempo e per questo sbeffeggiato dal botanico Vincenzo Cesati, barone di Vigadore con residenza a Napoli?
Io l’ho fatto, aiutato in questo da due archivisti - Barbara Gariboldi e Roberto Gollo - e da due bibliotecari: Alberto Benini e Anna Pezzolo. A Canzo ho sempre potuto contare sulla gentilezza di Milena Longa, mentre Emilia, Giulia e Paolo Balossi Restelli mi hanno aperto le case “Gavazzi” di Milano e Canzo. Infine, ma non ultimo, Gerolamo Gavazzi mi ha fatto dono di un suo libro prezioso.

In seguito, per garantire una sequenza temporale, la monografia su Giovanni Gavazzi - la prima da me scritta - ha ceduto il passo ad altri due pezzi da novanta: Leonardo da Vinci e il beato Niccolò Stenone, di cui ho pubblicato nel 2012 le monografie sui loro viaggi (o presunti tali per LdV) in Grigna. Non solo: per dare un senso compiuto alle ricerche di Stenone sui nostri monti ho voluto raccontarne la vita, realizzando (forse) la più completa biografia mai scritta su di lui, arricchita dalla riproduzione fotografica dell’intera lettera inviata a Cosimo III di Toscana per metterlo al corrente degli esiti del viaggio alle grotte di Gresta e del Moncodine, manoscritto rimasto sconosciuto anche a Mario Cermenati, che prese le sue informazioni - così lui stesso dichiara - dalle monche Lettere inedite pubblicate dal Fabroni nel 1775 (lo stesso che aveva fatto Angelo Bellani per un suo libro pubblicato nel 1816).

Per i lettori di questo blog anticipo alcune righe sul rapporto che univa gli Spech a Giovanni Gavazzi e all’abitato di Lorentino, estrapolate dal mio tuttora inedito libro.

I NOBILI DE SPECH. D’origine tedesca, dal 5 luglio 1754 i fratelli Giorgio e Carlo Andrea Spech si ritrovano ascritti alla nobiltà magiara. Firmando il diploma, l’imperatrice Maria Teresa ricompensa i servigi resi da Carlo Andrea alla Corona d’Ungheria in qualità di commissario imperiale di guerra in Lombardia e, in data incerta, questi viene inviato a Milano per mettersi a disposizione del ministro plenipotenziario, il trentino Carlo Gottardo (detto Giuseppe) conte di Firmian, con l’incarico di Capo commissario di guerra in Italia. Nel 1768 Carlo Andrea è pure insignito del titolo di Reale imperiale consigliere.
È a lui che Carlo Porta dedica il sonetto che Raffaello Barbiera, curatore del volume Poesie edite, inedite e rare di Carlo Porta, così introduce: «Questo epitaffio-epigramma colpisce un consigliere Spech, e fu scritto, a quanto sembra, in un momento di malumore quando quel magistrato era vivo. Finora non fu mai pubblicato, forse per un riguardo all’egregia famiglia di quel nome; ma ogni titubanza di editori cessa quando vogliasi ripetere l’avvertenza che si legge in un manoscritto conservato all’Ambrosiana: “L’epigramma esagera. Era uomo (lo Spech) un po’ debole e di vedute poco larghe, ma non era cuore di Giuda come qui si dice.”»

EPITAFFIO
                 Chì sott gh’è el corp del sur Consejer Spech
che l’è staa in vitta sova on gran boricch,
bravo domà per fà salamelecch
col coeur de Giuda e el muso de Berlicch;
el mond cont la soa mort l’ha perduu pocch,
e ha quistaa un sant el paradis di occh.

Traduco per i non langobardi:

Qui sotto c’è il corpo del signor Consigliere Spech
che è stato in vita sua un gran burricco,
bravo solamente a far sala­melecchi
col cuore di Giuda e il muso di Berlicche;
il mondo con la sua morte ha perso poco,
mentre ha acquistato un santo il paradiso delle oche.

Prima di scendere «al paradis di occh» (l’inferno) l’imperiale consigliere trova il tempo di sposare Maria Anna Hurnegli e poi, in seconde nozze, la dama di corte Marianna de Hüting-Ongarere, che lo rende padre di Francesco Zaverio (1766-1828), futuro «Nobile ungherese, Consigliere della Comunità, Direttore delle Poste, Magistrato integerrimo, Uomo pio e virtuoso, Ottimo padre» (come recita il bugiardino tombale).
Moglie di Francesco Zaverio è Paolina Valsecchi, figlia di ricchi possidenti terrieri in Lorentino, amena località utilizzata dai de Spech dapprima per le vacanze e poi per l’eterno riposo. Dalla loro unione nasce il «Vir ille simplex et rectus» Andrea (1792-1870), Scudiero imperiale e Cavaliere dell’impero, marito della contessa Francesca Nugent e poi di Costanza Canziani. Tra i figli di primo letto troviamo Francesco, Scudiero di corte per diritto ereditario e Guardia nobile dal 1842, uno dei principali proprietari terrieri di San Pietro all’Olmo, località dove Giovanni Maria Gavazzi ha impiantato una filanda, con la residenza padronale sulla piazza del paese e frequentata dai coniugi-cugini Giovanni Battista Gavazzi ed Emilia Gavazzi in Gavazzi.

Tutto cambia dopo il 15 marzo 1864, quando a Milano muore Gio.Batta, lasciando la vedova finalmente libera di frequentare l’amato Francesco de Spech, ma è solo dopo la morte di Andrea de Spech (1870) che i due colombi possono regolarizzare la loro posizione di fronte agli ipocriti convolando a nozze.
Qualche anno più tardi - il 6 luglio 1876, due giorni prima di festeggiare i suoi sessant’anni di vita - Francesco adotta l’ormai sposato (e con prole) figlio della moglie, Giovanni Gavazzi, trasmettendogli con decreto regio il proprio titolo nobiliare. Accettando, Giovanni Gavazzi de Spech diventa il primo ed unico nobile che abbia mai avuto la ramificata dinastia dei Gavazzi, noti tra il popolo come "quelli delle filande" e delle banche (e non solo).
Nella ristretta società di Milano il gesto non passa inosservato e i pettegoli hanno di che riempirsi d’aria la bocca: loro ‘già sapevano’ che Giovanni Gavazzi non era figlio di GioBatta, bensì il frutto nato dalla relazione extraconiugale tra Emilia e il de Spech. E adesso, sposando la vedova e adottandone il figlio, il nobiluomo ‘conferma’ la vox populi. Si aggiunga: il nuovo marito è più giovane di quattro anni della sposa ed ha vent’anni di meno del de cujus

Come detto sopra, alcuni dei sopracitati de Spech godono il meritato riposo nel cimitero di Lorentino, disturbati di tanto in tanto dalla mia visita: dopo aver tanto frugato tra i loro panni li “sento di casa”, quindi andarli a trovare è per me un piacevole dovere.

© testo e foto di Giancarlo Mauri


La Cappella Spech a Lorentino


ANDREA SPECH
Figlio di Francesco Zaverio
e di Paolina Valsecchi
Vir ille simplex et rectus (Job. 1)
Milano XXII luglio MDCCCXCII
Milano XXX magio MDCCCLXXX
Quì riposa
COSTANZA SPECH CANZIANI
morta in Milano
XV dicembre MDCCCLXI
Ma noi andremo a lei (Davide)
Sorgono i figli ed il marito
per dar lode alla donna forte (Prov.)


FRANCESCO ZAVERIO SPECH
Nobile ungherese
Consigliere della Comunità
Direttore delle Poste
Magistrato integerrimo
Uomo pio e virtuoso
Ottimo padre
Morto li 6 ottobre 1828
d'anni 62
I figli Andrea e Arianna Posero
Commemorando il ....LRN.....

MARIANNA SPECH
Del nobile Francesco Zaverio
Morta il 26 luglio 1862
Pia, modesta, benefica
Il fratello Andrea pose
per ricordanza delle sue virtù
Dormiam cum patribus meis (Genesi)

+ A Spech nobile Francesca
nata contessa Nugent
morta in Milano
il XXXI agosto MDCCCXVIII
nella giovenile età d'anni XXV
pia caritatevole amorosa
i figli
Matilde Giulia e Francesco
a perpetuo ricordo posero

mercoledì 21 maggio 2014

Letterati bugiardi, pettegoli …e un po’ ruffiani


Con “Milano ne' suoi monumenti” Carlo Romussi vince il premio bandito nel 1872 dalla Società Pedagogica Italiana per “un’opera che illustrasse popolarmente i monumenti di Milano”. Il libro, 408 pagine, esce nel 1873 pei tipi della Libreria Editrice G. Brigala di Milano e il suo primo capitolo, una prefazione, così recita:

I.
Monumenti.

I monumenti sono un libro sempre aperto sulle cui pa­gine secolari ognuno può leggere la veritiera istoria de’ suoi padri; perché mentre gli scrittori anche più coscien­ziosi van quasi sempre soggetti all’influenza di un partito o di un’idea preconcetta, i monumenti, imparziali testi­moni, ci rappresentano le età trascorse colla civiltà, le virtù, i vizi e perfino il pensiero degli uomini che innalzarono le loro moli. [Nota 1: Dirà alcuno: E che? non vi son forse monumenti bugiardi? il trofeo di granito che esisteva fino a pochi anni sono, fuor di Porta Ticinese e che attribuiva a Don Pedro Enriquez de Azevedo conte di Fuentes, la gloria di aver messo in comunica­zione, per mezzo del naviglio di Pavia, il Verbano ed il Lario col Po, non era bugiardo? il conte di Fuentes, che l’aveva in­nalzato a se stesso, non compì mai quell’opera che voleva ri­cordare ai posteri. Ma rispondiamo che quello era un monu­mento veridico dell’età sua, poiché nessuno prestava fede all’in­tenzione di chi l’aveva innalzato, ma ad ognuno ricordava la miseria di un’epoca in cui la boria dei dominatori spagnuoli, che aveva ogni cosa corrotto, credeva poter corrompere perfino la storia dei vinti.]
A chiunque si accinga a discorrere dei monumenti di una città, si affacciano due vie opposte: la prima è d’esa­minare partitamente ciascuno di essi secondo la rispettiva posizione topografica: l’altra di parlarne seguendo in­vece la traccia delle storiche vicende. Il primo metodo offre monografie che possono essere di grande utilità, specialmente per i dotti; ma l’altro raccoglie ed affratella i monumenti in una sola origine e li fissa nella mente con una sequela di patrie memorie, ora liete ora tristi, ma pur sempre care all’animo fervente di cittadino amore. Questa seconda via mantiene continuata la narrazione, stabilisce più viva la corrispondenza fra chi legge e chi scrive, fa apparire più manifesto come un solo linguag­gio parlino arte e patria e sia uno solo il loro culto, fonte delle più generose inspirazioni e delle più nobili virtù.
Quanto benediremmo la nostra fatica se queste povere pagine giovassero in qualche modo a frenare la smania demolitrice che ci rapisce ogni giorno tanti ricordi dei maggiori: e facendo meglio conoscere ai nostri concitta­dini la natia città nel suo passato, ogni monumento, per quanto guasto dal tempo e dagli uomini, ogni sasso, per quanto annerito, suscitasse un pensiero nella mente, un sussulto nel cuore: parlasse alla mente, ammaestrandoci col ricordo delle trascorse età: al cuore perché sono le opere dei padri nostri e le dobbiamo venerare con un senso di riverenza, come fossero la croce che li ricorda, ma insieme di nobile orgoglio, perché sono la prova più bella della loro potenza ed operosità.
La storia non ci tramandò il nome degli artefici di mol­te di quelle opere grandiose: chi le imaginò? chi tradusse il pensiero in azione? lo si ignora; forse popolani oscuri al par di noi che però consumarono la vita a ren­der bella e forte la patria: che soffrirono fors’anco guerre di emuli, stenti e dolori per tramandare ai nipoti eredità di opere che non passano. Ma noi impareremo pur sem­pre da essi: e se non sortimmo dalla fortuna illustre nascita o splendidi censi, se altro non possediamo che le braccia e le divine gioie del lavoro, cessiamo dal guar­dare con invidia i prediletti della sorte: anche noi siamo ricchi e nobili, perché nostri sono questi monumenti: qui troviamo i nostri stemmi gentilizi, le glorie avite.
Studiamoli adunque per non sentirci ripetere quelle amare, ma giuste parole che l’illustre Tomaseo ci rivolgeva: «I forastieri vengono a saperne più di noi dei nostri monumenti: a essere loro più di noi, nello spirito, eredi di quella gloria: essi cittadini e noi stranieri in patria: essi padroni del pensiero italiano, e noi da me­no che schiavi, bruti che a piè di quei monumenti stanno stupidi ruminando.»

Un libro tira l’altro, come le buone ciliegie colte dall’albero. E qui, seguendo il filone aperto dalla nota [1] c’è da farne indigestione….

Si potrebbe iniziare degustando la funzione delle note al testo, un lavoro ottimamente svolto da Anthony Grafton e pubblicato in Italia col titolo “La nota a piè di pagina. Una storia curiosa” dalle Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2000. Nel risguardo di copertina si legge:

Nel capitolo iniziale de La nota a piè di pagina Anthony Grafton offre vari divertenti esempi dei molti modi in cui, nel suo specifico campo di studio: la storia, l’uso apparentemente neutro delle note a piè di pagina costituisca in realtà una raffinata risorsa per le ambizioni individuali, la rivalità o le divergenze di impostazione culturale. Alcuni storici le considerano l’occasione per esibire credenziali. Per altri, esse offrono l’opportunità di pugnalare i colleghi - anche soltanto grazie a un freddo, poco appariscente aggettivo (come in Francia) o per omissione (come in Italia) o utilizzando “cfr.”, che Grafton definisce “sottile ma micidiale.”

Tra i tanti, di certo un maestro nell’uso del “pugnale” è stato il politico e storico lecchese Mario Cermenati, le cui note a piè di pagina sono imperdibili: non poche volte vi si legge “ringrazio per il suo pregevole lavoro l’esimio Tal dei Tali”, frase subito seguita dal sistematico smantellamento del citato “pregevole lavoro”. Innalzare il valore del nemico per rendere più importante la propria (presunta) vittoria è un vecchio trucco, sempre d’attualità, soprattutto tra i politicanti di bassa lega…
Nel passato molti “eroi” di turno hanno lasciato tracce del proprio passaggio sulla Terra facendo scolpire nel marmo false vittorie. Oggi sappiamo che un faraone d’Egitto lasciò scolpito d’aver vinto una battaglia da lui persa… Per approndimenti rinvio a Ceram C.W., Il libro delle rupi. Alla scoperta del regno degli Ittiti, Einaudi, 1974, libro da me amato: dopo averlo letto presi armi e bagagli (le macchine fotografiche, libri e la famiglia) e a bordo di una R5 partii dalla natìa Martesana (terra che separa la Brianza dal milanese) per approdare, via Atene - Istanbul - Ankara, ai confini con l’Iran, in visita ai resti delle allora dimenticate città degli Hittiti e dell’affascinante tempio rupestre di Yazilikayà, sulle cui pareti sono scolpite le principali divinità hittite, con tanto di nome e di simboli, inclusi i 12 seguaci del Dio principale; 12 come i profeti maggiori, 12 come i profeti minori, 12 come gli apostoli, 12 come i mesi dell’anno, etc. etc.

In tempi più recenti la falsità ha raggiunto livelli mondiali grazie all’uso della stampa. In casa, giusto per limitare gli esempi, ho le Enneadi di Plotino ma anche i sermoni del Buddha in due volumi, eppure tutti sappiamo che né Plotino né il Buddha (e nemmeno il Cristo, Maometto, il tirthankara Jaina e tutti gli altri "fondatori" di religioni) hanno scritto una sola parola. Che fossero analfabeti? I “loro” testi non sono che invenzioni postume, diventate verità colata per convenienza economica e politica delle parti interessate. Stesso discorso si può fare coi quattro vangeli attribuiti a Marco, Luca, Matteo e Giovanni, di certo non scritti dai quattro “apostoli”. In materia rinvio a Verità e menzogne della Chiesa cattolica. Come è stata manipolata la Bibbia, un saggio di Pepe Rodriguez pubblicato in Italia da Editori Riuniti, a.d. 2000.
Che la truffa piaccia “a bruti che a piè di quei monumenti stanno stupidi ruminando” (parole di Niccolò Tomaseo, nota 2 al capitolo I del libro di Romussi) lo dimostra il successo planetario di un libro probabilmente non scritto ma firmato da Dan Brown, autore di altri volumi di scarso appeal divenuti bestsellers solo dopo il successo de Il codice da Vinci, lavoro da inserire nella lotta per il potere “religioso” negli Usa ai tempi dell’imbelle presidente George Walker Bush, un alcolizzato finito nelle mani di un ambizioso prete della Chiesa cristiana evangelica.
In questo periodo sono impegnato nella trascrizione in formato Word del fascicolo 103 - inserito nel volume 10 delle Famiglie celebri di Italia di Pompeo Litta - dal titolo Torriani di Valsassina, Dottor Giulio Ferrario Editore, Milano, 1850, in folio (47 cm), 12 tavole di testo, 3 tavole incise. La Tavola IV è interamente dedicata a GUIDO, quarto e ultimo signore di Milano, e ai suoi eredi. Di un suo figlio così scrive il conte Litta:

LAMORALE. È un personaggio verosimilmente ideale. Sono alcuni d’opinione che da esso derivi la famiglia di Torquato Tasso, la quale aveva preso cognome dal soggiorno che essa aveva negli antichi tempi nella contrada detta il Cornello in Valle Brembana. Giace il Cornello in confine della Valsassina, e colà vi è il monte del Tasso così detto dall’abbondanza dei tassi. Ruggero di questa famiglia nel 1493 introdusse le poste nella Germania, e da ciò i cavalli di posta portano in fronte la pelle del tasso, e la famiglia Tasso porta la cornetta da postiglione nello stemma. Ruggero per questo servizio, dall’imperatore Massimiliano ebbe in titolo feudale il generalato delle poste dell’impero. Da lui derivò una famiglia ricchissima e potente, che si propagò nella Spagna, nelle Fiandre, in Napoli ed altri luoghi, ove gli imperatori avevano il diritto di tenere uffizio indipendente di posta, come allora si usava. In Germania i Tasso presentarono un memoriale all’imperatore Ferdinando III, col quale vollero provare di discendere dai Della Torre, o Torriani già signori di Milano, e domandavano di essere repristinati nel loro primitivo cognome. L’imperatore nel 1650, 4 dicembre diè loro un diploma, con cui li riconobbe tali e li intitolò quali essi desideravano, e obbligò i magistrati e i tribunali a fare altrettanto. Dopo il diploma i Tasso in Germania si fecero chiamare Thurn et Taxis di Valsassina. A tutto ciò prestarono assenso i conti Della Torre o Torriani del Friuli, i quali uniti in congresso in Udine, esaminarono e accettarono le prove loro presentate dai conti Tassis di Germania. Questo è il fatto, ed io a suo tempo pubblicherò la loro famiglia Tasso, la quale è, quanto sembra, affatto indipendente della famiglia Torriani. Il ramo della famiglia Tasso, da cui derivano i principi Thurn e Taxis di Germania, è da non molti anni in Bergamo estinto. I rami della casa de’ Torriani o Della Torre, che stanno in Germania si chiamano conti di Thurn.

Ecco: grazie a ricche elargizioni di prebende, Lamorale - “un personaggio verosimilmente ideale” - è diventato il riconosciuto capostipite di almeno due rami dinastici: i bergamaschi Tasso e i tedeschi Thurn und Taxis, gli inventori delle poste moderne e dei taxi, che da loro prendono il nome. Essendo in Germania, vien facile la battuta: quel che per noi è “giusta mercede”, per i teutonici diventa “giusta mercedes”. Versione Taxis.
Visto che ho citato due pezzi da novanta, Pompeo Litta e Niccolò Tommaseo, così scrive di loro un terzo nobile letterato, lo scapigliato Carlo Alberto Pisani Dossi, nelle sue gustosissime Note azzurre (edite e riedite da Adelphi):

Il conte Pompeo Litta, dilettante pittore, che fa, come dice la S.ra Confalonieri, delle magnifiche cornici a’ suoi quadri, invita un giorno a pranzo Cesare Confalonieri - per dargli pane raffermo, cacio avanzato nelle trappole, manzo buono a far scarpe - vino senz’uva, e quattro zaccherelle (mandorle spaccherelle) e 6 noci. Sulla porta intanto della sala da pranzo leggevasi scritto a grandi caratteri. «E se talor la vita partì amara - Pensa a Bokara» (dove il Litta col Meazza e il Gavazzi rimase un anno prigioniero del kan, molto kan) - E Confalonieri battendo sulla spalla del conte Pompeo… Dovresti cambiar, sai, l’iscrizione - e metterci: e se amara talor partì la vita - Pensa al pranzo del Litta.

La frase: “dilettante pittore, che fa delle magnifiche cornici a’ suoi quadri” da sola completa il discorso sulle note a piè di pagina: frasi buttate lì per dire (in questo caso): le cornici sono la veste grafica, i quadri sono i contenuti delle pubblicazioni del Litta…
E del Tommaseo? che dice di lui il Dossi nelle sue Note azzurre?

Tommaseo, egregio puttaniere. Manzoni udendo tale una sera imbrodolare di lodi il dalmatino, saltò su a dire «l’è ora de finilla con sto Tommaseo, ch’el gha on pè in sagrestia e vun in casin». Tommaseo, già attempato, entrando nell’usato bordello, chiedeva alla fantesca «c’è la candela?» Poiché il serafico poetuccio, l’autore di tanti libri di pedagogia, per eccitarsi al sagrificio venereo avea bisogno di una candela di sego nell’ano. E Tommaseo chiamava poi le mammelle «le ali dell’uccello».

Dopo aver letto quest’ultimo aneddoto, a Venezia tanti turisti mi hanno visto ridacchiare ogni volta che passo da Piazza Santo Stefano, rallegrata dalla statua del Tommaseo seduto su di una “paccata” di libri e questi, visti da una particolare angolazione, hanno fatto sì che per i veneziani doc “il dalmatino” diventasse “el cagalibri”… perché quei libri sembrano uscire dal posto dove il celebre Niccolò gradiva sentir entrare la candela…

Troppo bella la letteratura: ci si diverte, frequentandola.

© testo e foto di Giancarlo Mauri


Mario Cermenati

Niccolò Tommaseo

Pompeo Litta


prima edizione (purgata), 1964

riedizione integrale, 2010