mercoledì 18 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (4 di 4)


John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 292-306

SOTTO IL TROPICO [2]

Durante parecchi inverni che seguirono, Katy ed io passammo gran parte del nostro tempo a Key West. Non erano i Tropici, ma non era neppure troppo lontano. E nessuna prescrizione di medico ci sembrò più gradevole da seguire.
La ferrovia era stata soppressa e ora si arrivava con un ferry, che partiva dal continente, da qualche parte della costa, sotto Homestead. Bisognava prendere tre ferry separati, e poi percorrere delle strade sabbiose che attraversano le isole coperte di arbusti. Ci voleva una mezza giornata ed era un viaggio piacevolissimo; i pellicani si levavano in volo, battendo pesantemente le ali a pelo dell’acqua, piccoli uccelli volavano nel cielo, i gabbiani si dondolavano sui gavitelli, e i muggini saltavano nell’acqua biancastra dei bassifondi.
Hem ed io cominciammo a mettere giù i piani per un viaggio a Bimini, ma fummo sempre costretti, per una ragione o per l’altra, a rimandarlo. La prima volta che eravamo partiti, avevamo a mala pena raggiunto le acque viola della Corrente del Golfo che il vecchio Hem si ferì a una gamba - fortunatamente al polpaccio - col suo fucile, per sparare a un pescecane che si era avvicinato a un pesce pellegrino che qualcuno di noi stava tentando di prendere col rampone.
Fu necessario tornare per portarlo all’ospedale. Katy era arrabbiatissima; non voleva rivolgergli neppure la parola. La gamba di Hem era appena guarita, quando arrivò un pacco per lui da Oak Park. Veniva da sua madre. Conteneva un dolce di cioccolata, dei quadri della signora Hemingway, raffiguranti l’Eden, che voleva che Hem presentasse al Salon nel suo prossimo viaggio a Parigi, e il fucile col quale suo padre si era sparato. Katy, che la conosceva da molto tempo, mi aveva spiegato che la signora Hemingway era veramente una signora molto strana. Hem era l’unico uomo che io abbia conosciuto il quale odiasse veramente sua madre.
Finalmente andammo alle Bahamas, sul primo dei battelli di Hem della serie dei Pilars. La lussuosa zona di pesca che era stata creata a Cat Caty aveva fatto fallimento durante il regresso del primo boom della Florida ed era in disuso. V’era soltanto qualche battello da diporto e qualche altro che faceva la pesca sportiva, ma la piccola isola di Bimini era fuori dal mondo.
V’era una banchina, qualche capanna di indigeni sotto le palme da cocco, e uno spaccio che assomigliava a un bar, dove s’andava a bere il rum alla sera; e v’era una stupenda larga spiaggia, sulla riva lambita dalla Corrente del Golfo. In cima alle dune v’era una residenza ufficiale ed un paio di bungalows battuti dal sole, protetti contro le mosche della sabbia. Katy ed io ne occupammo uno per una settimana, per dare a Hem più spazio sul Pilar.
Avevamo cominciato a chiamare Hem il Vecchio Maestro, perché nessuno era in grado di impedirgli di dettare legge, oppure, qualche volta lo si chiamava il Mahatma, perché ci era apparso una volta, su una barca a remi, con un turbante arrotolato intorno alla testa per proteggersi dal sole. Diventava sempre più capriccioso, ma quando voleva era anche un uomo spassosissimo. La vita ci sembrava ancora a tutti una faccenda comica. Nessuno di noi era tanto matto da non godere di qualsiasi nuova mattana. Bevevamo mica male, ma solo per stare allegri. Prendevamo tutto in gran ridere.
Se non mi sbaglio, fu proprio durante questo viaggio a Bimini che per la prima volta il Vecchio Maestro andò a pesca del tonno. Aveva letto il libro di Zane Grey sulla pesca dei grandi tonni nei sette mari, che è un libro scritto sorprendentemente bene, e voleva quindi superare Zane Grey.
Avevamo preso qualche persico giovane insieme a qualche delfino color d’arcobaleno, all’incrocio della Corrente del Golfo con l’estrema parte del Canale di Hawk. Erano i primi mesi dell’anno, e tutti gli àuguri conclamavano che i tonni correvano quel tratto di mare.
L’isola divertiva un mondo sia Katy che me. Non ci stancavamo mai di passeggiare sulla spiaggia e di osservare il va e vieni dei gamberi che correvano fra le noci di cocco cadute a terra, come dei corridori. Facevamo una quantità di bagni sulla grande spiaggia, nella dolce risacca. Hem era pieno di sprezzo per la nostra collezione di conchiglie.
Ci impossessammo di un simpatico negro, grande narratore di storie, che aveva una piccola barca a vela e ci portava a navigare nelle acque un po’ melmose del Grande Bahama Banck, a pescare la bonite sui bassifondi, fra i banchi di corallo.
Il Mahatma aveva l’abitudine di prenderci in giro per il nostro gusto alle gite in barca a remi, cosa che, diceva, la gente fa prima del matrimonio, non dopo.
I negri di Bimini erano molto divertenti. Inventavano canzoni intorno a qualsiasi evento della giornata. Ogni piccolo lavoro, come il tirare a secco una barca, diventava un evento corale. Fu allora che, per la prima volta, udimmo questa canzone:

La mia mamma non vuole piselli né riso
non vuole olio di cocco.
Ciò che vuole la mia mamma
è brandy a garganella, e champagne.

Inventarono presto dei canti anche intorno al vecchio Hem. Vorrei ricordarne le parole. Tutti i miei ricordi di quella settimana sono punteggiati dei ritmi delle canzoni di Bimini.
In ogni caso, mentre Katy ed io, svergognatamente, facevamo i turisti per l’isola, navigando, remando e passeggiando - tutte occupazioni snobbate dai pescatori seri - il Vecchio Maestro setacciava l’Oceano.
S’era portato tutto l’armamentario per la pesca al tonno e pescava con quella implacabile, persistente impazienza che gli era propria.
Noi eravamo a terra, quando il Vecchio Maestro sostenne la prima battaglia col suo primo grande tonno. Era stato uncinato di primo mattino da un uomo che si chiamava Cook e che era il guardiano di Cat Gay.
Doveva essere un pesce enorme perché, non appena si tuffò, fu necessario dargli tutta la corda possibile. Le mani di Cook erano ferite, squarciate, quando passò la lenza a Ernest che aveva accostato con il Pilar, nel primo pomeriggio. Hem continuò, sulla barca di Cook, e mandò il Pilar a prenderci, di modo che anche noi potessimo assistere alla partita. Ho dimenticato chi fosse alla barra, ma mentre la battaglia continuava, noi seguivamo a velocità ridotta.
Fra il gruppo degli yachtsmen v’era un signore che aveva un grande yacht bianco che si chiamava Moana. William B. Leeds, di una famiglia famosa nel giro internazionale, aveva invitato il Vecchio Maestro a bordo per un drink, un paio di giorni prima. Il Vecchio Maestro era venuto via affascinato dall’ospitalità di Bill Leeds, ma ancor più affascinato dal fatto che Leeds possedeva un fucile mitragliatore Thompson. Proprio in quel momento, un fucile era quanto il Vecchio Maestro desiderava più di ogni altra cosa al mondo.
Fin da ragazzo aveva amato le armi da fuoco, ma ora aveva un interesse tutto speciale per il fucile mitragliatore, perché l’averlo gli avrebbe permesso di combattere gli squali. Bimini era infestata di squali in quella stagione. Venivano fin quasi sulla spiaggia a molestarci, ma soprattutto avevano un modo esasperante di portarti via un pesce già uncinato, proprio mentre tu stavi per portartelo in barca. Il Vecchio Maestro aveva tentato di beccarli a colpi di fucile. Ma, salvo nel caso li si colpisse proprio nel loro piccolo cervello, un colpo di fucile faceva ben poca impressione sul corpo di uno squalo. La notte precedente al giorno nel quale incontrammo il grande tonno, aveva tentato di escogitare ogni sorta di espedienti per indurre Leeds, fra una bevuta e l’altra, a separarsi dal suo fucile mitragliatore. Gli aveva proposto di giocarselo a testa e croce, a poker, o al tiro al piattello. Credo che gli abbia anche offerto di comperarlo. Ma Leeds non ne voleva sapere, era attaccato al suo fucile che, mi disse più tardi, gli era stato regalato dal figlio dell’inventore, che era un buon amico.
Era oramai pomeriggio avanzato quando Katy ed io arrivammo sulla scena del combattimento. Al crepuscolo il tonno cominciò a diventare più debole. Il Vecchio Maestro cominciò a far rientrare il filo. Tutti intorno al filo eravamo molto eccitati all’idea di assistere all’uccisione del tonno. V’era un cerchio di spettatori, ciascuno sulla propria barca, tutto intorno a noi, compreso Leeds col suo fucile, sulla lancia del Moana.
Scendeva la notte. Il vento era caduto, ma all’orizzonte cominciava a manifestarsi una tempesta. Nell’ultima luce del tramonto il Vecchio Maestro fece avanzare lentamente il pesce lungo la barca. Nessuno lo aveva ancora visto. Un uomo era pronto col rampone. Il resto della compagnia, stretti tutti sul tetto della cabina del Pilar, faceva luce sull’acqua con le lampade da tasca.
Improvvisamente lo vedemmo, scuro, immenso, argenteo. Ottocento libbre, novecento, mille, a bassa voce tutti facevano le loro osservazioni, campate in aria. Per parte mia, sapevo soltanto che si trattava di un pesce enorme. Si muoveva lentamente. Sembrava sfinito. L’uomo che teneva l’arpione diede un colpo e lo mancò. Il lampo argenteo sparì. Il mulino del filo miagolò e il pesce si tuffò di nuovo.
Il Vecchio Maestro cominciò a sacramentare sibilando e vociando. Il pesce prese metà del filo; poi il Vecchio Maestro ricominciò a ritirarlo. Qualcosa non andava. Qualcuno suggerì che poteva darsi il pesce fosse morto. Bill Leeds aveva tenuto alla larga gli squali con il suo fucile mitragliatore, ma ora aveva dovuto abbandonare il campo, per paura che un rimbalzo delle pallottole potesse ferire qualcuno. Il Vecchio Maestro continuava a ritirare il filo.
Le nuvole tempestose avevano divorato un terzo del cielo stellato. I lampi modulavano la loro luce ai bordi. La maggior parte delle piccole barche era tornata a riva.
Leeds, dalla sua lancia, ci invitava a venire al riparo sul suo yacht, ma il Vecchio Maestro continuava ostinatamente a ritirare il suo filo. Alla fine, in uno sciacquio vasto d’argento e di spuma, il tonno venne alla superficie a dieci o quindici iarde di distanza dalla barca. Gli squali non lo avevano toccato. Lo potevamo vedere, levigato e maestoso, in tutta la sua lunghezza. Il Vecchio Maestro arrotolava il suo filo a grande velocità; improvvisamente vennero. Nella luce delle nostre lampade potevamo vedere i pescicani screziare l’acqua scura. Come dei siluri. Come motolance. Uno attaccò. Un altro. Un altro. L’acqua divenne scura di sangue. Quando riuscimmo infine a issare a bordo il tonno, non v’era più altro che la testa, la spina centrale e la coda.
Riuscire a portare a bordo del Moana me e Katy fu una vera vittoria, per il Vecchio Hem. Aveva cercato di farsi amico Leeds, forse per il fucile, forse anche perché rispettava la sua grande fortuna. Katy detestava il povero Leeds e di­chiarò che, piuttosto di imbarcarsi sulla sua barca, sarebbe morta. Nel loro gruppo c’era un vecchio spagnolo untuoso e abbastanza equivoco, che noi chiamavamo Don Propina. Tutti e due lo avevamo in antipatia. In ogni caso Ernest vinse. La tempesta divenne così violenta che, volenti o nolenti, non c’era altro da fare che rifugiarsi a bordo della sua imbarcazione. Ci arrampicammo per la scaletta quando già cominciava il primo scroscio di pioggia, che scendeva fitta, quasi orizzontalmente, e ci sedemmo bagnati fradici ad asciugarci sotto le bocche di ventilazione della sala. Ci buscammo, tutti e due, un bel raffreddore di testa, meritata lezione di umiltà.
Leeds, ospitalmente, ci diede ricovero per la notte. Ci ritirammo presto, di modo che non siamo mai riusciti a sapere esattamente come sia andata la faccenda; ma quando, all’alba del mattino dopo, nella luce magnifica, sbarcammo dallo yacht, il Vecchio Maestro teneva l’amato fucile, stretto al petto, fra le braccia.
Senza dubbio Leeds glielo aveva prestato, perché più tardi mi scrisse che non lo aveva regalato a Hem se non due anni dopo, quando il Vecchio Maestro stava per partire per la Spagna, per la guerra civile. A Leeds, fece piacere che l’episodio che avevamo vissuto insieme divenisse il canovaccio del Vecchio e il mare anche se le storie che i nativi delle Isole Canarie avevano raccontato a Hem all’Avana devono assai probabilmente aver giocato, nel racconto, la loro parte. Nessuno certo aveva mai avuto la mano più felice di Hem, nel tentativo di raccontare, approfondendone le radici, una storia di pesca.
[...]
Fu probabilmente durante la primavera successiva che Hem, Waldo ed io affittammo la barca di Bra per andare alle Isole Tortugas. Situate all’estremità occidentale dell’arcipelago delle isole coralline, costituiscono i Keys della Florida. Avevamo fatto il lungo, tempestoso viaggio attraverso i bassifondi, nella speranza d’incappare in uno dei banchi di quei grandi macarelli che, in primavera, si dirigono a nord-est lasciandosi alle spalle il Golfo del Messico. Invece non prendemmo che poco pesce di grande taglia.
Waldo mise il suo cavalletto su una delle fenditure del vasto forte di pietra e là dipingeva. Io mi rifugiai con la mia branda da campo e il mio quaderno in un altro angolo ombroso. Il sole era caldo, l’aliseo era fresco. Il luogo enorme e completamente vuoto.
Ad ogni istante ci si aspettava di vedere uscire da un tumulo il povero vecchio dottor Mudd. Nessun suono, eccetto il querulo strillare delle rondini marine. L’acqua era incredibilmente chiara, delizioso nuotarvi. Non vedemmo né squali né barracuda, soltanto una grande varietà di pesci di roccia, sogliole, persico di mare, triglie, gran quantità di piccole creature delle quali ignoravamo il nome, che si affollavano come gioielli sotto i banchi di corallo.
Un paio di giorni filarono via: fu una delle occasioni in cui compresi il significato della parola alcione. Ernest aveva portato con sé Arnold Gingrich, che aveva lanciato l’«Esquire». Costui si comportava come uno in trance. Questo era un mondo che lui non aveva neppure mai sognato esistesse. Divorato dalle zanzare, sofferente per il mal di mare, bruciato dal sole, inebetito, mezzo sgomento e mezzo beato, era divertente vedere Hem lavorarsi un redattore capo, quanto era divertente vederlo pescare un grande pesce.
Gingrich non distolse mai i suoi occhi affascinati da Hem. Hem arrotolava lentamente il filo, lasciandone abbastanza alla sua vittima. Il redattore capo era uncinato. Naturalmente pubblicherà tutto ciò che Hemingway gli manderà, a mille dollari il pezzo. (A quel tempo nessuno di noi sapeva che avrebbe potuto guadagnare molto di più. Vivevamo lungi dall’ambiente degli agenti letterari e dei grandi pranzi letterari di New York). Ernest stava affinando gli strumenti, che gli avrebbero più tardi permesso di entrare a far parte dell’alta finanza letteraria. Avvolse tanto abilmente Gingrich, che gli vendette anche alcuni miei pezzi, in soprappiù.
Nel frattempo Bra passava il suo tempo a raccogliere conchiglie. I turisti avevano fatto la loro apparizione a Key West. Bra aveva scoperto, con suo gran stupore, che comperavano volentieri le grandi conchiglie rosa e dentellate. Ne aveva la prua della sua barca piena. La notte prima che ripartissimo per Key West, ci fece la migliore zuppa di molluschi che io abbia mai mangiato. Insieme a sogliole fritte, condite con una specie di salsa in salamoia e limone, che lui chiamava Old Sour, costituì un vero festino da re. Irrorammo il tutto con una buona dose di rum Baccardi.
Avevamo accostato a riva, dalla parte opposta al forte. Mentre stavamo mangiando e bevendo, un paio di barche da pesca cubane, che avevano pescato il persico rosso nelle acque fonde, ci accostò. Era gente gagliarda, abbronzata, trasandata e cordiale.
Passammo loro bicchierotti di Baccardi. Lo spagnolo di Hem era diventato nel frattempo molto fluente. Dalla barba di Waldo usciva invece un miscuglio di francese, italiano e castigliano spurio, che gli era servito per anni attraverso tutti i Paesi del Mediterraneo. Bra, che sdegnava le lingue straniere, esprimeva a gesti e grugniti la sua cordialità. Gingrich seduto senza parlare, gli occhi rotondi dallo stupore, ci guardava saltellare come scimmie da una barca all’altra.
Vi furono da raccontare episodi di forza, favole di grandi pesci azzurri uncinati e perduti, di coccodrilli avvistati nel Golfo, di serpenti a sonagli lunghi venti piedi, visti nuotare nei canali verso il mare. La notte calò senza vento. Non v’era luna. I nostri amici si allontanarono, si ancorarono a qualche centinaio di metri da noi, e si ritirarono. Noi lasciammo la riva, alla ricerca di un po’ di vento. Le stelle sembravano grosse come palloncini di Natale, si addensavano sulle nostre teste e si riflettevano nel mare. I tre piccoli battelli sembravano sospesi nel mezzo di un’enorme sfera di vetro azzurra, punteggiata di stelle.
Faceva caldo in cabina. Prostrati dalla calura e dal Baccardi, giacevamo molli di sudore nelle nostre strette cuccette. Il sonno venne in un lampo di arsura.
Fummo svegliati da un bussare sul ponte. Era il più vecchio dei nostri amici cubani, coi capelli grigi, ed era il padrone di una delle barche da pesca. «Amigos, para despedirnos». Gli occhi rossi, le teste pesanti come il piombo, ci arrampicammo sul ponte.
Ci indicò qualcosa. Contro la prima striscia viola di luce a oriente, potevamo distinguere la sagoma di un uomo, sulla prua della barca, che mescolava un qualche liquido in un grande recipiente di vetro. Tornavano all’Avana con la prima brezza. Volevano farci onore con un brindisi di addio, prima di partire.
Passammo tutti sulla stretta passerella di legno dell’imbarcadero. Naturalmente non c’era ghiaccio. La bevanda era quindi tepida, uno zabaglione fatto con dell’aguardiente di poco prezzo che aveva odore d’alcool di legno. Cavammo fuori le nostre coppe di stagno. Eravamo oramai alle strette. Ci sentivamo delicatini in quel momento. La bevanda ci dava il vomito. Ma non potevamo far torto ai nostri amici. Magari morire, ma erano amici e bevemmo.
Fu allora che Ernest portò fuori il suo fucile e cominciò a sparare. Il cielo s’inargentava. Già si sentiva l’ardore del sole oltre l’orizzonte. Tirò a una cassetta di fagioli che galleggiava a metà strada, verso la riva. Lanciammo altre cassette. Tirò anche a pezzi di carta che i cubani gettarono sopra dei legni, dalle loro imbarcazioni. Sparò a parecchie rondini marine. Sparò anche a un palo sulla riva. Sparava a tutto ciò che gli s’indicava. Sparava seduto, in piedi, sdraiato sul ventre. Sparava indietro, e col fucile fra le gambe.
Per quanto ne riuscivamo a vedere, non mancò un colpo. Finalmente fu a corto di munizioni. Bevemmo l’ultimo punch dei pescatori. Gli amigos ci strinsero la mano. Gli amigos ci fecero gesti di addio. Levarono le ancore, issarono le loro vele sporche e veleggiarono, cercando di sfruttare al massimo i primi aliti dell’aliseo, che smuoveva la calura, verso oriente.
Noi prendemmo la direzione di Key West. Sulla via del ritorno incontrammo sui banchi una pesante risacca. Quel poco vento che c’era spirava in poppa. Le conchiglie di Bra avevano cominciato a marcire e puzzavano orribilmente. Il punch ci infastidiva. Avevamo la faccia verde. Avevamo le labbra fredde. Nessuno vomitò subito, ma tutti insieme eravamo una ciurma ben pallida e silenziosa; fino a che raggiungemmo sotto vento le prime basse file di mangli, che stanno nei pressi di Key West.
[...]
Ernest e Pauline si erano comperati una graziosa vecchia casa, con il soffitto alto, a Key West. Pauline era sempre molto divertente, Gigi e il Topolino Messicano erano graziosissimi, ma i rapporti fra me e Ernest diventavano sempre meno facili.
Credo che la colpa sia da dividersi in parti uguali fra me e lui. Katy ed io ne ascrivemmo la responsabilità alle ambizioni letterarie. Il famoso autore, il grande pescatore, il potente cacciatore africano: noi cercavamo scherzosamente di smontarlo. Lo prendevamo in giro non poco, soprattutto le sere nelle quali aveva mal di gola e doveva andarsene a letto prima di cena; gli portavamo da bere a letto e mangiavamo la nostra cena, con i piatti in mano, in camera sua. Lo si chiamava «le lit royal». Non ho mai conosciuto un uomo vigoroso e atletico che passasse tanto tempo a letto, come faceva Ernest. V’erano momenti nei quali le nuvole si rischiaravano e tutto ritornava come ai vecchi tempi. Per esempio, le interminabili cene, a Madrid, ben irrorate, assieme a Claude Bowers, al Botin.
[...]
Katy ed io arrivammo a Key West un bel giorno e trovammo che qualche imbecille di scultore aveva fatto un busto di Ernest. Un calco in gesso stava nel bel mezzo della sala d’entrata. Era un busto orribile. Sembrava di sapone. Non riuscimmo a trattenerci, a tutta prima, dal ridere. Non potevamo immaginare che Ernest invece l’aveva preso sul serio. Durante quell’inverno io avevo preso l’abitudine di mettere, quando entravo, il mio cappello di panama sulla testa del busto. Ernest un giorno mi sorprese. Mi lanciò un’occhiataccia e tolse il cappello dalla testa del busto. Fu imbronciato per tutto il giorno. Nessuno di noi ne fece parola. Ma dopo questo episodio le cose fra di noi non andarono più allo stesso modo di prima.

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