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mercoledì 18 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (4 di 4)


John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 292-306

SOTTO IL TROPICO [2]

Durante parecchi inverni che seguirono, Katy ed io passammo gran parte del nostro tempo a Key West. Non erano i Tropici, ma non era neppure troppo lontano. E nessuna prescrizione di medico ci sembrò più gradevole da seguire.
La ferrovia era stata soppressa e ora si arrivava con un ferry, che partiva dal continente, da qualche parte della costa, sotto Homestead. Bisognava prendere tre ferry separati, e poi percorrere delle strade sabbiose che attraversano le isole coperte di arbusti. Ci voleva una mezza giornata ed era un viaggio piacevolissimo; i pellicani si levavano in volo, battendo pesantemente le ali a pelo dell’acqua, piccoli uccelli volavano nel cielo, i gabbiani si dondolavano sui gavitelli, e i muggini saltavano nell’acqua biancastra dei bassifondi.
Hem ed io cominciammo a mettere giù i piani per un viaggio a Bimini, ma fummo sempre costretti, per una ragione o per l’altra, a rimandarlo. La prima volta che eravamo partiti, avevamo a mala pena raggiunto le acque viola della Corrente del Golfo che il vecchio Hem si ferì a una gamba - fortunatamente al polpaccio - col suo fucile, per sparare a un pescecane che si era avvicinato a un pesce pellegrino che qualcuno di noi stava tentando di prendere col rampone.
Fu necessario tornare per portarlo all’ospedale. Katy era arrabbiatissima; non voleva rivolgergli neppure la parola. La gamba di Hem era appena guarita, quando arrivò un pacco per lui da Oak Park. Veniva da sua madre. Conteneva un dolce di cioccolata, dei quadri della signora Hemingway, raffiguranti l’Eden, che voleva che Hem presentasse al Salon nel suo prossimo viaggio a Parigi, e il fucile col quale suo padre si era sparato. Katy, che la conosceva da molto tempo, mi aveva spiegato che la signora Hemingway era veramente una signora molto strana. Hem era l’unico uomo che io abbia conosciuto il quale odiasse veramente sua madre.
Finalmente andammo alle Bahamas, sul primo dei battelli di Hem della serie dei Pilars. La lussuosa zona di pesca che era stata creata a Cat Caty aveva fatto fallimento durante il regresso del primo boom della Florida ed era in disuso. V’era soltanto qualche battello da diporto e qualche altro che faceva la pesca sportiva, ma la piccola isola di Bimini era fuori dal mondo.
V’era una banchina, qualche capanna di indigeni sotto le palme da cocco, e uno spaccio che assomigliava a un bar, dove s’andava a bere il rum alla sera; e v’era una stupenda larga spiaggia, sulla riva lambita dalla Corrente del Golfo. In cima alle dune v’era una residenza ufficiale ed un paio di bungalows battuti dal sole, protetti contro le mosche della sabbia. Katy ed io ne occupammo uno per una settimana, per dare a Hem più spazio sul Pilar.
Avevamo cominciato a chiamare Hem il Vecchio Maestro, perché nessuno era in grado di impedirgli di dettare legge, oppure, qualche volta lo si chiamava il Mahatma, perché ci era apparso una volta, su una barca a remi, con un turbante arrotolato intorno alla testa per proteggersi dal sole. Diventava sempre più capriccioso, ma quando voleva era anche un uomo spassosissimo. La vita ci sembrava ancora a tutti una faccenda comica. Nessuno di noi era tanto matto da non godere di qualsiasi nuova mattana. Bevevamo mica male, ma solo per stare allegri. Prendevamo tutto in gran ridere.
Se non mi sbaglio, fu proprio durante questo viaggio a Bimini che per la prima volta il Vecchio Maestro andò a pesca del tonno. Aveva letto il libro di Zane Grey sulla pesca dei grandi tonni nei sette mari, che è un libro scritto sorprendentemente bene, e voleva quindi superare Zane Grey.
Avevamo preso qualche persico giovane insieme a qualche delfino color d’arcobaleno, all’incrocio della Corrente del Golfo con l’estrema parte del Canale di Hawk. Erano i primi mesi dell’anno, e tutti gli àuguri conclamavano che i tonni correvano quel tratto di mare.
L’isola divertiva un mondo sia Katy che me. Non ci stancavamo mai di passeggiare sulla spiaggia e di osservare il va e vieni dei gamberi che correvano fra le noci di cocco cadute a terra, come dei corridori. Facevamo una quantità di bagni sulla grande spiaggia, nella dolce risacca. Hem era pieno di sprezzo per la nostra collezione di conchiglie.
Ci impossessammo di un simpatico negro, grande narratore di storie, che aveva una piccola barca a vela e ci portava a navigare nelle acque un po’ melmose del Grande Bahama Banck, a pescare la bonite sui bassifondi, fra i banchi di corallo.
Il Mahatma aveva l’abitudine di prenderci in giro per il nostro gusto alle gite in barca a remi, cosa che, diceva, la gente fa prima del matrimonio, non dopo.
I negri di Bimini erano molto divertenti. Inventavano canzoni intorno a qualsiasi evento della giornata. Ogni piccolo lavoro, come il tirare a secco una barca, diventava un evento corale. Fu allora che, per la prima volta, udimmo questa canzone:

La mia mamma non vuole piselli né riso
non vuole olio di cocco.
Ciò che vuole la mia mamma
è brandy a garganella, e champagne.

Inventarono presto dei canti anche intorno al vecchio Hem. Vorrei ricordarne le parole. Tutti i miei ricordi di quella settimana sono punteggiati dei ritmi delle canzoni di Bimini.
In ogni caso, mentre Katy ed io, svergognatamente, facevamo i turisti per l’isola, navigando, remando e passeggiando - tutte occupazioni snobbate dai pescatori seri - il Vecchio Maestro setacciava l’Oceano.
S’era portato tutto l’armamentario per la pesca al tonno e pescava con quella implacabile, persistente impazienza che gli era propria.
Noi eravamo a terra, quando il Vecchio Maestro sostenne la prima battaglia col suo primo grande tonno. Era stato uncinato di primo mattino da un uomo che si chiamava Cook e che era il guardiano di Cat Gay.
Doveva essere un pesce enorme perché, non appena si tuffò, fu necessario dargli tutta la corda possibile. Le mani di Cook erano ferite, squarciate, quando passò la lenza a Ernest che aveva accostato con il Pilar, nel primo pomeriggio. Hem continuò, sulla barca di Cook, e mandò il Pilar a prenderci, di modo che anche noi potessimo assistere alla partita. Ho dimenticato chi fosse alla barra, ma mentre la battaglia continuava, noi seguivamo a velocità ridotta.
Fra il gruppo degli yachtsmen v’era un signore che aveva un grande yacht bianco che si chiamava Moana. William B. Leeds, di una famiglia famosa nel giro internazionale, aveva invitato il Vecchio Maestro a bordo per un drink, un paio di giorni prima. Il Vecchio Maestro era venuto via affascinato dall’ospitalità di Bill Leeds, ma ancor più affascinato dal fatto che Leeds possedeva un fucile mitragliatore Thompson. Proprio in quel momento, un fucile era quanto il Vecchio Maestro desiderava più di ogni altra cosa al mondo.
Fin da ragazzo aveva amato le armi da fuoco, ma ora aveva un interesse tutto speciale per il fucile mitragliatore, perché l’averlo gli avrebbe permesso di combattere gli squali. Bimini era infestata di squali in quella stagione. Venivano fin quasi sulla spiaggia a molestarci, ma soprattutto avevano un modo esasperante di portarti via un pesce già uncinato, proprio mentre tu stavi per portartelo in barca. Il Vecchio Maestro aveva tentato di beccarli a colpi di fucile. Ma, salvo nel caso li si colpisse proprio nel loro piccolo cervello, un colpo di fucile faceva ben poca impressione sul corpo di uno squalo. La notte precedente al giorno nel quale incontrammo il grande tonno, aveva tentato di escogitare ogni sorta di espedienti per indurre Leeds, fra una bevuta e l’altra, a separarsi dal suo fucile mitragliatore. Gli aveva proposto di giocarselo a testa e croce, a poker, o al tiro al piattello. Credo che gli abbia anche offerto di comperarlo. Ma Leeds non ne voleva sapere, era attaccato al suo fucile che, mi disse più tardi, gli era stato regalato dal figlio dell’inventore, che era un buon amico.
Era oramai pomeriggio avanzato quando Katy ed io arrivammo sulla scena del combattimento. Al crepuscolo il tonno cominciò a diventare più debole. Il Vecchio Maestro cominciò a far rientrare il filo. Tutti intorno al filo eravamo molto eccitati all’idea di assistere all’uccisione del tonno. V’era un cerchio di spettatori, ciascuno sulla propria barca, tutto intorno a noi, compreso Leeds col suo fucile, sulla lancia del Moana.
Scendeva la notte. Il vento era caduto, ma all’orizzonte cominciava a manifestarsi una tempesta. Nell’ultima luce del tramonto il Vecchio Maestro fece avanzare lentamente il pesce lungo la barca. Nessuno lo aveva ancora visto. Un uomo era pronto col rampone. Il resto della compagnia, stretti tutti sul tetto della cabina del Pilar, faceva luce sull’acqua con le lampade da tasca.
Improvvisamente lo vedemmo, scuro, immenso, argenteo. Ottocento libbre, novecento, mille, a bassa voce tutti facevano le loro osservazioni, campate in aria. Per parte mia, sapevo soltanto che si trattava di un pesce enorme. Si muoveva lentamente. Sembrava sfinito. L’uomo che teneva l’arpione diede un colpo e lo mancò. Il lampo argenteo sparì. Il mulino del filo miagolò e il pesce si tuffò di nuovo.
Il Vecchio Maestro cominciò a sacramentare sibilando e vociando. Il pesce prese metà del filo; poi il Vecchio Maestro ricominciò a ritirarlo. Qualcosa non andava. Qualcuno suggerì che poteva darsi il pesce fosse morto. Bill Leeds aveva tenuto alla larga gli squali con il suo fucile mitragliatore, ma ora aveva dovuto abbandonare il campo, per paura che un rimbalzo delle pallottole potesse ferire qualcuno. Il Vecchio Maestro continuava a ritirare il filo.
Le nuvole tempestose avevano divorato un terzo del cielo stellato. I lampi modulavano la loro luce ai bordi. La maggior parte delle piccole barche era tornata a riva.
Leeds, dalla sua lancia, ci invitava a venire al riparo sul suo yacht, ma il Vecchio Maestro continuava ostinatamente a ritirare il suo filo. Alla fine, in uno sciacquio vasto d’argento e di spuma, il tonno venne alla superficie a dieci o quindici iarde di distanza dalla barca. Gli squali non lo avevano toccato. Lo potevamo vedere, levigato e maestoso, in tutta la sua lunghezza. Il Vecchio Maestro arrotolava il suo filo a grande velocità; improvvisamente vennero. Nella luce delle nostre lampade potevamo vedere i pescicani screziare l’acqua scura. Come dei siluri. Come motolance. Uno attaccò. Un altro. Un altro. L’acqua divenne scura di sangue. Quando riuscimmo infine a issare a bordo il tonno, non v’era più altro che la testa, la spina centrale e la coda.
Riuscire a portare a bordo del Moana me e Katy fu una vera vittoria, per il Vecchio Hem. Aveva cercato di farsi amico Leeds, forse per il fucile, forse anche perché rispettava la sua grande fortuna. Katy detestava il povero Leeds e di­chiarò che, piuttosto di imbarcarsi sulla sua barca, sarebbe morta. Nel loro gruppo c’era un vecchio spagnolo untuoso e abbastanza equivoco, che noi chiamavamo Don Propina. Tutti e due lo avevamo in antipatia. In ogni caso Ernest vinse. La tempesta divenne così violenta che, volenti o nolenti, non c’era altro da fare che rifugiarsi a bordo della sua imbarcazione. Ci arrampicammo per la scaletta quando già cominciava il primo scroscio di pioggia, che scendeva fitta, quasi orizzontalmente, e ci sedemmo bagnati fradici ad asciugarci sotto le bocche di ventilazione della sala. Ci buscammo, tutti e due, un bel raffreddore di testa, meritata lezione di umiltà.
Leeds, ospitalmente, ci diede ricovero per la notte. Ci ritirammo presto, di modo che non siamo mai riusciti a sapere esattamente come sia andata la faccenda; ma quando, all’alba del mattino dopo, nella luce magnifica, sbarcammo dallo yacht, il Vecchio Maestro teneva l’amato fucile, stretto al petto, fra le braccia.
Senza dubbio Leeds glielo aveva prestato, perché più tardi mi scrisse che non lo aveva regalato a Hem se non due anni dopo, quando il Vecchio Maestro stava per partire per la Spagna, per la guerra civile. A Leeds, fece piacere che l’episodio che avevamo vissuto insieme divenisse il canovaccio del Vecchio e il mare anche se le storie che i nativi delle Isole Canarie avevano raccontato a Hem all’Avana devono assai probabilmente aver giocato, nel racconto, la loro parte. Nessuno certo aveva mai avuto la mano più felice di Hem, nel tentativo di raccontare, approfondendone le radici, una storia di pesca.
[...]
Fu probabilmente durante la primavera successiva che Hem, Waldo ed io affittammo la barca di Bra per andare alle Isole Tortugas. Situate all’estremità occidentale dell’arcipelago delle isole coralline, costituiscono i Keys della Florida. Avevamo fatto il lungo, tempestoso viaggio attraverso i bassifondi, nella speranza d’incappare in uno dei banchi di quei grandi macarelli che, in primavera, si dirigono a nord-est lasciandosi alle spalle il Golfo del Messico. Invece non prendemmo che poco pesce di grande taglia.
Waldo mise il suo cavalletto su una delle fenditure del vasto forte di pietra e là dipingeva. Io mi rifugiai con la mia branda da campo e il mio quaderno in un altro angolo ombroso. Il sole era caldo, l’aliseo era fresco. Il luogo enorme e completamente vuoto.
Ad ogni istante ci si aspettava di vedere uscire da un tumulo il povero vecchio dottor Mudd. Nessun suono, eccetto il querulo strillare delle rondini marine. L’acqua era incredibilmente chiara, delizioso nuotarvi. Non vedemmo né squali né barracuda, soltanto una grande varietà di pesci di roccia, sogliole, persico di mare, triglie, gran quantità di piccole creature delle quali ignoravamo il nome, che si affollavano come gioielli sotto i banchi di corallo.
Un paio di giorni filarono via: fu una delle occasioni in cui compresi il significato della parola alcione. Ernest aveva portato con sé Arnold Gingrich, che aveva lanciato l’«Esquire». Costui si comportava come uno in trance. Questo era un mondo che lui non aveva neppure mai sognato esistesse. Divorato dalle zanzare, sofferente per il mal di mare, bruciato dal sole, inebetito, mezzo sgomento e mezzo beato, era divertente vedere Hem lavorarsi un redattore capo, quanto era divertente vederlo pescare un grande pesce.
Gingrich non distolse mai i suoi occhi affascinati da Hem. Hem arrotolava lentamente il filo, lasciandone abbastanza alla sua vittima. Il redattore capo era uncinato. Naturalmente pubblicherà tutto ciò che Hemingway gli manderà, a mille dollari il pezzo. (A quel tempo nessuno di noi sapeva che avrebbe potuto guadagnare molto di più. Vivevamo lungi dall’ambiente degli agenti letterari e dei grandi pranzi letterari di New York). Ernest stava affinando gli strumenti, che gli avrebbero più tardi permesso di entrare a far parte dell’alta finanza letteraria. Avvolse tanto abilmente Gingrich, che gli vendette anche alcuni miei pezzi, in soprappiù.
Nel frattempo Bra passava il suo tempo a raccogliere conchiglie. I turisti avevano fatto la loro apparizione a Key West. Bra aveva scoperto, con suo gran stupore, che comperavano volentieri le grandi conchiglie rosa e dentellate. Ne aveva la prua della sua barca piena. La notte prima che ripartissimo per Key West, ci fece la migliore zuppa di molluschi che io abbia mai mangiato. Insieme a sogliole fritte, condite con una specie di salsa in salamoia e limone, che lui chiamava Old Sour, costituì un vero festino da re. Irrorammo il tutto con una buona dose di rum Baccardi.
Avevamo accostato a riva, dalla parte opposta al forte. Mentre stavamo mangiando e bevendo, un paio di barche da pesca cubane, che avevano pescato il persico rosso nelle acque fonde, ci accostò. Era gente gagliarda, abbronzata, trasandata e cordiale.
Passammo loro bicchierotti di Baccardi. Lo spagnolo di Hem era diventato nel frattempo molto fluente. Dalla barba di Waldo usciva invece un miscuglio di francese, italiano e castigliano spurio, che gli era servito per anni attraverso tutti i Paesi del Mediterraneo. Bra, che sdegnava le lingue straniere, esprimeva a gesti e grugniti la sua cordialità. Gingrich seduto senza parlare, gli occhi rotondi dallo stupore, ci guardava saltellare come scimmie da una barca all’altra.
Vi furono da raccontare episodi di forza, favole di grandi pesci azzurri uncinati e perduti, di coccodrilli avvistati nel Golfo, di serpenti a sonagli lunghi venti piedi, visti nuotare nei canali verso il mare. La notte calò senza vento. Non v’era luna. I nostri amici si allontanarono, si ancorarono a qualche centinaio di metri da noi, e si ritirarono. Noi lasciammo la riva, alla ricerca di un po’ di vento. Le stelle sembravano grosse come palloncini di Natale, si addensavano sulle nostre teste e si riflettevano nel mare. I tre piccoli battelli sembravano sospesi nel mezzo di un’enorme sfera di vetro azzurra, punteggiata di stelle.
Faceva caldo in cabina. Prostrati dalla calura e dal Baccardi, giacevamo molli di sudore nelle nostre strette cuccette. Il sonno venne in un lampo di arsura.
Fummo svegliati da un bussare sul ponte. Era il più vecchio dei nostri amici cubani, coi capelli grigi, ed era il padrone di una delle barche da pesca. «Amigos, para despedirnos». Gli occhi rossi, le teste pesanti come il piombo, ci arrampicammo sul ponte.
Ci indicò qualcosa. Contro la prima striscia viola di luce a oriente, potevamo distinguere la sagoma di un uomo, sulla prua della barca, che mescolava un qualche liquido in un grande recipiente di vetro. Tornavano all’Avana con la prima brezza. Volevano farci onore con un brindisi di addio, prima di partire.
Passammo tutti sulla stretta passerella di legno dell’imbarcadero. Naturalmente non c’era ghiaccio. La bevanda era quindi tepida, uno zabaglione fatto con dell’aguardiente di poco prezzo che aveva odore d’alcool di legno. Cavammo fuori le nostre coppe di stagno. Eravamo oramai alle strette. Ci sentivamo delicatini in quel momento. La bevanda ci dava il vomito. Ma non potevamo far torto ai nostri amici. Magari morire, ma erano amici e bevemmo.
Fu allora che Ernest portò fuori il suo fucile e cominciò a sparare. Il cielo s’inargentava. Già si sentiva l’ardore del sole oltre l’orizzonte. Tirò a una cassetta di fagioli che galleggiava a metà strada, verso la riva. Lanciammo altre cassette. Tirò anche a pezzi di carta che i cubani gettarono sopra dei legni, dalle loro imbarcazioni. Sparò a parecchie rondini marine. Sparò anche a un palo sulla riva. Sparava a tutto ciò che gli s’indicava. Sparava seduto, in piedi, sdraiato sul ventre. Sparava indietro, e col fucile fra le gambe.
Per quanto ne riuscivamo a vedere, non mancò un colpo. Finalmente fu a corto di munizioni. Bevemmo l’ultimo punch dei pescatori. Gli amigos ci strinsero la mano. Gli amigos ci fecero gesti di addio. Levarono le ancore, issarono le loro vele sporche e veleggiarono, cercando di sfruttare al massimo i primi aliti dell’aliseo, che smuoveva la calura, verso oriente.
Noi prendemmo la direzione di Key West. Sulla via del ritorno incontrammo sui banchi una pesante risacca. Quel poco vento che c’era spirava in poppa. Le conchiglie di Bra avevano cominciato a marcire e puzzavano orribilmente. Il punch ci infastidiva. Avevamo la faccia verde. Avevamo le labbra fredde. Nessuno vomitò subito, ma tutti insieme eravamo una ciurma ben pallida e silenziosa; fino a che raggiungemmo sotto vento le prime basse file di mangli, che stanno nei pressi di Key West.
[...]
Ernest e Pauline si erano comperati una graziosa vecchia casa, con il soffitto alto, a Key West. Pauline era sempre molto divertente, Gigi e il Topolino Messicano erano graziosissimi, ma i rapporti fra me e Ernest diventavano sempre meno facili.
Credo che la colpa sia da dividersi in parti uguali fra me e lui. Katy ed io ne ascrivemmo la responsabilità alle ambizioni letterarie. Il famoso autore, il grande pescatore, il potente cacciatore africano: noi cercavamo scherzosamente di smontarlo. Lo prendevamo in giro non poco, soprattutto le sere nelle quali aveva mal di gola e doveva andarsene a letto prima di cena; gli portavamo da bere a letto e mangiavamo la nostra cena, con i piatti in mano, in camera sua. Lo si chiamava «le lit royal». Non ho mai conosciuto un uomo vigoroso e atletico che passasse tanto tempo a letto, come faceva Ernest. V’erano momenti nei quali le nuvole si rischiaravano e tutto ritornava come ai vecchi tempi. Per esempio, le interminabili cene, a Madrid, ben irrorate, assieme a Claude Bowers, al Botin.
[...]
Katy ed io arrivammo a Key West un bel giorno e trovammo che qualche imbecille di scultore aveva fatto un busto di Ernest. Un calco in gesso stava nel bel mezzo della sala d’entrata. Era un busto orribile. Sembrava di sapone. Non riuscimmo a trattenerci, a tutta prima, dal ridere. Non potevamo immaginare che Ernest invece l’aveva preso sul serio. Durante quell’inverno io avevo preso l’abitudine di mettere, quando entravo, il mio cappello di panama sulla testa del busto. Ernest un giorno mi sorprese. Mi lanciò un’occhiataccia e tolse il cappello dalla testa del busto. Fu imbronciato per tutto il giorno. Nessuno di noi ne fece parola. Ma dopo questo episodio le cose fra di noi non andarono più allo stesso modo di prima.

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lunedì 16 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (3 di 4)



John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 275-292


SOTTO IL TROPICO [1]

Con Hem e Pauline passai nel Key West, a quel tempo, alcuni dei miei giorni più belli. Verso la fine di aprile e i primi del maggio del 1929.
Quando vi arrivai, mi pare su una nave del Merchant e Miners, ero logoro fino alla corda. Avevo messo nel tentativo di lavorare per il «New Playwrights» tutte le mie energie vitali. Un teatro è un’impresa di collaborazione. Soprattutto se tu sei l’autore del pezzo in cartellone, ti senti responsabile di una quantità di brava gente, che ha scialato giorni e notti di lavoro, in tempo e sforzo, tesi alla sua buona riuscita. Anche nel teatro off Broadway bisognava pagare questa gente. Giunsi all’estremo di cavare i soldi, sudatissimi, di tasca mia, perché quel dannato pezzo continuasse a venire rappresentato ancora per due settimane.
Jack Lawson e Francis Faragoh, che avevano famiglia da mantenere, avevano già passato il Rubicone e lavoravano ora negli studi di Hollywood. La politica del partito dominava il «New Masses» e si avvicinava il giorno nel quale avrebbe invaso i teatri sperimentali. Era una logorante fatica di ogni giorno riuscire a sopravvivere senza impazzire. Non era che io avessi tanto bisogno di riposo quanto di potermi dedicare tranquillamente al lavoro cui stavo dando mano, riguardante un certo tipo di narrativa. Quando misi piede, a New York, sulla nave, avevo già rassegnato nelle mani del comitato direttivo le mie dimissioni. Mi stavo liberando del teatro.
Hem mi scriveva lettere piene di entusiasmo, intorno a vasti banchi di sogliole e macarelli, e dei suoi festini a base di aragoste e gamberi. Charles Thompson aveva comperato un sailfish di otto piedi. Le isole Marquesas pullulavano di beccaccini. Mi diceva che la Corrente del Golfo era molto meglio di quando ci ero stato l’anno precedente «come ai giorni dei piccioni viaggiatori e dei bufali».
Hem aveva bisogno di pescare o di andare a caccia. Durante quello stesso inverno il dottor Hemingway, suo padre, s’era sparato.
Non ricordo se ero stato io a parlare a Hem del Key West o se se l’era trovato da solo. Ne avevo parlato continuamente con i miei amici, fin da quando avevo visto il posto per la prima volta, durante uno dei miei viaggi in autostop, nella penisola della Florida. Stanco morto, assetato e con un caldo insopportabile, mi ero ritrovato in una stazioncina ferroviaria. Era entrato un treno. Chiedo al conduttore dove fosse diretto. Dice, Key West. E io dico, bene: e per un qualche miracolo avevo anche i soldi per il biglietto. Non dimenticherò mai la traversata di sogno sul viadotto, l’Old Flagler, che porta alle isole.
A quei tempi, Key West era davvero un’isola. Era un centro carbonifero, con un porto commerciale. L’aria aveva il sentore di Corrente del Golfo. Era un posto unico in Florida.
Cayo Hueso, come metà della gente lo chiamava, era unito all’Avana da un ferry. Le manifatture di tabacco avevano attirato sul posto cubani e spagnoli. Gli operai delle manifatture erano gente interessante, con cui parlare; bene informata e spesso di sorprendenti letture.
Arrotolare sigarette era un lavoro da competenti. Usavano ingaggiare un lettore, per ciascuna delle loro lunghe tavole, intorno a cui lavoravano. Ascoltavano avidamente, non soltanto i giornali socialisti, ma anche i romanzieri spagnoli del XIX secolo e le traduzioni di Dostoievski e di Tolstoi. Era gente che aveva idee personali. La popolazione di lingua inglese era fatta di ferrovieri, di vecchi coloni della Florida, di pochi discendenti degli abitanti del New England, dai giorni nei quali era un porto di baleniere e di pescatori che venivano dalle colonie, di gente bianca come Spanish Wells nelle Bahamas. Nella loro pronuncia non v’era traccia di dialetto volgare. Non si poteva far a meno di ricordare che Key West era stato territorio dell’Unione per tutto il tempo della guerra civile.
V’erano un paio di hotel sonnolenti, dove i passeggeri dei treni, in viaggio per Cuba o per i Caraibi, di tanto in tanto si fermavano a riposare. Palme e alberi di pepe. Le strade ombrose, di case di legno grezzo, avevano un po’ l’aspetto del New England. Le automobili erano rare, perché non v’erano strade praticabili che unissero l’isola al continente, ma soltanto il viadotto ferroviario a linea unica. Il cantiere navale era chiuso. Il custode permetteva alla gente di andare a nuotare al largo dei gradini di pietra, nell’acqua azzurra e profonda del bacino interno. Bisognava stare attenti ai barracuda. A parte questo inconveniente, era una vera delizia.
Alcuni spagnoli tenevano dei piccoli ristoranti, molto buoni, ben forniti di vino della Rioja. Si trovavano facilmente delle graziose bambinaie di colore. Siccome Hem e Pauline avevano nel frattempo avuto due bimbetti, Patrick, presto noto come il Topolino Messicano, e Gigi, al quale, per una qualche ragione, Hem si riferiva chiamandolo ebreo irlandese, questo costituiva un notevole vantaggio. Sembrava che qui nessuno avesse mai sentito parlare di leggi contro il gioco né di proibizionismo. Il posto andava a genio a Hem.
Hem aveva sempre con sé un seguito. Mi ricordo che, quando venne ad incontrarmi al mio arrivo in quel pomeriggio assolato, non era solo. Mi diede appena il tempo di lasciare il mio bagaglio all’Hôtel Overseas e di cambiarmi di abito, che subito tutti insieme andammo a pescare, finché la marea era favorevole.
Charles Thompson, la cui famiglia possedeva il più importante emporio di chincaglierie e di forniture navali del posto, ci accompagnò fuori nella sua barca a motore. La sua graziosa moglie Lorine era con noi, c’era anche Waldo Pierce, con la sua barba, il suo album da disegno e la sua scatola di colori.
Waldo veniva da Bangor, nel Maine. Era un uomo enorme e portava dei favoriti cespugliosi che lo facevano assomigliare a un Nettuno uscito da una fontana barocca di Roma. Era un compagno di scuola di Jack Reed ad Harvard e aveva una storia che era diventata leggenda: uscito da poco dal College andava in Europa con un amico, a bordo di un cargo che trasportava bestiame; al largo di Sandy Hook, Waldo aveva deciso che non gli piaceva il tono di voce del comandante in seconda e aveva scavalcato il bordo, aveva nuotato fino a riva; qui s’era comperato un biglietto di prima classe e aveva ripreso la nave all’attracco sull’altra sponda. L’altra storia era che Jack Reed era stato imprigionato perché aveva fatto fuori un suo camerata. Waldo era un pittore estremamente produttivo. Aveva una tavolozza alla Renoir. Non finiva mai di dipingere o di disegnare, e non finiva neppure mai di parlare.
Mi piacevano tutti a bordo, ma in realtà non avevo occhi che per Katy. Katharine Smith era quasi stata adottata dagli Hemingway: le loro famiglie passavano l’estate insieme nel Nord del Michigan. Hem e il fratello minore di lei, Bill, da ragazzi, erano stati inseparabili. Lei chiamava Hem, Wemmage, e lo trattava con l’affettuosa condiscendenza di una ragazza col proprio fratello minore. Quando Hem lavorava a Chicago, prima di andare in Italia con la Croce Rossa, viveva come uno della famiglia in una specie di appartamento cooperativo diretto dal fratello maggiore di Katy, Y.K. Lei era stata amica di Hadley e aveva conosciuto Pauline e sua sorella Jinny all’Università del Missouri. Erano tutti compagnoni. Fin dal primo momento non potevo pensare ad altro che ai suoi occhi verdi.
In aprile fa già caldo a Key West, quando spira l’aliseo. Pescavamo avanti e indietro fra le rive e un vecchio piroscafo bianco che era finito in secca durante un uragano. Aveva perduto il fumaiolo e gli erano state tolte le macchine. Waldo lo dipinse in un quadro che tuttora è appeso nell’atrio del primo piano, a Spence’s Point.
Quando Charles portava il suo battello in una certa ansa lontano dalla città, s’alzava verso di noi un’incredibile dolce fragranza, come di limoni in fiore, insieme a nugoli di moscerini.
Hem si portava un paio di bottiglie di champagne che appoggiava sul ghiaccio destinato a tenere al fresco i muggini nel secchio delle esche. La regola era che non si poteva bere prima che qualcuno avesse preso un pesce. Il sole tramontava in un festoso susseguirsi di rosa e di ocra.
Quella sera cominciammo a pescare al chiaro di luna. Non sono sicuro che qualcuno abbia preso quella notte un tarpon, ma certamente ci fu una presa, perché ricordo l’arco di acciaio scuro nel pallido riflesso della luna, a pelo d’acqua, quando il pesce saltò.
Si dice che il tarpon abbocchi soltanto quando la marea è bassa e l’acqua, tepida, nei canali. Finita la pesca e anche lo champagne, Charles disse in uno sbadiglio che l’indomani mattina avrebbe dovuto andare a lavorare nel magazzino alle sette, e ci accompagnò allo scalo.
Anche se non avevamo preso neppure un tarpon, ricordo che io mi sentivo ugualmente felice perché la cattura di questo pesce mi era sempre sembrata un po’ una cattiva azione. Odiavo di vedere il grande mostro d’argento giacere nella polvere, sulla banchina. Questi pesci non sono commerciabili. L’unico uso che se ne può fare è conservarli per decorazione. Molti ne fanno con la pelle essiccata delle cianfrusaglie. La pesca al tarpon è pura e semplice vanità.
All’Asturia mangiammo un boccone prima di coricarci. Sogliole fritte alla francese e bonito in salsa di pomodoro erano la specialità del luogo. Era una delizia chiacchierare amabilmente di una quantità di cose finalmente senza inciampare nelle questioni di quella dannata politica. Non c’erano fra noi tabù. Potevamo tutti dire la prima cosa che ci saltava in mente. Dopo i bizantinismi ideologici del New Theatre, Key West mi sembrava un Eden.
Hem era il tipo migliore del mondo, per andare in giro quando tutto andava bene. Quella primavera era una splendida stagione per i tarpon. Tutte le sere Charles ci portava in mare a pescare, e noi pescavamo, bevevamo e chiacchieravamo chiacchieravamo chiacchieravamo, nelle notti di luna. Durante il giorno, dopo che Hem ed io avevamo fatto il nostro pisolino - tutti e due ci alzavamo molto presto al mattino - andavamo con Bra sugli scogli.
Bra era un Conch. Così si chiamano i bianchi dello Spanish Wells, nelle Bahamas. Il suo vero nome era Sanders. Hem, che immediatamente era diventato, stando con lui, né più né meno che un Conch, convinse il capitano Sanders a portarci fuori in mare. Nessuno aveva mai sentito parlare di una locazione di battello in gruppo. Quindici dollari fu considerato un prezzo equo, per la giornata.
A vela o a motore che fossero, tutti i battelli erano da pesca. Avevano un vivaio a metà barca per conservare il pesce vivo. Key West aveva una fabbrica di ghiaccio, ma alla pescheria, sulla banchina, quando si comperava il pesce, veniva preso vivo da un grosso bidone con una pala a rete. Un altro grosso recipiente era pieno di tartarughe di mare. La pesca delle tartarughe di mare era nel luogo un affare importante.
Il fascino di questa grande varietà di creature, che si trovava nella rete, per me era enorme. Nonostante io non sia mai stato un grande pescatore, mi piaceva uscire in mare con loro, anche soltanto per il piacere di navigare a filo d’acqua e ammirare i mille colori. Dicevo che pescavo per la comunità. Anche se amava la competizione come un cavallo di razza, Hem non era a tal punto lo sportivo professionista da guastarmi il piacere. Il mio entusiasmo per i grandi pallidi lunatici pesci, noti nel paese come pesce montone, era tale che Katy cominciò a chiamarci Mutton fish. E questo soprannome mi restò per un certo tempo. Ci sposammo a Ellsworth, nel Maine, in agosto. Una delle lettere più belle che ricevemmo fu quella di Hem, che aveva passato l’estate in Spagna a seguire le corride. Disse che era diabolicamente contento che «voialtri cittadini» vi foste sposati. Io gli avevo scritto che stavo finendo il primo volume di quello che, con mia somma sorpresa, divenne poi una trilogia. «Le trilogie sono senza dubbio la cosa - prendi esempio da Padre Figlio e Spirito Santo - della quale nulla esiste di meglio.»
Questa fu una delle poche allusioni, nella nostra corrispondenza, alla religione. Ernest s’era fatto cattolico per sposare Pauline, e con un certo numero di ocus-poculus aveva fatto in modo di farsi annullare il matrimonio contratto in precedenza con Hadley.
Nel resto della sua lettera continuava dandomi informazioni della vita dei nostri amici; Don Stewart s’era rovinato con la firma a un contratto di 25.000 dollari e per aver incontrato i Whitney. «Spero che tu eviterai tutto ciò - non firmare mai niente - spara senza esitare non appena vedi il bianco degli occhi di un Whitney.» John Bishop s’era rovinato per aver sposato una ragazza con rendita. «Tieni i soldi lontano da Katy.» La giovinezza eterna aveva mandato a picco i Fitzgerald. «Invecchia, Passos. Fa’ invecchiare Katy.» Il vecchio Hem era rimasto annientato dal suicidio del padre. Io tolsi al vecchio padre di Katy tutte le armi da fuoco.
Dovevo correggere le bozze del 42° Parallelo prima di partire per il viaggio trionfale che avevo progettato, per mostrare a Katy gli angoli che mi erano familiari dell’Europa e per presentarla ai vecchi amici. Scrissi a Hem di pregare per la mia battaglia in favore delle parole che dicono pane al pane. Abbandonando all’incertezza la soluzione di questa battaglia, feci in modo d’imbarcarmi il 23 novembre sul piroscafo francese di linea Roussillon.
Io non ero mai stato tanto felice, ma la sfortuna s’era abbattuta intanto sui miei amici. Canby Chambers era stato stroncato dalla paralisi l’estate precedente. Era stato ricoverato, ma rimase paralizzato per tutta la vita dalla cintola in giù. Prima di partire ci raggiunse la cattiva notizia che il piccolo Patrick Murphy aveva la tubercolosi.
A Parigi incontrammo i Fitzgerald, che abitavano da qualche parte verso l’Étoile. Questa era la prima volta che vedevamo Scottie. Era un’adorabile bambina molto sveglia, ciò che gli amici di mia madre avrebbero detto una ragazzina all’antica, ed era stata affidata a una governante inglese che fece venire sia a me che a Katy la pelle d’oca. Scott stava bevendo e Zelda era purtroppo lontana dall’essere veramente in sé; era ossessionata dall’idea di ballare nel Balletto Russo. Era una buona ballerina, per ballare fra amici, ma con la migliore buona volontà del mondo era impossibile cominciare a diventare una professionista di balletto alla sua età. Per chiunque li amasse, lo stare con i Fitzgerald era un vero rompicuore.
Katy ed io navigammo lungo la Senna sui bateaux-mouches, nella luce ocra del sole invernale. Abbiamo cenato allo Sceaux-Robinson e abbiamo fatto il giro dei caffè assieme a Blaise Cendrars, la poesia del quale era, a quel tempo, la mia passione, assieme al suo cane bianco Samoyed, che era il suo inseparabile compagno. Cendrars era un uomo simpatico e mi piaceva come mi piacevano i suoi scritti, però io, col passare degli anni, mi allontanavo sempre più dalla vita letteraria.
Jeanne Léger ci confezionò il migliore blanquette de veau che nessuno abbia mai mangiato. Jeanne era la modella molto ricercata che Fernand aveva sposato agli inizi della sua carriera. Non vivevano insieme, perché Jeanne, nonostante fosse una donna molto attraente ed una cuoca meravigliosa, aveva un béguin per dei giovani amici terribili; ma per il resto i due vivevano secondo le regole, in un modo tipicamente francese, molto curioso e formale. Hem, Pauline e Jinny Pfeifer tornarono dalla Spagna e tutti insieme andammo a Montana Vermala, vicino a Sierre, nelle Alpi Svizzere, a passare il Natale assieme ai Murphy. Gerald e Sara stavano portando il peso della loro disgrazia con grande stile. La teoria allora era che, se Patrick fosse vissuto ad un’altezza adeguata, avrebbe avuto la possibilità di superare la malattia. I Murphy erano decisi a non accettare la compassione di nessuno.
Dorothy Parker era là, e lanciava le sue solite buttate buffe con gli occhi pieni di lagrime. Facevamo dello sci e di sera, accanto al fuoco, ridevamo a non finire sopra la fonduta di formaggio e bevevamo il magnifico vino bianco locale. Ci davamo tutti da fare per tenere alto il morale dei Murphy. Per qualche tempo la cosa riuscì.
Dopo, Katy ed io passammo una settimana con Cendrars, in un vecchio alberghetto gelato, nella città murata di Monpazier, nel Massiccio Centrale. Vi si cucinavano oche selvatiche e in genere cacciagione, in un immenso camino all’antica, e per cena ci davano tutte le sere frittata ai tartufi.
Cendrars aveva perso una mano in guerra. Andare in macchina con lui per le stradette di montagna era un’esperienza da far rizzare i capelli. Guidava con una mano sola e cambiava di marcia alla sua piccola vettura francese con l’uncino. Visitammo Les Eyzies e tutte le caverne preistoriche dei dintorni. Cendrars prendeva tutte le curve su due ruote.
In un modo o nell’altro sopravvivemmo, e partimmo per il Sud attraverso la Linguadoca, verso la Spagna. Credo che a Cadice ci imbarcammo su un piccolo vapore spagnolo, che si chiamava Antonio Lopez e che ci trasportò all’Avana, lungo un itinerario insolito e piacevole, via Isole Canarie. Fu un viaggio molto bello. Avevamo una cabina spaziosa sul ponte. Mi divertivo con gli acquarelli e a curare una versione inglese del Panama et Mes Sept Oncles di Cendrars.
L’unico passeggero di lingua inglese, oltre noi, era un certo Loomis del Dipartimento di Stato. Il signor Loomis era un buon conoscitore dell’Africa e un buon parlatore. Sapeva delle storie, sui riti sacrificali della Repubblica di Liberia, abbastanza agghiaccianti da farci accapponare la pelle. Non aveva nessuna fiducia negli effetti dell’acquisizione delle libertà civili in questi Paesi. Mr. Loomis ci era simpatico anche perché, quando gli abbiamo chiesto il motivo che l’aveva indotto a prendere due cabine, ci rispose: «Bisogna bene che abbia un posto dove mettere le mie scarpe, no?»
Per metà aprile eravamo di ritorno a Key West, a pesca di delfini e di altri pesci tipici di quelle acque, nella Corrente del Golfo, col vecchio Hem e la barca di Bra.
Durante quell’autunno andai con Hem a caccia di alci nelle vicinanze di Cooke, nel Montana. Lo zio di Pauline, Gus, finanziò il viaggio. Lo zio Gus era un ometto nostalgico, il grande capo di Hudnut, a New York. Pieno di soldi e solo al mondo, copriva di attenzioni le sue graziose nipoti. Ernest lo affascinava. La pesca, la caccia, la letteratura. Godeva nell’aiutare Ernest a fare tutte quelle cose che lui non aveva potuto fare, dal momento che era stato troppo impegnato ad ammassare danaro. Fu lo zio Gus che finanziò il primo safari africano.
Partimmo a dorso di mulo da una fattoria fuori mano e aggirammo Yellowstone Park. Mentre ero con loro, gli alci, i quali sono dotati di un olfatto particolarmente sottile, fiutavano la nostra presenza nell’aria e si buttavano nel parco, dove erano salvi. Troppo miope per poter maneggiare un fucile, passavo il tempo a guardare il paesaggio, a osservare da lontano gli orsi, i castori nello stagno, e a guardare Hem nella sua veste di cacciatore. Non fumava mai: aveva l’olfatto acutissimo. Sentiva un alce quasi altrettanto rapidamente di quanto l’alce sentiva il cacciatore.
Hem teneva già sotto il suo controllo la gente del ranch. Tutti lo consideravano il tipo più formidabile che avessero mai incontrato. Aveva il comando nelle vene. Pensavo che sarebbe stato un capoguerriglia eccezionale. Aggiungi il senso della topografia, che aveva fino come quello di un tattico militare. Sapeva quale sarebbe stato l’aspetto della prossima vallata prima ancora che il suo cavallo avesse raggiunto la cresta del monte.
Sulla via del ritorno a Billings, sulla sua Ford da turismo Hem ci portò in un fosso. La strada era stretta e lui era stato abbagliato dalle luci di una macchina che veniva nel senso contrario. Tutti mi accusarono per la mia cattiva vista, ma io posso giurare che era Hem alla guida. Naturalmente tutti avevamo bevuto buone dosi di Bourbon.
La macchina si rovesciò a gambe all’aria. C’ingegnammo a venirne fuori da sotto, ma Hem si era rotto malamente un braccio e rimase nell’ospedale di Billings per settimane. Era tipico di Hem, per un certo lato del suo carattere, il comportarsi come fece in quella contingenza: quando Archie Mc Leish si prese il disturbo di arrivare fin laggiù per fargli visita, Hem disse ad altri amici che Archie era venuto per vederlo morire.

Era questo il periodo della grande depressione. La cosa non riguardava molto me personalmente. Katy possedeva la casa di Provincetown, dove avevamo messo il nostro quartier generale, e io guadagnavo abbastanza ampiamente per i nostri viaggi. Mi piaceva dire che ero rovinato tanto prima quanto dopo il crak della Borsa. In ogni caso i miei libri potevano difficilmente essere venduti meno, per questo motivo. Ma la esperienza degli altri che mi stavano attorno mi diede la misura del fallimento del capitalismo della Nuova Era.
La mia teoria politica era allora che il Partito Comunista degli Stati Uniti aveva il compito di fare da guastafeste. Essendo io un indipendente, senza un vero interesse personale per darmi molto da fare, dipendeva solo dalla mia volontà il sostenere quelli degli obiettivi del Partito che io approvavo come capaci di rendere gli americani consci di quanto fossimo arretrati sul terreno delle libertà. Continuavo a scrivere a Hem e agli altri amici scettici che ero sul punto di liberarmi dai miei impegni con i radicali, ma la tentazione continuava a sollecitarmi.
[…]
Poco dopo l’entrata in carica di Franklin D. Roosevelt, ricaddi malato di febbri reumatiche. Il dottor Gantt, col quale, durante la lunga affamata galoppata nel Caucaso, avevo legato una solida amicizia, era tornato in patria ed era alla John Hopkins Medical School, per fondare un laboratorio pavloviano e per lavorare con Adolph Meyer, lo psichiatra svizzero che dirigeva il Phipps. Avevo portato Katy a Baltimora per farsi togliere le tonsille e mi cacciai nel suo letto di ospedale appena lei ne era uscita. Restai là per parecchie settimane penose, leggendo A la recherche du temps perdu. Proust è proprio lo scrittore da leggere quando si ha la febbre. Quando stavo bene, non ne avevo mai avuta la pazienza.
I miei amici si fecero vedere tutti. Ernest mi mandò un bigliettone, di quelli che lo zio Gus gli aveva dato per il safari in Africa. Gerald e Sara mi pagarono il biglietto su un piroscafo delle linee italiane, di modo che potessi passare la convalescenza ad Antibes. Horsley riunì al mio capezzale tutti i più grandi medici.
Scott viveva a Baltimora, perché Zelda era in cura del dottor Adolph Meyer. Veniva nella mia camera di ospedale e restava là, tormentato e immelanconito. Tentavo di persuaderlo che non aveva ancora dato il meglio come scrittore. E veramente ero così certo che non aveva ancora scritto il suo libro migliore che non volevo pubblicasse The Crack Up. Come è facile dare agli amici dei cattivi consigli! Invece, questo fu uno dei suoi libri migliori.
In quel momento Scott stava affrontando le avversità con una forza d’animo che trovavo ammirabile. Stava cercando di allevare Scottie, di fare per Zelda tutto quello che poteva, di trattenersi dal bere, e di dare ai giornali regolarmente dei racconti, per sopperire alle enormi spese cui doveva andare incontro per curare la moglie. Nello stesso tempo era deciso a continuare a scrivere romanzi di prim’ordine. Con l’età e l’esperienza, le sue esigenze letterarie si erano fatte sempre più severe. Non ho mai ammirato un uomo come ho ammirato lui. Aveva tanti guai, più di quanti ne avessi io, che spesso pensavo che avrei dovuto essere io seduto al suo capezzale, invece che lui al mio.

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venerdì 13 maggio 2016

Hemingway e Picasso visti John Dos Passos (2 di 4)

1927 - Hemingway a Gstaad

John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 212-223

[…] In ogni caso, gli americani negli anni Trenta erano alla moda, in Europa. Dollari, grattacieli, jazz, tutto ciò che veniva da Oltreatlantico, aveva un che di romantico. La pittura di Gerald, quando i suoi quadri furono esposti a Parigi, sembrò l’epitome dello chic di Oltreoceano.
Non passò molto che Gerald e Sara dovettero prendere una posizione di difesa contro l’assalto della società bene francese. Infatti essa preferiva i pittori agli uomini di lettere, tanto pignoli. Léger - che aveva il dono di fare di tutto ciò che vedeva o gustava o udiva, una sua personale composizione - era il loro preferito, come del resto era il mio; Sara divenne anche amica di Picasso.
Picasso era un uomo piccolo, chiuso e bruno. Non aveva nulla dell’estroversione spontanea che fa in genere, degli spagnoli, gente con cui ci s’incontra facilmente. Era sarcastico, cinico, stile contadino spagnolo: il cinismo di Sancho Panza. Mi sembrava impenetrabile perfino nei momenti di distensione e di allegria. Era il maestro costruttore, il muratore, l’artigiano. Era l’intelligenza incarnata. Gli mancava l’umanità. I greci lo avrebbero chiamato deinos[1] come avevano chiamato Ulisse. Non era possibile avvicinare né l’uomo né la sua opera - l’uomo e l’opera erano inseparabili - senza provare una profonda ammirazione per i suoi gesti eleganti, per la sagacità delle sue dita, la precisione del suo colpo d’occhio; se avesse avuto il dono della compassione, sarebbe stato grande come Michelangelo.
Hemingway si lasciò sedurre anche lui da un viaggio ad Antibes, ma non ricordo se ci incontrammo; forse io non ero là in quel momento. So però che non si sentì a suo agio, nonostante volesse bene a Sara Murphy. I pescatori sembra che non provino piacere a nuotare. Deve aver giudicato piuttosto idiota farsi arrostire al sole sulla spiaggia. Per stare bene a Villa America bisognava entrare a far parte del rituale che era stato inventato da Gerald. Hem era già troppo uomo-spettacolo per poter prendere parte alla sciarada di un altro.
Hem a quel tempo era una figura in vetta al Walhalla della Parigi letteraria. Ford Maddox Hueffer tentò di averlo con sé alla redazione del «Transatlantic Review». Era amico di Pound. Andava a cena con Joyce. Era stato adottato da Gertrude Stein. Pensava a un libro per l’editore Querschnitt, di tauromachia, che Picasso avrebbe illustrato.
Una delle cose che ci aveva uniti era il nostro entusiasmo per tutto quanto riguarda la Spagna. Molte delle mie permanenze a Parigi furono in transito da o per la Spagna. Hem e Hadley s’erano fermati a Vigo, quando avevano accompagnato per la prima volta Bumby in Europa, e giunsero a Parigi con stupendi ricordi di Compostella, delle Asturie e dei Paesi Baschi. La mania di Hem per la Spagna giunse al suo culmine quei giorni torridi di agosto, quando per la prima volta partecipò alla Fiesta di San Firmino a Pamplona.
Io non ero a Pamplona l’anno delle prime grandi festività che diedero a Hem l’idea di scrivere Il sole sorge ancora, ma v’ero l’agosto dopo. Eravamo tutti all’Hotel La Perla.
Tutti guardavamo Hem. V’era un’inglese titolata, incallita, che fra di noi chiamavamo Duff. Hadley era ancora sposata con Hem, ma io ebbi l’impressione che le piccole Pfeiffer, Pauline e Jinny facessero parte del gruppo. V’era un ufficiale dell’esercito inglese che chiamavamo Chink. V’era Don Stewart: e anche Bill Bird e sua moglie e un loro giovane amico che si chiamava George O’Neill. V’era anche Robert McAlmon.
I Bird erano simpatici, anche se erano degli espatriati, ma McAlmon non riusciva a piacermi. V’era su di lui un che d’ambiguo; e il fatto che io pensassi di lui che era un avventuriero mi faceva provare un po’ di vergogna. Può anche darsi che vi fosse Harold Loeb. E forse v’era altra gente.
Dopo aver letto il romanzo, non so più bene quali siano gli eventi realmente vissuti che Hem incluse e quali abbia inventato. Fu come un viaggio organizzato da Cook, con Hem maestro di cerimonia. Le feste di San Firmino sono qualcosa di terrificante. Bande, processioni, corride. L’arrivo dei tori, la loro cattura, le galoppate attraverso le strade. Ogni piazza piena zeppa di agili paesani che ballano in berretto blu. Da ogni vicolo i ritmi dei pifferi e dei tamburi baschi, il belato delle cornamuse galiziane o il clangore delle nacchere. Ogni gruppetto si portava il suo otre di vino. Per quanto ricordo, l’esuberanza però non superava mai certi limiti. Le buone maniere fra gente che crede nella dignità umana sono una questione di vita o di morte. Tutti dovevano essere muy hombres con i tori. Gli si correva incontro, quando venivano condotti all’arena: si tentava di entrare nel recinto, quando venivano esaminati dagli incaricati; al momento della capea i tori venivano lasciati al pubblico, che invadeva il recinto. Erano tori giovani, e non fra i più feroci. Ma quando venivano circondati da una folla di giovanotti navarrini che li provocavano con i giubbotti e con i fazzoletti reagivano talvolta con inaudita violenza. Parecchi giovani furono feriti, senza però che alcuno, quell’anno, fosse ucciso.
Fare mostra della mia insipienza intorno all’etica taurina, in una pista di tori piena di navarrini agilissimi ed esperti, non era esattamente ciò che consideravo un pomeriggio piacevole. Ma Hem voleva essere presente fra gli aficionados. I suoi compatrioti americani si facevano pure un punto di onore di mostrare il loro entusiasmo. L’ironia fu che, dopo aver apertamente respinto tutta la faccenda, mi trovai faccia a faccia con un toro. Aveva appena saltato la barriera e stava caricando lungo il corridoio sul lato opposto. Ci guardammo negli occhi. Ci lasciammo perdere. Mi arrampicai rapidamente sul marciapiede del muro di cinta ed entrai in prima fila fra gli spettatori. Raccontai che andavo cercando un punto elevato dal quale prendere i miei soliti schizzi.
Ci divertimmo, mangiammo bene, bevemmo bene, ma nel gruppo v’erano troppi esibizionisti perché la situazione fosse di mio gusto. La vista di una folla di giovanotti che tentano di dare prova tangibile di quanto siano hombres mi dava sui nervi. Potevo divertirmi, di tanto in tanto, a una corrida, prendendola come uno spettacolo, ma ogni giorno, per una settimana, era troppo.
Per Hem la cosa era diversa. Egli aveva una enorme possibilità di concentrazione su qualsiasi cosa lo interessasse nel momento. Fosse la Sei Giorni di bicicletta, o una corrida, lo sci o la pesca alla trota, si buttava a corpo morto.
Si attaccava come una sanguisuga fino a che l’esperienza gli fosse entrata tutta nel sangue. Entrava nella confidenza dei professionisti del luogo e si saturava delle loro sensazioni, fino al punto di accensione. Eccetto che nel caso di qualche scienziato, che ho visto perseguire fino all’esaurimento un esperimento difficile, non ho mai conosciuto alcuno che possedesse una tale facoltà di assorbimento. Talune delle migliori opere di Hemingway sono nate da questa qualità. Quando ha descritto il lavoro del matador in Morte nel pomeriggio sapeva bene ciò di cui parlava.
Gli spagnoli erano simpatici, io ero fedele a Hem e a Hadley, ma non avrei sopportato la parte americana di quella folla se non vi fosse stata una certa giovane donna. Stavo scoprendo la verità del detto di Ben Franklin: «Un uomo e una donna sono come un paio di forbici; nessuna delle due parti è utile, senza l’altra.» Avevamo costruito una specie di nicchia privata, dalla quale guardavamo quell’andirivieni, partecipando agli avvenimenti, senza però subirli. [...]

Durante l’autunno precedente, oppure durante il seguente, non ricordo bene, Hem mi lesse Torrenti di primavera. Cominciò un pomeriggio d’autunno, col sole rosso, alla Closerie de Lilas. Certe parti erano davvero buffe, soprattutto quando introduce nell’azione del libro l’indiano del Michigan - Hem aveva la mania degli indiani - ma per altri lati, mi metteva in imbarazzo. Io m’ero a suo tempo prodigato per convincere Horace Liveright a pubblicare in America In Our Time, e sembrava ora che Hem volesse ritenermi in parte responsabile di un contratto tutt’altro che conveniente, che egli firmò, concedendo a Liveright opzione su un certo numero di opere future.
Scott, che vantava pretese di talent scout, ed era disinteressatamente generoso con altri scrittori, stava dandosi da fare come un demonio per convincere Max Perkins a prendere Hemingway da Scribner.
Scott aveva per Hem una specie di capriccio letterario: per lui era lo stilista sportivo, il pugile narratore. Una sera, parlando di Hem, fummo d’accordo nel pronosticargli il destino di un Byron dei nostri giorni. Scott aveva ragione. L’editore che andava bene per Hem era Scribner, ma come disfarsi del contratto con Liveright?
Io non ho mai capito bene che cosa abbia inteso fare Hem col Torrenti di primavera. Aveva deliberatamente scritto delle cose che Liveright, nella sua veste di amico e editore di Sherwood Anderson, non avrebbe per nessun motivo al mondo voluto pubblicare, o questo libro era il risultato dello scherzo malvagio di un ragazzo senza cuore? Senza dubbio, quando me lo ha letto a voce alta, ho riso; ma ho fatto del mio meglio per convincerlo a non pubblicarlo, per lo meno subito. Gli dissi che per reggere come parodia non era uno scritto sufficientemente buono, e che, d’altra parte, In Our Time era stato un libro tanto maledettamente ben riuscito che era meglio, per una nuova pubblicazione, aspettare di avere qualcosa di veramente eccezionale da mettergli a confronto.
Quella sera convenne con me volentieri che Sherwood Anderson sarebbe stato l’ultimo uomo al mondo di cui avrebbe voluto urtare la suscettibilità. Sherwood era stato molto gentile con Hem, quando da ragazzo aveva lavorato a Chicago, e tutti e due sapevamo bene come egli fosse, perfino infantilmente, sensibile. Ero d’accordo con Hem nel ritenere Dark Laughter un libro sentimentale e sciocco, e che era pur necessario che qualcuno glielo facesse notare, ma ritenevo che quel qualcuno non dovesse essere Hem. Hem aveva un modo molto indisponente di mettersi d’improvviso, nel bel mezzo della conversazione, a canterellare. Quando, quella notte, ci separammo, ero convinto di averlo dissuaso dalla pubblicazione del Torrenti. Può darsi che questo non fosse affar mio, però in quei giorni gli amici erano amici. Ma la cosa non andò come io avevo creduto.[2]

Gli ultimi giorni belli che Hem, Hadley ed io passammo in Europa, furono quelli di Schruns, nel Vorarlberg austriaco. Avevano scoperto lo sport dello sci l’inverno precedente a Schruns. Gerald e Sara s’unirono a noi. Tutto costava incredibilmente poco. Eravamo in un grazioso hotel vecchio stile, con stufe in maiolica, che si chiamava Taube. Mangiavamo «forellen im blau» e bevevamo kirsch caldo. Il kirsch era tanto abbondante che ce ne davano per frizionarci, quando rientravamo dalle escursioni sulla neve.
Allora si sciava secondo la natura dei luoghi. Per le salite ci servivamo delle pelli di foca. La grande escursione conduceva, attraverso un vasto campo di neve al di sopra della città, fino alla Madlener Haus. Era una specie di club sciistico, un rifugio, con fuochi scoppiettanti e cibo caldo. La gente era cortesissima. Tutti ti dicevano: «Griiss Gott» quando t’incontravano. Sembrava di vivere in una cartolina di Natale dei vecchi tempi. Hem si era dato allo sci anima e corpo. Faceva esercizio senza posa. Doveva essere il più abile. Gerald era un tipo di perfezionista anche lui, ma diverso. Si stabilì fra loro una gara, chi dei due sarebbe diventato in quattro giorni uno sciatore completo. Erano ben buffi tutti e due.
Credo di essermi divertito molto più di tutti, perché, fin dal primo giorno, capii che non ne avrei cavato niente. Troppo terribilmente maldestro. Soffiando e sudando, con le mie pelli di foca, salivo in vetta per godermi di lassù il bel panorama. Non faceva troppo freddo.
Al sole faceva caldo. Le montagne coperte di neve proiettavano ombre azzurrine e purpuree. Bisognava essere prudenti perché, nel pomeriggio, si correva rischio di valanghe. Ne vidi una, sulla nostra pista, mentre scendevamo dalla Madlener Haus e m’impressionò molto. Salendo mi sentivo bene, ma scendendo dovevo ricorrere a tattiche personali perché non sono mai riuscito a curvare. Il meglio che potevo fare era cadere. Quando la discesa era troppo ripida, sedevo sui miei sci e li usavo come una specie di toboga. Quando, al rientro a Schruns, fu scoperto che il fondo dei miei pantaloni era consumato fino a essere liso, ne sentii di tutti i colori. Ai pasti non riuscivamo neppure a mangiare dal gran ridere che si faceva. In quella settimana passata a Schruns ci prendevamo in giro a vicenda, tutti. Mangiammo una gran quantità di trote, bevemmo vino e birra e dormimmo come ghiri sotto i grandi piumini. Eravamo fratelli e sorelle quando ci lasciammo. Fu un vero choc sapere, qualche mese più tardi, che Ernest e Hadley s’erano separati. Quando si vuol bene a una coppia si vorrebbe che non si dividesse mai.




[1] NOTA di GCM: Persona che incute timore.
[2] Per approfondimenti rinvio al mio post Hemingway a Parigi



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