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lunedì 16 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (3 di 4)



John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 275-292


SOTTO IL TROPICO [1]

Con Hem e Pauline passai nel Key West, a quel tempo, alcuni dei miei giorni più belli. Verso la fine di aprile e i primi del maggio del 1929.
Quando vi arrivai, mi pare su una nave del Merchant e Miners, ero logoro fino alla corda. Avevo messo nel tentativo di lavorare per il «New Playwrights» tutte le mie energie vitali. Un teatro è un’impresa di collaborazione. Soprattutto se tu sei l’autore del pezzo in cartellone, ti senti responsabile di una quantità di brava gente, che ha scialato giorni e notti di lavoro, in tempo e sforzo, tesi alla sua buona riuscita. Anche nel teatro off Broadway bisognava pagare questa gente. Giunsi all’estremo di cavare i soldi, sudatissimi, di tasca mia, perché quel dannato pezzo continuasse a venire rappresentato ancora per due settimane.
Jack Lawson e Francis Faragoh, che avevano famiglia da mantenere, avevano già passato il Rubicone e lavoravano ora negli studi di Hollywood. La politica del partito dominava il «New Masses» e si avvicinava il giorno nel quale avrebbe invaso i teatri sperimentali. Era una logorante fatica di ogni giorno riuscire a sopravvivere senza impazzire. Non era che io avessi tanto bisogno di riposo quanto di potermi dedicare tranquillamente al lavoro cui stavo dando mano, riguardante un certo tipo di narrativa. Quando misi piede, a New York, sulla nave, avevo già rassegnato nelle mani del comitato direttivo le mie dimissioni. Mi stavo liberando del teatro.
Hem mi scriveva lettere piene di entusiasmo, intorno a vasti banchi di sogliole e macarelli, e dei suoi festini a base di aragoste e gamberi. Charles Thompson aveva comperato un sailfish di otto piedi. Le isole Marquesas pullulavano di beccaccini. Mi diceva che la Corrente del Golfo era molto meglio di quando ci ero stato l’anno precedente «come ai giorni dei piccioni viaggiatori e dei bufali».
Hem aveva bisogno di pescare o di andare a caccia. Durante quello stesso inverno il dottor Hemingway, suo padre, s’era sparato.
Non ricordo se ero stato io a parlare a Hem del Key West o se se l’era trovato da solo. Ne avevo parlato continuamente con i miei amici, fin da quando avevo visto il posto per la prima volta, durante uno dei miei viaggi in autostop, nella penisola della Florida. Stanco morto, assetato e con un caldo insopportabile, mi ero ritrovato in una stazioncina ferroviaria. Era entrato un treno. Chiedo al conduttore dove fosse diretto. Dice, Key West. E io dico, bene: e per un qualche miracolo avevo anche i soldi per il biglietto. Non dimenticherò mai la traversata di sogno sul viadotto, l’Old Flagler, che porta alle isole.
A quei tempi, Key West era davvero un’isola. Era un centro carbonifero, con un porto commerciale. L’aria aveva il sentore di Corrente del Golfo. Era un posto unico in Florida.
Cayo Hueso, come metà della gente lo chiamava, era unito all’Avana da un ferry. Le manifatture di tabacco avevano attirato sul posto cubani e spagnoli. Gli operai delle manifatture erano gente interessante, con cui parlare; bene informata e spesso di sorprendenti letture.
Arrotolare sigarette era un lavoro da competenti. Usavano ingaggiare un lettore, per ciascuna delle loro lunghe tavole, intorno a cui lavoravano. Ascoltavano avidamente, non soltanto i giornali socialisti, ma anche i romanzieri spagnoli del XIX secolo e le traduzioni di Dostoievski e di Tolstoi. Era gente che aveva idee personali. La popolazione di lingua inglese era fatta di ferrovieri, di vecchi coloni della Florida, di pochi discendenti degli abitanti del New England, dai giorni nei quali era un porto di baleniere e di pescatori che venivano dalle colonie, di gente bianca come Spanish Wells nelle Bahamas. Nella loro pronuncia non v’era traccia di dialetto volgare. Non si poteva far a meno di ricordare che Key West era stato territorio dell’Unione per tutto il tempo della guerra civile.
V’erano un paio di hotel sonnolenti, dove i passeggeri dei treni, in viaggio per Cuba o per i Caraibi, di tanto in tanto si fermavano a riposare. Palme e alberi di pepe. Le strade ombrose, di case di legno grezzo, avevano un po’ l’aspetto del New England. Le automobili erano rare, perché non v’erano strade praticabili che unissero l’isola al continente, ma soltanto il viadotto ferroviario a linea unica. Il cantiere navale era chiuso. Il custode permetteva alla gente di andare a nuotare al largo dei gradini di pietra, nell’acqua azzurra e profonda del bacino interno. Bisognava stare attenti ai barracuda. A parte questo inconveniente, era una vera delizia.
Alcuni spagnoli tenevano dei piccoli ristoranti, molto buoni, ben forniti di vino della Rioja. Si trovavano facilmente delle graziose bambinaie di colore. Siccome Hem e Pauline avevano nel frattempo avuto due bimbetti, Patrick, presto noto come il Topolino Messicano, e Gigi, al quale, per una qualche ragione, Hem si riferiva chiamandolo ebreo irlandese, questo costituiva un notevole vantaggio. Sembrava che qui nessuno avesse mai sentito parlare di leggi contro il gioco né di proibizionismo. Il posto andava a genio a Hem.
Hem aveva sempre con sé un seguito. Mi ricordo che, quando venne ad incontrarmi al mio arrivo in quel pomeriggio assolato, non era solo. Mi diede appena il tempo di lasciare il mio bagaglio all’Hôtel Overseas e di cambiarmi di abito, che subito tutti insieme andammo a pescare, finché la marea era favorevole.
Charles Thompson, la cui famiglia possedeva il più importante emporio di chincaglierie e di forniture navali del posto, ci accompagnò fuori nella sua barca a motore. La sua graziosa moglie Lorine era con noi, c’era anche Waldo Pierce, con la sua barba, il suo album da disegno e la sua scatola di colori.
Waldo veniva da Bangor, nel Maine. Era un uomo enorme e portava dei favoriti cespugliosi che lo facevano assomigliare a un Nettuno uscito da una fontana barocca di Roma. Era un compagno di scuola di Jack Reed ad Harvard e aveva una storia che era diventata leggenda: uscito da poco dal College andava in Europa con un amico, a bordo di un cargo che trasportava bestiame; al largo di Sandy Hook, Waldo aveva deciso che non gli piaceva il tono di voce del comandante in seconda e aveva scavalcato il bordo, aveva nuotato fino a riva; qui s’era comperato un biglietto di prima classe e aveva ripreso la nave all’attracco sull’altra sponda. L’altra storia era che Jack Reed era stato imprigionato perché aveva fatto fuori un suo camerata. Waldo era un pittore estremamente produttivo. Aveva una tavolozza alla Renoir. Non finiva mai di dipingere o di disegnare, e non finiva neppure mai di parlare.
Mi piacevano tutti a bordo, ma in realtà non avevo occhi che per Katy. Katharine Smith era quasi stata adottata dagli Hemingway: le loro famiglie passavano l’estate insieme nel Nord del Michigan. Hem e il fratello minore di lei, Bill, da ragazzi, erano stati inseparabili. Lei chiamava Hem, Wemmage, e lo trattava con l’affettuosa condiscendenza di una ragazza col proprio fratello minore. Quando Hem lavorava a Chicago, prima di andare in Italia con la Croce Rossa, viveva come uno della famiglia in una specie di appartamento cooperativo diretto dal fratello maggiore di Katy, Y.K. Lei era stata amica di Hadley e aveva conosciuto Pauline e sua sorella Jinny all’Università del Missouri. Erano tutti compagnoni. Fin dal primo momento non potevo pensare ad altro che ai suoi occhi verdi.
In aprile fa già caldo a Key West, quando spira l’aliseo. Pescavamo avanti e indietro fra le rive e un vecchio piroscafo bianco che era finito in secca durante un uragano. Aveva perduto il fumaiolo e gli erano state tolte le macchine. Waldo lo dipinse in un quadro che tuttora è appeso nell’atrio del primo piano, a Spence’s Point.
Quando Charles portava il suo battello in una certa ansa lontano dalla città, s’alzava verso di noi un’incredibile dolce fragranza, come di limoni in fiore, insieme a nugoli di moscerini.
Hem si portava un paio di bottiglie di champagne che appoggiava sul ghiaccio destinato a tenere al fresco i muggini nel secchio delle esche. La regola era che non si poteva bere prima che qualcuno avesse preso un pesce. Il sole tramontava in un festoso susseguirsi di rosa e di ocra.
Quella sera cominciammo a pescare al chiaro di luna. Non sono sicuro che qualcuno abbia preso quella notte un tarpon, ma certamente ci fu una presa, perché ricordo l’arco di acciaio scuro nel pallido riflesso della luna, a pelo d’acqua, quando il pesce saltò.
Si dice che il tarpon abbocchi soltanto quando la marea è bassa e l’acqua, tepida, nei canali. Finita la pesca e anche lo champagne, Charles disse in uno sbadiglio che l’indomani mattina avrebbe dovuto andare a lavorare nel magazzino alle sette, e ci accompagnò allo scalo.
Anche se non avevamo preso neppure un tarpon, ricordo che io mi sentivo ugualmente felice perché la cattura di questo pesce mi era sempre sembrata un po’ una cattiva azione. Odiavo di vedere il grande mostro d’argento giacere nella polvere, sulla banchina. Questi pesci non sono commerciabili. L’unico uso che se ne può fare è conservarli per decorazione. Molti ne fanno con la pelle essiccata delle cianfrusaglie. La pesca al tarpon è pura e semplice vanità.
All’Asturia mangiammo un boccone prima di coricarci. Sogliole fritte alla francese e bonito in salsa di pomodoro erano la specialità del luogo. Era una delizia chiacchierare amabilmente di una quantità di cose finalmente senza inciampare nelle questioni di quella dannata politica. Non c’erano fra noi tabù. Potevamo tutti dire la prima cosa che ci saltava in mente. Dopo i bizantinismi ideologici del New Theatre, Key West mi sembrava un Eden.
Hem era il tipo migliore del mondo, per andare in giro quando tutto andava bene. Quella primavera era una splendida stagione per i tarpon. Tutte le sere Charles ci portava in mare a pescare, e noi pescavamo, bevevamo e chiacchieravamo chiacchieravamo chiacchieravamo, nelle notti di luna. Durante il giorno, dopo che Hem ed io avevamo fatto il nostro pisolino - tutti e due ci alzavamo molto presto al mattino - andavamo con Bra sugli scogli.
Bra era un Conch. Così si chiamano i bianchi dello Spanish Wells, nelle Bahamas. Il suo vero nome era Sanders. Hem, che immediatamente era diventato, stando con lui, né più né meno che un Conch, convinse il capitano Sanders a portarci fuori in mare. Nessuno aveva mai sentito parlare di una locazione di battello in gruppo. Quindici dollari fu considerato un prezzo equo, per la giornata.
A vela o a motore che fossero, tutti i battelli erano da pesca. Avevano un vivaio a metà barca per conservare il pesce vivo. Key West aveva una fabbrica di ghiaccio, ma alla pescheria, sulla banchina, quando si comperava il pesce, veniva preso vivo da un grosso bidone con una pala a rete. Un altro grosso recipiente era pieno di tartarughe di mare. La pesca delle tartarughe di mare era nel luogo un affare importante.
Il fascino di questa grande varietà di creature, che si trovava nella rete, per me era enorme. Nonostante io non sia mai stato un grande pescatore, mi piaceva uscire in mare con loro, anche soltanto per il piacere di navigare a filo d’acqua e ammirare i mille colori. Dicevo che pescavo per la comunità. Anche se amava la competizione come un cavallo di razza, Hem non era a tal punto lo sportivo professionista da guastarmi il piacere. Il mio entusiasmo per i grandi pallidi lunatici pesci, noti nel paese come pesce montone, era tale che Katy cominciò a chiamarci Mutton fish. E questo soprannome mi restò per un certo tempo. Ci sposammo a Ellsworth, nel Maine, in agosto. Una delle lettere più belle che ricevemmo fu quella di Hem, che aveva passato l’estate in Spagna a seguire le corride. Disse che era diabolicamente contento che «voialtri cittadini» vi foste sposati. Io gli avevo scritto che stavo finendo il primo volume di quello che, con mia somma sorpresa, divenne poi una trilogia. «Le trilogie sono senza dubbio la cosa - prendi esempio da Padre Figlio e Spirito Santo - della quale nulla esiste di meglio.»
Questa fu una delle poche allusioni, nella nostra corrispondenza, alla religione. Ernest s’era fatto cattolico per sposare Pauline, e con un certo numero di ocus-poculus aveva fatto in modo di farsi annullare il matrimonio contratto in precedenza con Hadley.
Nel resto della sua lettera continuava dandomi informazioni della vita dei nostri amici; Don Stewart s’era rovinato con la firma a un contratto di 25.000 dollari e per aver incontrato i Whitney. «Spero che tu eviterai tutto ciò - non firmare mai niente - spara senza esitare non appena vedi il bianco degli occhi di un Whitney.» John Bishop s’era rovinato per aver sposato una ragazza con rendita. «Tieni i soldi lontano da Katy.» La giovinezza eterna aveva mandato a picco i Fitzgerald. «Invecchia, Passos. Fa’ invecchiare Katy.» Il vecchio Hem era rimasto annientato dal suicidio del padre. Io tolsi al vecchio padre di Katy tutte le armi da fuoco.
Dovevo correggere le bozze del 42° Parallelo prima di partire per il viaggio trionfale che avevo progettato, per mostrare a Katy gli angoli che mi erano familiari dell’Europa e per presentarla ai vecchi amici. Scrissi a Hem di pregare per la mia battaglia in favore delle parole che dicono pane al pane. Abbandonando all’incertezza la soluzione di questa battaglia, feci in modo d’imbarcarmi il 23 novembre sul piroscafo francese di linea Roussillon.
Io non ero mai stato tanto felice, ma la sfortuna s’era abbattuta intanto sui miei amici. Canby Chambers era stato stroncato dalla paralisi l’estate precedente. Era stato ricoverato, ma rimase paralizzato per tutta la vita dalla cintola in giù. Prima di partire ci raggiunse la cattiva notizia che il piccolo Patrick Murphy aveva la tubercolosi.
A Parigi incontrammo i Fitzgerald, che abitavano da qualche parte verso l’Étoile. Questa era la prima volta che vedevamo Scottie. Era un’adorabile bambina molto sveglia, ciò che gli amici di mia madre avrebbero detto una ragazzina all’antica, ed era stata affidata a una governante inglese che fece venire sia a me che a Katy la pelle d’oca. Scott stava bevendo e Zelda era purtroppo lontana dall’essere veramente in sé; era ossessionata dall’idea di ballare nel Balletto Russo. Era una buona ballerina, per ballare fra amici, ma con la migliore buona volontà del mondo era impossibile cominciare a diventare una professionista di balletto alla sua età. Per chiunque li amasse, lo stare con i Fitzgerald era un vero rompicuore.
Katy ed io navigammo lungo la Senna sui bateaux-mouches, nella luce ocra del sole invernale. Abbiamo cenato allo Sceaux-Robinson e abbiamo fatto il giro dei caffè assieme a Blaise Cendrars, la poesia del quale era, a quel tempo, la mia passione, assieme al suo cane bianco Samoyed, che era il suo inseparabile compagno. Cendrars era un uomo simpatico e mi piaceva come mi piacevano i suoi scritti, però io, col passare degli anni, mi allontanavo sempre più dalla vita letteraria.
Jeanne Léger ci confezionò il migliore blanquette de veau che nessuno abbia mai mangiato. Jeanne era la modella molto ricercata che Fernand aveva sposato agli inizi della sua carriera. Non vivevano insieme, perché Jeanne, nonostante fosse una donna molto attraente ed una cuoca meravigliosa, aveva un béguin per dei giovani amici terribili; ma per il resto i due vivevano secondo le regole, in un modo tipicamente francese, molto curioso e formale. Hem, Pauline e Jinny Pfeifer tornarono dalla Spagna e tutti insieme andammo a Montana Vermala, vicino a Sierre, nelle Alpi Svizzere, a passare il Natale assieme ai Murphy. Gerald e Sara stavano portando il peso della loro disgrazia con grande stile. La teoria allora era che, se Patrick fosse vissuto ad un’altezza adeguata, avrebbe avuto la possibilità di superare la malattia. I Murphy erano decisi a non accettare la compassione di nessuno.
Dorothy Parker era là, e lanciava le sue solite buttate buffe con gli occhi pieni di lagrime. Facevamo dello sci e di sera, accanto al fuoco, ridevamo a non finire sopra la fonduta di formaggio e bevevamo il magnifico vino bianco locale. Ci davamo tutti da fare per tenere alto il morale dei Murphy. Per qualche tempo la cosa riuscì.
Dopo, Katy ed io passammo una settimana con Cendrars, in un vecchio alberghetto gelato, nella città murata di Monpazier, nel Massiccio Centrale. Vi si cucinavano oche selvatiche e in genere cacciagione, in un immenso camino all’antica, e per cena ci davano tutte le sere frittata ai tartufi.
Cendrars aveva perso una mano in guerra. Andare in macchina con lui per le stradette di montagna era un’esperienza da far rizzare i capelli. Guidava con una mano sola e cambiava di marcia alla sua piccola vettura francese con l’uncino. Visitammo Les Eyzies e tutte le caverne preistoriche dei dintorni. Cendrars prendeva tutte le curve su due ruote.
In un modo o nell’altro sopravvivemmo, e partimmo per il Sud attraverso la Linguadoca, verso la Spagna. Credo che a Cadice ci imbarcammo su un piccolo vapore spagnolo, che si chiamava Antonio Lopez e che ci trasportò all’Avana, lungo un itinerario insolito e piacevole, via Isole Canarie. Fu un viaggio molto bello. Avevamo una cabina spaziosa sul ponte. Mi divertivo con gli acquarelli e a curare una versione inglese del Panama et Mes Sept Oncles di Cendrars.
L’unico passeggero di lingua inglese, oltre noi, era un certo Loomis del Dipartimento di Stato. Il signor Loomis era un buon conoscitore dell’Africa e un buon parlatore. Sapeva delle storie, sui riti sacrificali della Repubblica di Liberia, abbastanza agghiaccianti da farci accapponare la pelle. Non aveva nessuna fiducia negli effetti dell’acquisizione delle libertà civili in questi Paesi. Mr. Loomis ci era simpatico anche perché, quando gli abbiamo chiesto il motivo che l’aveva indotto a prendere due cabine, ci rispose: «Bisogna bene che abbia un posto dove mettere le mie scarpe, no?»
Per metà aprile eravamo di ritorno a Key West, a pesca di delfini e di altri pesci tipici di quelle acque, nella Corrente del Golfo, col vecchio Hem e la barca di Bra.
Durante quell’autunno andai con Hem a caccia di alci nelle vicinanze di Cooke, nel Montana. Lo zio di Pauline, Gus, finanziò il viaggio. Lo zio Gus era un ometto nostalgico, il grande capo di Hudnut, a New York. Pieno di soldi e solo al mondo, copriva di attenzioni le sue graziose nipoti. Ernest lo affascinava. La pesca, la caccia, la letteratura. Godeva nell’aiutare Ernest a fare tutte quelle cose che lui non aveva potuto fare, dal momento che era stato troppo impegnato ad ammassare danaro. Fu lo zio Gus che finanziò il primo safari africano.
Partimmo a dorso di mulo da una fattoria fuori mano e aggirammo Yellowstone Park. Mentre ero con loro, gli alci, i quali sono dotati di un olfatto particolarmente sottile, fiutavano la nostra presenza nell’aria e si buttavano nel parco, dove erano salvi. Troppo miope per poter maneggiare un fucile, passavo il tempo a guardare il paesaggio, a osservare da lontano gli orsi, i castori nello stagno, e a guardare Hem nella sua veste di cacciatore. Non fumava mai: aveva l’olfatto acutissimo. Sentiva un alce quasi altrettanto rapidamente di quanto l’alce sentiva il cacciatore.
Hem teneva già sotto il suo controllo la gente del ranch. Tutti lo consideravano il tipo più formidabile che avessero mai incontrato. Aveva il comando nelle vene. Pensavo che sarebbe stato un capoguerriglia eccezionale. Aggiungi il senso della topografia, che aveva fino come quello di un tattico militare. Sapeva quale sarebbe stato l’aspetto della prossima vallata prima ancora che il suo cavallo avesse raggiunto la cresta del monte.
Sulla via del ritorno a Billings, sulla sua Ford da turismo Hem ci portò in un fosso. La strada era stretta e lui era stato abbagliato dalle luci di una macchina che veniva nel senso contrario. Tutti mi accusarono per la mia cattiva vista, ma io posso giurare che era Hem alla guida. Naturalmente tutti avevamo bevuto buone dosi di Bourbon.
La macchina si rovesciò a gambe all’aria. C’ingegnammo a venirne fuori da sotto, ma Hem si era rotto malamente un braccio e rimase nell’ospedale di Billings per settimane. Era tipico di Hem, per un certo lato del suo carattere, il comportarsi come fece in quella contingenza: quando Archie Mc Leish si prese il disturbo di arrivare fin laggiù per fargli visita, Hem disse ad altri amici che Archie era venuto per vederlo morire.

Era questo il periodo della grande depressione. La cosa non riguardava molto me personalmente. Katy possedeva la casa di Provincetown, dove avevamo messo il nostro quartier generale, e io guadagnavo abbastanza ampiamente per i nostri viaggi. Mi piaceva dire che ero rovinato tanto prima quanto dopo il crak della Borsa. In ogni caso i miei libri potevano difficilmente essere venduti meno, per questo motivo. Ma la esperienza degli altri che mi stavano attorno mi diede la misura del fallimento del capitalismo della Nuova Era.
La mia teoria politica era allora che il Partito Comunista degli Stati Uniti aveva il compito di fare da guastafeste. Essendo io un indipendente, senza un vero interesse personale per darmi molto da fare, dipendeva solo dalla mia volontà il sostenere quelli degli obiettivi del Partito che io approvavo come capaci di rendere gli americani consci di quanto fossimo arretrati sul terreno delle libertà. Continuavo a scrivere a Hem e agli altri amici scettici che ero sul punto di liberarmi dai miei impegni con i radicali, ma la tentazione continuava a sollecitarmi.
[…]
Poco dopo l’entrata in carica di Franklin D. Roosevelt, ricaddi malato di febbri reumatiche. Il dottor Gantt, col quale, durante la lunga affamata galoppata nel Caucaso, avevo legato una solida amicizia, era tornato in patria ed era alla John Hopkins Medical School, per fondare un laboratorio pavloviano e per lavorare con Adolph Meyer, lo psichiatra svizzero che dirigeva il Phipps. Avevo portato Katy a Baltimora per farsi togliere le tonsille e mi cacciai nel suo letto di ospedale appena lei ne era uscita. Restai là per parecchie settimane penose, leggendo A la recherche du temps perdu. Proust è proprio lo scrittore da leggere quando si ha la febbre. Quando stavo bene, non ne avevo mai avuta la pazienza.
I miei amici si fecero vedere tutti. Ernest mi mandò un bigliettone, di quelli che lo zio Gus gli aveva dato per il safari in Africa. Gerald e Sara mi pagarono il biglietto su un piroscafo delle linee italiane, di modo che potessi passare la convalescenza ad Antibes. Horsley riunì al mio capezzale tutti i più grandi medici.
Scott viveva a Baltimora, perché Zelda era in cura del dottor Adolph Meyer. Veniva nella mia camera di ospedale e restava là, tormentato e immelanconito. Tentavo di persuaderlo che non aveva ancora dato il meglio come scrittore. E veramente ero così certo che non aveva ancora scritto il suo libro migliore che non volevo pubblicasse The Crack Up. Come è facile dare agli amici dei cattivi consigli! Invece, questo fu uno dei suoi libri migliori.
In quel momento Scott stava affrontando le avversità con una forza d’animo che trovavo ammirabile. Stava cercando di allevare Scottie, di fare per Zelda tutto quello che poteva, di trattenersi dal bere, e di dare ai giornali regolarmente dei racconti, per sopperire alle enormi spese cui doveva andare incontro per curare la moglie. Nello stesso tempo era deciso a continuare a scrivere romanzi di prim’ordine. Con l’età e l’esperienza, le sue esigenze letterarie si erano fatte sempre più severe. Non ho mai ammirato un uomo come ho ammirato lui. Aveva tanti guai, più di quanti ne avessi io, che spesso pensavo che avrei dovuto essere io seduto al suo capezzale, invece che lui al mio.

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venerdì 13 maggio 2016

Hemingway e Picasso visti John Dos Passos (2 di 4)

1927 - Hemingway a Gstaad

John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 212-223

[…] In ogni caso, gli americani negli anni Trenta erano alla moda, in Europa. Dollari, grattacieli, jazz, tutto ciò che veniva da Oltreatlantico, aveva un che di romantico. La pittura di Gerald, quando i suoi quadri furono esposti a Parigi, sembrò l’epitome dello chic di Oltreoceano.
Non passò molto che Gerald e Sara dovettero prendere una posizione di difesa contro l’assalto della società bene francese. Infatti essa preferiva i pittori agli uomini di lettere, tanto pignoli. Léger - che aveva il dono di fare di tutto ciò che vedeva o gustava o udiva, una sua personale composizione - era il loro preferito, come del resto era il mio; Sara divenne anche amica di Picasso.
Picasso era un uomo piccolo, chiuso e bruno. Non aveva nulla dell’estroversione spontanea che fa in genere, degli spagnoli, gente con cui ci s’incontra facilmente. Era sarcastico, cinico, stile contadino spagnolo: il cinismo di Sancho Panza. Mi sembrava impenetrabile perfino nei momenti di distensione e di allegria. Era il maestro costruttore, il muratore, l’artigiano. Era l’intelligenza incarnata. Gli mancava l’umanità. I greci lo avrebbero chiamato deinos[1] come avevano chiamato Ulisse. Non era possibile avvicinare né l’uomo né la sua opera - l’uomo e l’opera erano inseparabili - senza provare una profonda ammirazione per i suoi gesti eleganti, per la sagacità delle sue dita, la precisione del suo colpo d’occhio; se avesse avuto il dono della compassione, sarebbe stato grande come Michelangelo.
Hemingway si lasciò sedurre anche lui da un viaggio ad Antibes, ma non ricordo se ci incontrammo; forse io non ero là in quel momento. So però che non si sentì a suo agio, nonostante volesse bene a Sara Murphy. I pescatori sembra che non provino piacere a nuotare. Deve aver giudicato piuttosto idiota farsi arrostire al sole sulla spiaggia. Per stare bene a Villa America bisognava entrare a far parte del rituale che era stato inventato da Gerald. Hem era già troppo uomo-spettacolo per poter prendere parte alla sciarada di un altro.
Hem a quel tempo era una figura in vetta al Walhalla della Parigi letteraria. Ford Maddox Hueffer tentò di averlo con sé alla redazione del «Transatlantic Review». Era amico di Pound. Andava a cena con Joyce. Era stato adottato da Gertrude Stein. Pensava a un libro per l’editore Querschnitt, di tauromachia, che Picasso avrebbe illustrato.
Una delle cose che ci aveva uniti era il nostro entusiasmo per tutto quanto riguarda la Spagna. Molte delle mie permanenze a Parigi furono in transito da o per la Spagna. Hem e Hadley s’erano fermati a Vigo, quando avevano accompagnato per la prima volta Bumby in Europa, e giunsero a Parigi con stupendi ricordi di Compostella, delle Asturie e dei Paesi Baschi. La mania di Hem per la Spagna giunse al suo culmine quei giorni torridi di agosto, quando per la prima volta partecipò alla Fiesta di San Firmino a Pamplona.
Io non ero a Pamplona l’anno delle prime grandi festività che diedero a Hem l’idea di scrivere Il sole sorge ancora, ma v’ero l’agosto dopo. Eravamo tutti all’Hotel La Perla.
Tutti guardavamo Hem. V’era un’inglese titolata, incallita, che fra di noi chiamavamo Duff. Hadley era ancora sposata con Hem, ma io ebbi l’impressione che le piccole Pfeiffer, Pauline e Jinny facessero parte del gruppo. V’era un ufficiale dell’esercito inglese che chiamavamo Chink. V’era Don Stewart: e anche Bill Bird e sua moglie e un loro giovane amico che si chiamava George O’Neill. V’era anche Robert McAlmon.
I Bird erano simpatici, anche se erano degli espatriati, ma McAlmon non riusciva a piacermi. V’era su di lui un che d’ambiguo; e il fatto che io pensassi di lui che era un avventuriero mi faceva provare un po’ di vergogna. Può anche darsi che vi fosse Harold Loeb. E forse v’era altra gente.
Dopo aver letto il romanzo, non so più bene quali siano gli eventi realmente vissuti che Hem incluse e quali abbia inventato. Fu come un viaggio organizzato da Cook, con Hem maestro di cerimonia. Le feste di San Firmino sono qualcosa di terrificante. Bande, processioni, corride. L’arrivo dei tori, la loro cattura, le galoppate attraverso le strade. Ogni piazza piena zeppa di agili paesani che ballano in berretto blu. Da ogni vicolo i ritmi dei pifferi e dei tamburi baschi, il belato delle cornamuse galiziane o il clangore delle nacchere. Ogni gruppetto si portava il suo otre di vino. Per quanto ricordo, l’esuberanza però non superava mai certi limiti. Le buone maniere fra gente che crede nella dignità umana sono una questione di vita o di morte. Tutti dovevano essere muy hombres con i tori. Gli si correva incontro, quando venivano condotti all’arena: si tentava di entrare nel recinto, quando venivano esaminati dagli incaricati; al momento della capea i tori venivano lasciati al pubblico, che invadeva il recinto. Erano tori giovani, e non fra i più feroci. Ma quando venivano circondati da una folla di giovanotti navarrini che li provocavano con i giubbotti e con i fazzoletti reagivano talvolta con inaudita violenza. Parecchi giovani furono feriti, senza però che alcuno, quell’anno, fosse ucciso.
Fare mostra della mia insipienza intorno all’etica taurina, in una pista di tori piena di navarrini agilissimi ed esperti, non era esattamente ciò che consideravo un pomeriggio piacevole. Ma Hem voleva essere presente fra gli aficionados. I suoi compatrioti americani si facevano pure un punto di onore di mostrare il loro entusiasmo. L’ironia fu che, dopo aver apertamente respinto tutta la faccenda, mi trovai faccia a faccia con un toro. Aveva appena saltato la barriera e stava caricando lungo il corridoio sul lato opposto. Ci guardammo negli occhi. Ci lasciammo perdere. Mi arrampicai rapidamente sul marciapiede del muro di cinta ed entrai in prima fila fra gli spettatori. Raccontai che andavo cercando un punto elevato dal quale prendere i miei soliti schizzi.
Ci divertimmo, mangiammo bene, bevemmo bene, ma nel gruppo v’erano troppi esibizionisti perché la situazione fosse di mio gusto. La vista di una folla di giovanotti che tentano di dare prova tangibile di quanto siano hombres mi dava sui nervi. Potevo divertirmi, di tanto in tanto, a una corrida, prendendola come uno spettacolo, ma ogni giorno, per una settimana, era troppo.
Per Hem la cosa era diversa. Egli aveva una enorme possibilità di concentrazione su qualsiasi cosa lo interessasse nel momento. Fosse la Sei Giorni di bicicletta, o una corrida, lo sci o la pesca alla trota, si buttava a corpo morto.
Si attaccava come una sanguisuga fino a che l’esperienza gli fosse entrata tutta nel sangue. Entrava nella confidenza dei professionisti del luogo e si saturava delle loro sensazioni, fino al punto di accensione. Eccetto che nel caso di qualche scienziato, che ho visto perseguire fino all’esaurimento un esperimento difficile, non ho mai conosciuto alcuno che possedesse una tale facoltà di assorbimento. Talune delle migliori opere di Hemingway sono nate da questa qualità. Quando ha descritto il lavoro del matador in Morte nel pomeriggio sapeva bene ciò di cui parlava.
Gli spagnoli erano simpatici, io ero fedele a Hem e a Hadley, ma non avrei sopportato la parte americana di quella folla se non vi fosse stata una certa giovane donna. Stavo scoprendo la verità del detto di Ben Franklin: «Un uomo e una donna sono come un paio di forbici; nessuna delle due parti è utile, senza l’altra.» Avevamo costruito una specie di nicchia privata, dalla quale guardavamo quell’andirivieni, partecipando agli avvenimenti, senza però subirli. [...]

Durante l’autunno precedente, oppure durante il seguente, non ricordo bene, Hem mi lesse Torrenti di primavera. Cominciò un pomeriggio d’autunno, col sole rosso, alla Closerie de Lilas. Certe parti erano davvero buffe, soprattutto quando introduce nell’azione del libro l’indiano del Michigan - Hem aveva la mania degli indiani - ma per altri lati, mi metteva in imbarazzo. Io m’ero a suo tempo prodigato per convincere Horace Liveright a pubblicare in America In Our Time, e sembrava ora che Hem volesse ritenermi in parte responsabile di un contratto tutt’altro che conveniente, che egli firmò, concedendo a Liveright opzione su un certo numero di opere future.
Scott, che vantava pretese di talent scout, ed era disinteressatamente generoso con altri scrittori, stava dandosi da fare come un demonio per convincere Max Perkins a prendere Hemingway da Scribner.
Scott aveva per Hem una specie di capriccio letterario: per lui era lo stilista sportivo, il pugile narratore. Una sera, parlando di Hem, fummo d’accordo nel pronosticargli il destino di un Byron dei nostri giorni. Scott aveva ragione. L’editore che andava bene per Hem era Scribner, ma come disfarsi del contratto con Liveright?
Io non ho mai capito bene che cosa abbia inteso fare Hem col Torrenti di primavera. Aveva deliberatamente scritto delle cose che Liveright, nella sua veste di amico e editore di Sherwood Anderson, non avrebbe per nessun motivo al mondo voluto pubblicare, o questo libro era il risultato dello scherzo malvagio di un ragazzo senza cuore? Senza dubbio, quando me lo ha letto a voce alta, ho riso; ma ho fatto del mio meglio per convincerlo a non pubblicarlo, per lo meno subito. Gli dissi che per reggere come parodia non era uno scritto sufficientemente buono, e che, d’altra parte, In Our Time era stato un libro tanto maledettamente ben riuscito che era meglio, per una nuova pubblicazione, aspettare di avere qualcosa di veramente eccezionale da mettergli a confronto.
Quella sera convenne con me volentieri che Sherwood Anderson sarebbe stato l’ultimo uomo al mondo di cui avrebbe voluto urtare la suscettibilità. Sherwood era stato molto gentile con Hem, quando da ragazzo aveva lavorato a Chicago, e tutti e due sapevamo bene come egli fosse, perfino infantilmente, sensibile. Ero d’accordo con Hem nel ritenere Dark Laughter un libro sentimentale e sciocco, e che era pur necessario che qualcuno glielo facesse notare, ma ritenevo che quel qualcuno non dovesse essere Hem. Hem aveva un modo molto indisponente di mettersi d’improvviso, nel bel mezzo della conversazione, a canterellare. Quando, quella notte, ci separammo, ero convinto di averlo dissuaso dalla pubblicazione del Torrenti. Può darsi che questo non fosse affar mio, però in quei giorni gli amici erano amici. Ma la cosa non andò come io avevo creduto.[2]

Gli ultimi giorni belli che Hem, Hadley ed io passammo in Europa, furono quelli di Schruns, nel Vorarlberg austriaco. Avevano scoperto lo sport dello sci l’inverno precedente a Schruns. Gerald e Sara s’unirono a noi. Tutto costava incredibilmente poco. Eravamo in un grazioso hotel vecchio stile, con stufe in maiolica, che si chiamava Taube. Mangiavamo «forellen im blau» e bevevamo kirsch caldo. Il kirsch era tanto abbondante che ce ne davano per frizionarci, quando rientravamo dalle escursioni sulla neve.
Allora si sciava secondo la natura dei luoghi. Per le salite ci servivamo delle pelli di foca. La grande escursione conduceva, attraverso un vasto campo di neve al di sopra della città, fino alla Madlener Haus. Era una specie di club sciistico, un rifugio, con fuochi scoppiettanti e cibo caldo. La gente era cortesissima. Tutti ti dicevano: «Griiss Gott» quando t’incontravano. Sembrava di vivere in una cartolina di Natale dei vecchi tempi. Hem si era dato allo sci anima e corpo. Faceva esercizio senza posa. Doveva essere il più abile. Gerald era un tipo di perfezionista anche lui, ma diverso. Si stabilì fra loro una gara, chi dei due sarebbe diventato in quattro giorni uno sciatore completo. Erano ben buffi tutti e due.
Credo di essermi divertito molto più di tutti, perché, fin dal primo giorno, capii che non ne avrei cavato niente. Troppo terribilmente maldestro. Soffiando e sudando, con le mie pelli di foca, salivo in vetta per godermi di lassù il bel panorama. Non faceva troppo freddo.
Al sole faceva caldo. Le montagne coperte di neve proiettavano ombre azzurrine e purpuree. Bisognava essere prudenti perché, nel pomeriggio, si correva rischio di valanghe. Ne vidi una, sulla nostra pista, mentre scendevamo dalla Madlener Haus e m’impressionò molto. Salendo mi sentivo bene, ma scendendo dovevo ricorrere a tattiche personali perché non sono mai riuscito a curvare. Il meglio che potevo fare era cadere. Quando la discesa era troppo ripida, sedevo sui miei sci e li usavo come una specie di toboga. Quando, al rientro a Schruns, fu scoperto che il fondo dei miei pantaloni era consumato fino a essere liso, ne sentii di tutti i colori. Ai pasti non riuscivamo neppure a mangiare dal gran ridere che si faceva. In quella settimana passata a Schruns ci prendevamo in giro a vicenda, tutti. Mangiammo una gran quantità di trote, bevemmo vino e birra e dormimmo come ghiri sotto i grandi piumini. Eravamo fratelli e sorelle quando ci lasciammo. Fu un vero choc sapere, qualche mese più tardi, che Ernest e Hadley s’erano separati. Quando si vuol bene a una coppia si vorrebbe che non si dividesse mai.




[1] NOTA di GCM: Persona che incute timore.
[2] Per approfondimenti rinvio al mio post Hemingway a Parigi



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mercoledì 11 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (1 di 4)


John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 196-205

[…] Non ricordo come ci siamo incontrati. Nonostante le sue preoccupazioni riguardo alla posizione sociale, Don riusciva a sembrare buffo qualsiasi cosa facesse. Noi ridevamo come matti tutte le volte che ci si vedeva.
La mia mancanza di orientamenti di carattere sociale gli sembrava deplorevole. Era deciso a farmi incontrare la gente giusta. Nonostante tutto gli sarò eternamente grato di avermi presentato a Gerald e Sara Murphy.
Deve essere avvenuto a Parigi. Avevo già perduto un bel po’ del mio appetito per la Ville Lumière, anche se amavo i concerti, i musei e il tè agli Championnière, rue de Clichy. Nella primavera del 1922 già scrivevo ad Arthur McComb che conoscevo Parigi troppo bene. «I ricordi mi fanno le boccacce da tutti gli angoli. Non mi rammento se si tratta di quest’anno o dell’anno precedente. Si può a mala pena sopportare il presente, ma incontrare a ogni passo il passato col suo eterno specchio infernale è insopportabile . . . una cosa che detesto.»
L’incontro con Don Stewart a Parigi significò vedere la città in una nuova fantasiosa visuale tipo commedia di Madison Avenue: Mr. and Mrs. Haddock Abroad. Quando mi condusse dai Murphy mi diede l’opportunità di conoscere qualcosa di ben diverso dalla mischia dei letterati espatriati che gravitava intorno a Montparnasse, dei quali già avevo orrore.

Naturalmente Hemingway costituiva un’eccezione, così come Cummings. In quel tale universo privato che stavo confezionando a mio uso, la gente di lettere in genere, in particolare il Greenwich Village e gli esuli di Parigi, stavano fra le categorie scomunicate.
Il loro atteggiamento verso la vita mi dava la nausea. Ma dal momento nel quale cominciavo a stringere amicizia con uno o con una di loro, immediatamente costui o costei diventava l’eccezione unica e intoccabile.
Don, Ernest ed io avevamo già cominciato a frequentarci con regolarità nel periodo nel quale conobbi i Murphy; credo comunque che Ernest ed io ci siamo conosciuti l’anno nel quale è stato pubblicato l’Ulisse,[1] mentre era a Parigi per il «Toronto Star».[2]
Ricordo vagamente una colazione con lui e con Hadley al Lippe, (sic!) prima che nascesse Bumby; Ernest parlava splendidamente di una qualche conferenza internazionale alla quale aveva recentemente partecipato.[3] Quando era giovane, possedeva un acume tale per le cose politiche che non incontrai mai più qualcuno che lo uguagliasse. La sua conoscenza del linguaggio delle palestre di boxe e dei posti di polizia, che aveva acquisito a Kansas City e a Toronto, gli aveva fornito quel mezzo di comunicare diretto il quale dava alle sue storie il tono della verità. Tutto era messo a fuoco con estremo nitore. Io trovavo molto stimolanti i suoi giudizi aspri su Clemenceau, su Lloyd George e su Litvinov. Ci trovavamo perfettamente d’accordo nell’avere per Liebknecht e per Rosa Luxemburg una specie di culto geloso. Deve avermi mostrato un breve pezzo,[4] che in seguito incluse in Our Time,[5] perché ricordo di averlo fin da quel momento giudicato scrittore dotato in alto grado del possesso della lingua inglese.
Comunque, in qualsiasi circostanza di tempo sia avvenuto questo nostro incontro, ne parlammo parecchio insieme, nel tentativo di ricostruirne gli estremi, riandando nella memoria a un tempo nel quale nessuno di noi due aveva neppure la minima idea che sarebbe divenuto in seguito ciò che, nonostante le nostre ironie, il povero Sherwood Anderson qualificava «personaggio mondiale». Un primo incontro fra noi può darsi fosse già avvenuto, a Schio, nel maggio 1918, quando Ernest era appena arrivato in Italia con la 4a Sezione Ambulanze della Croce Rossa, ed io stavo per lasciare la 1a Sezione di Bassano in un mare di guai. Fairbanks ed io avevamo spesso il compito di portare i feriti a una base ospedaliera vicino a Schio e il nostro incontro con la 4a Sezione può essere avvenuto appunto in uno di questi viaggi. Ernest ed io ci ricordavamo vagamente l’uno dell’altro.
Fu soltanto nel 1924, quando Hem, come eravamo in molti a chiamarlo, e Hadley vivevano nella segheria della rue Notre-Dame-des-Champs,[6] che iniziò fra noi due quel gioco reciproco di convivenza che si protrasse nelle nostre vite. Hadley mi fu simpatica fin dal primo incontro. Era nato Bumby.[7] Era stato durante una delle mie corse a Parigi da un treno all’altro.
Con Hem m’incontravo di tempo in tempo alla Closerie des Lilas all’angolo di Saint-Michel con Montparnasse a bere delle bibite innocue come vermouth-cassis mentre si parlava delle difficoltà di metter sulla carta i propri pensieri; tutti e due stavamo leggendo il Vecchio Testamento. Ci leggevamo dei brani a vicenda. I nostri passi preferiti erano il canto di Deborah, il Libro delle Cronache e il Libro dei Re.[8]
Era uscito In Our Time ed io lo sostenevo a spada tratta. Appoggiavo le mie asserzioni sulla constatazione che Hem, con i suoi acuti, brevi periodi, secondo il linguaggio telegrafico o alla King James Bible, sarebbe diventato il più grande stilista della lingua americana.
Doveva essere primavera, perché eravamo seduti in un piccolo giardino triangolare fra i due boulevards e ricordo che mi aveva divertito il fatto che, a dispetto del nome, un vero giglio fioriva nella Closerie.
Poi siamo tornati, attraverso la folla delle cinque, alla segheria, per aiutare Hadley a fare il bagno a Bumby. Bumby era un bambino grasso, pieno di salute, affabile, e si divertiva di tutto. Lo si metteva a letto e dopo lo lasciavamo alle cure di una piacente, vivace contadina francese che veniva alla segheria a questo scopo, e noi tre uscivamo per cena. Aiutare a mettere a letto i figli degli amici prima di uscire per la cena era diventato uno degli aspetti piacevoli della società dei giovani in America; io mi ci sono sempre divertito. Gli uomini, quando hanno accanto una donna, diventano meno egoisti. Allo stesso modo, sia i giovani uomini che le giovani donne, quando hanno da prendere cura dei loro marmocchi, finiscono per essere più autentici, meno sussiegosi.
Fin dal principio Hem fu sempre terribilmente predisposto agli incidenti. Non ho mai conosciuto un uomo che abbia provocato tanti danni quanto lui alla propria carcassa. È di questo periodo l’episodio del lucernario dell’abbaino esterno al suo appartamento, che gli cadde in testa e gli provocò un trauma cranico e un taglio nel cuoio capelluto per cui fu necessario un ricovero in ospedale di alcune settimane.[9] La cicatrice gli rimase per tutta la vita.
Quando non c’era l’incidente, c’era il mal di gola. Era come uno di quegli atleti professionisti i quali, nonostante siano forti come tori, hanno sempre qualcosa. Mi sono costantemente difeso dal battermi alla boxe con Hem; il fatto che io porto gli occhiali ha offerto una buona scusa al mio desiderio di non competere con lui in questo settore.
Io non sapevo neppure andare in bicicletta. Hem andava matto per le corse in bicicletta. S’infilava in un maglione a righe come quello dei corridori del Tour de France e pedalava lungo tutti i boulevards esterni con le ginocchia all’altezza delle orecchie e il mento fra i manubri. Io trovavo tutto ciò un po’ sciocco, ma a quel tempo Hem aveva il gusto di certe bambinate.
Aveva una sfumatura di spirito, evangelica, che lo spingeva a cercar di convertire i suoi amici a tutte le sue varie manie. Seguirlo alle Sei Giorni è stato per me un divertimento; la Sei Giorni al Vélo d’Hiver era una buffa storia. Gli eventi sportivi in Francia, per il loro aspetto piuttosto comico, mi divertivano molto. Facevamo la spesa in botteghine e spacci di una di quelle stradette dove ci sono i mercati che piacevano tanto a tutti e due: vino, formaggio, pagnottelle croccanti, pâté e qualche volta pollo freddo; ci sedevamo in galleria; Hem conosceva tutti i dati tecnici, e vita morte miracoli dei corridori. Il suo entusiasmo era contagioso, ma tendeva a fare della cosa un affare serio, mentre per divertirmi, a me bastava bere, mangiare e guardare.
Di tanto in tanto gli veniva in mente che noi due, nella nostra qualità di scrittori di fama internazionale, eravamo rivali; allora diventava silenzioso; oppure capitò anche che mi imponesse freddamente di non scrivere mai niente sulle corse di bicicletta; questa era zona sua. Lo rassicuravo che scrivere di sport non era il mio genere, e che d’altronde Paul Morand aveva già preceduto tutti in La Nuit des Six Jours.[10]
Poteva anche darsi che fosse proprio perché avevo letto Paul Morand che lo spettacolo mi divertiva. Come Hem, anch’io mi sforzavo di cogliere gli eventi e di portarli direttamente sulla pagina; però continuavo ad avere il dubbio che fosse la vita a copiare l’arte, e non viceversa. Hem forzava la povera Hadley a restare seduta là tutta la notte, ma io, quando mi veniva sonno, me la battevo e andavo a dormire a casa mia. Fin d’allora era duro con le sue donne. Eppure sono convinto che sia stato più un costruttore che un distruttore. Quando le lasciava, erano più agguerrite per la vita di quanto non fossero quando le aveva incontrate. Senza dubbio, nei giorni della giovinezza, la versatilità del suo carattere, il suo temperamento estroso avevano sugli altri, che gli capitassero intorno, un effetto stimolante. Nel periodo della nostra amicizia, mi permise un confronto con la vita sportiva che, senza di lui, non avrei mai potuto sperimentare.
Fin d’allora era irritabile. Provava pietà per se stesso. Una delle sue angosce era il non avere avuto una educazione da College. Io gli dicevo che invece questa era una grande fortuna. Che pensasse a tutta la fatica in meno che aveva dovuto fare per dimenticare la cultura della scuola. Gli dicevo, supponiamo che tu fossi andato a Yale e che avessi inciampato nella Skull and Bones come Don Stewart. Rideva e ammetteva che sarebbe stata una rovina.
Hem aveva una vista eccezionalmente buona. La fredda mira del cacciatore. Mi sembrava, in quei giorni, che vedesse cose e persone senza il colore che loro donano i sentimenti o la teoria. Tutto viveva per lui entro una fredda chiara luce bianca, la stessa luce che pervade i suoi migliori racconti. A Clean Well Lighted Place,[11] per esempio.
Aveva la medesima vista acuta riguardo alla pittura. Può darsi che Gertrude Stein, che era tutt’altro che ignorante anche in questo settore della cultura, lo avesse aiutato a sviluppare questa acutezza.
Riconosceva a vista l’eccellenza del colore e del disegno. La Scuola di Parigi era già fin d’allora abbastanza piena di mestieranti da dare la nausea, ma Hem non si lasciava mai ingannare. Si trattasse di politica o di letteratura o di pittura, metteva a punto la situazione con una sola parola di quattro lettere.
Ricordo perfettamente quando comperò The Farm di Mirò[12] - credo sia stato l’ultimo quadro oggettivo che Mirò abbia dipinto - perché ho dovuto correre da tutte le parti per mettere insieme i soldi. Ci si prestava continuamente danaro a vicenda. Aveva saputo che poteva portarselo via per duemila o forse per tremila franchi (una cifra terribilmente piccola in dollari, al cambio allora corrente) e aveva la febbre al pensiero che qualcuno glielo soffiasse. Si portò a casa, alla segheria, il quadro, trionfante. Resta uno dei più bei quadri di Mirò.
Mi domando che valore abbia oggi. In genere, sulla pittura, eravamo sempre d’accordo.
L’entusiasmo di Hem era contagioso. Sebbene io avessi una inveterata inibizione contro qualsiasi gioco, riuscì a condurmi alle corse dei cavalli. Hem dichiarava di vincere grandi cifre e una primavera lo seguii a Longchamps e a Auteuil. Io, come al solito, badavo più allo spettacolo che al danaro. Degas mi aveva insegnato, attraverso i suoi quadri, ad amare i cavalli da corsa e le corse.
Harold Stearns ci passava le informazioni. Harold era un tipo straordinario. Dopo essersi fatto una reputazione come giornalista nel «The New Republic» e in altri giornali liberali e dopo aver pubblicato uno dei primi saggi di maggior successo sulla civiltà americana, era venuto a Parigi.
A Parigi aveva smesso di scrivere e aveva lasciato andare tutto. Perfino il piacere del bere e delle donne sembrava si fosse in lui attenuato. Manteneva un certo fascino. Restava un parlatore piacevole. Tirava avanti, pateticamente, la vita, frequentando i bar e raggranellando i quattro soldi che gli servivano vendendo informazioni sui cavalli ai turisti americani che avvicinava nei vari caffeucci dove era di famiglia.
C’era una corsa ad ostacoli in uno degli ippodromi che si annunciava molto elettrizzante, e Harold ci aveva indicato un cavallino che doveva essere un campione eccezionale; la valutazione al totalizzatore era bassa, trenta a uno, o qualcosa di simile. Agli amici non faceva mai pagare le informazioni, e questa volta giurava su tutto che avremmo sbancato.
Hem ed io riuscimmo a mettere insieme qualche centinaio di franchi e ci avviammo verso l’ippodromo. Harold aveva combinato con un ragazzo di scuderia che ci fosse permesso di dare un’occhiata in privato al cavallo. Era un piccolo baio scuro, piuttosto nervoso. Il fantino ci confidò che puntava su lui tutte le sue risorse. Sbirciammo il cavallo, accarezzammo il suo naso, ci prodigammo in francese e in inglese nel dire un bel po’ di sciocchezze di carattere tecnico. Al totalizzatore il nostro morale era al massimo: facevamo già progetti sul come spendere la vincita, una parte della quale per un pantagruelico pranzo al Foyot.
Il cavallo era senza dubbio un buon saltatore, ma alla rivière mancò, disarcionò il fantino e partì come una palla di fucile nella direzione sbagliata. Prima che lo potessero riprendere saltò un certo numero di ostacoli a ritroso. La corsa fu un disastro. Noi si moriva quasi dal ridere. Per conto mio, ritornato a Parigi ero più che mai convinto che il gioco è una pazzia. Incontrandoci di nuovo all’Henry’s Bar, Harold fece finta di non vederci.
Nessuno di noi due poteva permettersi di perdere una simile somma, eppure tutti e due non riuscivamo a far altro che ridere. Hem aveva appena rinunciato al suo incarico di corrispondente o stava per farlo. Campare con la sola attività di scrittore significava certo andare incontro a tempi duri. L’edizione dell’Our Time che Robert McAlmon aveva fatto uscire a Digione, gli aveva procurato successo nei circoli recherchés ma neppure un soldo. La sua unica sorgente di mezzi era lo scrivere poesiole spinte per una rivista tedesca, il «Der Querschnitt»; non è difficile cogliere il lato scherzoso del nome.

NOTE
di Giancarlo Mauri


[1] Ulysses ¦ by ¦ James Joyce ¦ Shakespeare and Company ¦ 12, Rue de l’Odéon, 12 ¦ Paris ¦ 1922. Sul frontespizio si legge: Printed for Sylvia Beach by Mauruce Darantiere at Dijon, France. - Dal 9 gennaio 1922 Ernest e Hadley abitano al 74 di rue du Cardinal Lemoine, terzo piano.
[2] L’8 gennaio 1920 Ernest prende il treno per Toronto e si stabilisce a casa Connable - 153 di Lyndhurst Avenue - e dopo neppure una settimana chiede a Mr Connable di trovargli un posto nel principale quotidiano dell’Ontario, il Toronto Star, che pubblica un’edizione quotidiana e una settimanale. Connable lo presenta a Arthur Donaldson, capo dell’ufficio pubblicità di entrambi i giornali, che lo porta alla sede di 20 King Street West e lo presenta a due redattori. Dopo aver dichiarato di aver lavorato al Kansas City Star, un modello per i giornalisti del tempo, gli propongono un lavoro pagato a righe per la prima edizione del settimanale. Il 27 dicembre 1923 EH si licenzia dal The Toronto Star Weekly.
[3] Si veda l’articolo intitolato Picked Sharpshooters Patrol Genoa Streets di Hemingway, uscito sul The Toronto Star Weekly del 13 aprile 1922 (Cfr.: La Conferenza di Genova, in By-line, pp 35-37).
[4] The Little Review “Exiles’ Number”, n. 9.3, Spring 1923, è interamente dedicato agli scritti di Statunitensi “attualmente in esilio in Europa” (sic!). Hemingway vi compare con alcuni brevi racconti, poi inseriti in our time.
[5] Con tiratura di 170 copie, in our time - tutte lettere minuscole - esce nel 1924 per conto della Three Mountains Press, Paris. Le Tre Montagne che danno il nome alla Casa editrice sono Montmarte, Mont Sainte-Genevieve e Montparnasse.
[6] Il 10 febbraio 1924 Hemingway scrive ad Ezra Pound d’aver trovato un appartamento semi ammobiliato sopra una segheria al 113 di rue Notre-Dame-des-Champs. Ezra Pound abita non molto lontano, al 70bis. Si tratta della segheria di Pierre Chautard, il padrone di casa e l’appartamento degli Hemingway è al piano superiore. Lo lasciano agli inizi del 1926, quando partono per Schruns (al rientro, gli Hemingway alloggiano all’Hotel Vénétia, Boulevard de Montparnasse).
[7] Il 10 ottobre 1923 a Toronto nasce John Hadley Nicanor detto Bumby: Hadley come la madre e Nicanor in onore al torero Villalta.
[8] Hemingway ricercava tra le pagine della Bibbia i titoli da dare ai suoi racconti: un’ottima operazione di marketing, visto che si rivolgeva per lo più ad un pubblico anglo-americano.
[9] Qui Dos Passos sbaglia: il 10 maggio 1927, con rito cattolico nella chiesa di Passy, Hem sposa la 32enne (4 anni più di lui) Pauline Pfeiffer e i due vanno ad abitare al 6 di rue Férou, vicino alla chiesa di Saint-Sulpice. È in questa casa che nel marzo 1928 avviene l’incidente del lucernario caduto in testa a Hemingway, danno riparato con sette punti di sutura.
[10] Storia inserita nella raccolta Ouvert la nuit, pubblicata da Gallimard nel 1922.
[11] Un posto pulito, ben illuminato, pubblicato la prima volta nel 1933 da Scribner’s Magazine.
[12] La fattoria, olio su tela, 1921-1922, oggi conservato nella National Gallery of Art di Washington che lo ha ricevuto in donazione da Mary Welsh, l’ultima moglie di Hemingway.