lunedì 16 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (3 di 4)



John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 275-292


SOTTO IL TROPICO [1]

Con Hem e Pauline passai nel Key West, a quel tempo, alcuni dei miei giorni più belli. Verso la fine di aprile e i primi del maggio del 1929.
Quando vi arrivai, mi pare su una nave del Merchant e Miners, ero logoro fino alla corda. Avevo messo nel tentativo di lavorare per il «New Playwrights» tutte le mie energie vitali. Un teatro è un’impresa di collaborazione. Soprattutto se tu sei l’autore del pezzo in cartellone, ti senti responsabile di una quantità di brava gente, che ha scialato giorni e notti di lavoro, in tempo e sforzo, tesi alla sua buona riuscita. Anche nel teatro off Broadway bisognava pagare questa gente. Giunsi all’estremo di cavare i soldi, sudatissimi, di tasca mia, perché quel dannato pezzo continuasse a venire rappresentato ancora per due settimane.
Jack Lawson e Francis Faragoh, che avevano famiglia da mantenere, avevano già passato il Rubicone e lavoravano ora negli studi di Hollywood. La politica del partito dominava il «New Masses» e si avvicinava il giorno nel quale avrebbe invaso i teatri sperimentali. Era una logorante fatica di ogni giorno riuscire a sopravvivere senza impazzire. Non era che io avessi tanto bisogno di riposo quanto di potermi dedicare tranquillamente al lavoro cui stavo dando mano, riguardante un certo tipo di narrativa. Quando misi piede, a New York, sulla nave, avevo già rassegnato nelle mani del comitato direttivo le mie dimissioni. Mi stavo liberando del teatro.
Hem mi scriveva lettere piene di entusiasmo, intorno a vasti banchi di sogliole e macarelli, e dei suoi festini a base di aragoste e gamberi. Charles Thompson aveva comperato un sailfish di otto piedi. Le isole Marquesas pullulavano di beccaccini. Mi diceva che la Corrente del Golfo era molto meglio di quando ci ero stato l’anno precedente «come ai giorni dei piccioni viaggiatori e dei bufali».
Hem aveva bisogno di pescare o di andare a caccia. Durante quello stesso inverno il dottor Hemingway, suo padre, s’era sparato.
Non ricordo se ero stato io a parlare a Hem del Key West o se se l’era trovato da solo. Ne avevo parlato continuamente con i miei amici, fin da quando avevo visto il posto per la prima volta, durante uno dei miei viaggi in autostop, nella penisola della Florida. Stanco morto, assetato e con un caldo insopportabile, mi ero ritrovato in una stazioncina ferroviaria. Era entrato un treno. Chiedo al conduttore dove fosse diretto. Dice, Key West. E io dico, bene: e per un qualche miracolo avevo anche i soldi per il biglietto. Non dimenticherò mai la traversata di sogno sul viadotto, l’Old Flagler, che porta alle isole.
A quei tempi, Key West era davvero un’isola. Era un centro carbonifero, con un porto commerciale. L’aria aveva il sentore di Corrente del Golfo. Era un posto unico in Florida.
Cayo Hueso, come metà della gente lo chiamava, era unito all’Avana da un ferry. Le manifatture di tabacco avevano attirato sul posto cubani e spagnoli. Gli operai delle manifatture erano gente interessante, con cui parlare; bene informata e spesso di sorprendenti letture.
Arrotolare sigarette era un lavoro da competenti. Usavano ingaggiare un lettore, per ciascuna delle loro lunghe tavole, intorno a cui lavoravano. Ascoltavano avidamente, non soltanto i giornali socialisti, ma anche i romanzieri spagnoli del XIX secolo e le traduzioni di Dostoievski e di Tolstoi. Era gente che aveva idee personali. La popolazione di lingua inglese era fatta di ferrovieri, di vecchi coloni della Florida, di pochi discendenti degli abitanti del New England, dai giorni nei quali era un porto di baleniere e di pescatori che venivano dalle colonie, di gente bianca come Spanish Wells nelle Bahamas. Nella loro pronuncia non v’era traccia di dialetto volgare. Non si poteva far a meno di ricordare che Key West era stato territorio dell’Unione per tutto il tempo della guerra civile.
V’erano un paio di hotel sonnolenti, dove i passeggeri dei treni, in viaggio per Cuba o per i Caraibi, di tanto in tanto si fermavano a riposare. Palme e alberi di pepe. Le strade ombrose, di case di legno grezzo, avevano un po’ l’aspetto del New England. Le automobili erano rare, perché non v’erano strade praticabili che unissero l’isola al continente, ma soltanto il viadotto ferroviario a linea unica. Il cantiere navale era chiuso. Il custode permetteva alla gente di andare a nuotare al largo dei gradini di pietra, nell’acqua azzurra e profonda del bacino interno. Bisognava stare attenti ai barracuda. A parte questo inconveniente, era una vera delizia.
Alcuni spagnoli tenevano dei piccoli ristoranti, molto buoni, ben forniti di vino della Rioja. Si trovavano facilmente delle graziose bambinaie di colore. Siccome Hem e Pauline avevano nel frattempo avuto due bimbetti, Patrick, presto noto come il Topolino Messicano, e Gigi, al quale, per una qualche ragione, Hem si riferiva chiamandolo ebreo irlandese, questo costituiva un notevole vantaggio. Sembrava che qui nessuno avesse mai sentito parlare di leggi contro il gioco né di proibizionismo. Il posto andava a genio a Hem.
Hem aveva sempre con sé un seguito. Mi ricordo che, quando venne ad incontrarmi al mio arrivo in quel pomeriggio assolato, non era solo. Mi diede appena il tempo di lasciare il mio bagaglio all’Hôtel Overseas e di cambiarmi di abito, che subito tutti insieme andammo a pescare, finché la marea era favorevole.
Charles Thompson, la cui famiglia possedeva il più importante emporio di chincaglierie e di forniture navali del posto, ci accompagnò fuori nella sua barca a motore. La sua graziosa moglie Lorine era con noi, c’era anche Waldo Pierce, con la sua barba, il suo album da disegno e la sua scatola di colori.
Waldo veniva da Bangor, nel Maine. Era un uomo enorme e portava dei favoriti cespugliosi che lo facevano assomigliare a un Nettuno uscito da una fontana barocca di Roma. Era un compagno di scuola di Jack Reed ad Harvard e aveva una storia che era diventata leggenda: uscito da poco dal College andava in Europa con un amico, a bordo di un cargo che trasportava bestiame; al largo di Sandy Hook, Waldo aveva deciso che non gli piaceva il tono di voce del comandante in seconda e aveva scavalcato il bordo, aveva nuotato fino a riva; qui s’era comperato un biglietto di prima classe e aveva ripreso la nave all’attracco sull’altra sponda. L’altra storia era che Jack Reed era stato imprigionato perché aveva fatto fuori un suo camerata. Waldo era un pittore estremamente produttivo. Aveva una tavolozza alla Renoir. Non finiva mai di dipingere o di disegnare, e non finiva neppure mai di parlare.
Mi piacevano tutti a bordo, ma in realtà non avevo occhi che per Katy. Katharine Smith era quasi stata adottata dagli Hemingway: le loro famiglie passavano l’estate insieme nel Nord del Michigan. Hem e il fratello minore di lei, Bill, da ragazzi, erano stati inseparabili. Lei chiamava Hem, Wemmage, e lo trattava con l’affettuosa condiscendenza di una ragazza col proprio fratello minore. Quando Hem lavorava a Chicago, prima di andare in Italia con la Croce Rossa, viveva come uno della famiglia in una specie di appartamento cooperativo diretto dal fratello maggiore di Katy, Y.K. Lei era stata amica di Hadley e aveva conosciuto Pauline e sua sorella Jinny all’Università del Missouri. Erano tutti compagnoni. Fin dal primo momento non potevo pensare ad altro che ai suoi occhi verdi.
In aprile fa già caldo a Key West, quando spira l’aliseo. Pescavamo avanti e indietro fra le rive e un vecchio piroscafo bianco che era finito in secca durante un uragano. Aveva perduto il fumaiolo e gli erano state tolte le macchine. Waldo lo dipinse in un quadro che tuttora è appeso nell’atrio del primo piano, a Spence’s Point.
Quando Charles portava il suo battello in una certa ansa lontano dalla città, s’alzava verso di noi un’incredibile dolce fragranza, come di limoni in fiore, insieme a nugoli di moscerini.
Hem si portava un paio di bottiglie di champagne che appoggiava sul ghiaccio destinato a tenere al fresco i muggini nel secchio delle esche. La regola era che non si poteva bere prima che qualcuno avesse preso un pesce. Il sole tramontava in un festoso susseguirsi di rosa e di ocra.
Quella sera cominciammo a pescare al chiaro di luna. Non sono sicuro che qualcuno abbia preso quella notte un tarpon, ma certamente ci fu una presa, perché ricordo l’arco di acciaio scuro nel pallido riflesso della luna, a pelo d’acqua, quando il pesce saltò.
Si dice che il tarpon abbocchi soltanto quando la marea è bassa e l’acqua, tepida, nei canali. Finita la pesca e anche lo champagne, Charles disse in uno sbadiglio che l’indomani mattina avrebbe dovuto andare a lavorare nel magazzino alle sette, e ci accompagnò allo scalo.
Anche se non avevamo preso neppure un tarpon, ricordo che io mi sentivo ugualmente felice perché la cattura di questo pesce mi era sempre sembrata un po’ una cattiva azione. Odiavo di vedere il grande mostro d’argento giacere nella polvere, sulla banchina. Questi pesci non sono commerciabili. L’unico uso che se ne può fare è conservarli per decorazione. Molti ne fanno con la pelle essiccata delle cianfrusaglie. La pesca al tarpon è pura e semplice vanità.
All’Asturia mangiammo un boccone prima di coricarci. Sogliole fritte alla francese e bonito in salsa di pomodoro erano la specialità del luogo. Era una delizia chiacchierare amabilmente di una quantità di cose finalmente senza inciampare nelle questioni di quella dannata politica. Non c’erano fra noi tabù. Potevamo tutti dire la prima cosa che ci saltava in mente. Dopo i bizantinismi ideologici del New Theatre, Key West mi sembrava un Eden.
Hem era il tipo migliore del mondo, per andare in giro quando tutto andava bene. Quella primavera era una splendida stagione per i tarpon. Tutte le sere Charles ci portava in mare a pescare, e noi pescavamo, bevevamo e chiacchieravamo chiacchieravamo chiacchieravamo, nelle notti di luna. Durante il giorno, dopo che Hem ed io avevamo fatto il nostro pisolino - tutti e due ci alzavamo molto presto al mattino - andavamo con Bra sugli scogli.
Bra era un Conch. Così si chiamano i bianchi dello Spanish Wells, nelle Bahamas. Il suo vero nome era Sanders. Hem, che immediatamente era diventato, stando con lui, né più né meno che un Conch, convinse il capitano Sanders a portarci fuori in mare. Nessuno aveva mai sentito parlare di una locazione di battello in gruppo. Quindici dollari fu considerato un prezzo equo, per la giornata.
A vela o a motore che fossero, tutti i battelli erano da pesca. Avevano un vivaio a metà barca per conservare il pesce vivo. Key West aveva una fabbrica di ghiaccio, ma alla pescheria, sulla banchina, quando si comperava il pesce, veniva preso vivo da un grosso bidone con una pala a rete. Un altro grosso recipiente era pieno di tartarughe di mare. La pesca delle tartarughe di mare era nel luogo un affare importante.
Il fascino di questa grande varietà di creature, che si trovava nella rete, per me era enorme. Nonostante io non sia mai stato un grande pescatore, mi piaceva uscire in mare con loro, anche soltanto per il piacere di navigare a filo d’acqua e ammirare i mille colori. Dicevo che pescavo per la comunità. Anche se amava la competizione come un cavallo di razza, Hem non era a tal punto lo sportivo professionista da guastarmi il piacere. Il mio entusiasmo per i grandi pallidi lunatici pesci, noti nel paese come pesce montone, era tale che Katy cominciò a chiamarci Mutton fish. E questo soprannome mi restò per un certo tempo. Ci sposammo a Ellsworth, nel Maine, in agosto. Una delle lettere più belle che ricevemmo fu quella di Hem, che aveva passato l’estate in Spagna a seguire le corride. Disse che era diabolicamente contento che «voialtri cittadini» vi foste sposati. Io gli avevo scritto che stavo finendo il primo volume di quello che, con mia somma sorpresa, divenne poi una trilogia. «Le trilogie sono senza dubbio la cosa - prendi esempio da Padre Figlio e Spirito Santo - della quale nulla esiste di meglio.»
Questa fu una delle poche allusioni, nella nostra corrispondenza, alla religione. Ernest s’era fatto cattolico per sposare Pauline, e con un certo numero di ocus-poculus aveva fatto in modo di farsi annullare il matrimonio contratto in precedenza con Hadley.
Nel resto della sua lettera continuava dandomi informazioni della vita dei nostri amici; Don Stewart s’era rovinato con la firma a un contratto di 25.000 dollari e per aver incontrato i Whitney. «Spero che tu eviterai tutto ciò - non firmare mai niente - spara senza esitare non appena vedi il bianco degli occhi di un Whitney.» John Bishop s’era rovinato per aver sposato una ragazza con rendita. «Tieni i soldi lontano da Katy.» La giovinezza eterna aveva mandato a picco i Fitzgerald. «Invecchia, Passos. Fa’ invecchiare Katy.» Il vecchio Hem era rimasto annientato dal suicidio del padre. Io tolsi al vecchio padre di Katy tutte le armi da fuoco.
Dovevo correggere le bozze del 42° Parallelo prima di partire per il viaggio trionfale che avevo progettato, per mostrare a Katy gli angoli che mi erano familiari dell’Europa e per presentarla ai vecchi amici. Scrissi a Hem di pregare per la mia battaglia in favore delle parole che dicono pane al pane. Abbandonando all’incertezza la soluzione di questa battaglia, feci in modo d’imbarcarmi il 23 novembre sul piroscafo francese di linea Roussillon.
Io non ero mai stato tanto felice, ma la sfortuna s’era abbattuta intanto sui miei amici. Canby Chambers era stato stroncato dalla paralisi l’estate precedente. Era stato ricoverato, ma rimase paralizzato per tutta la vita dalla cintola in giù. Prima di partire ci raggiunse la cattiva notizia che il piccolo Patrick Murphy aveva la tubercolosi.
A Parigi incontrammo i Fitzgerald, che abitavano da qualche parte verso l’Étoile. Questa era la prima volta che vedevamo Scottie. Era un’adorabile bambina molto sveglia, ciò che gli amici di mia madre avrebbero detto una ragazzina all’antica, ed era stata affidata a una governante inglese che fece venire sia a me che a Katy la pelle d’oca. Scott stava bevendo e Zelda era purtroppo lontana dall’essere veramente in sé; era ossessionata dall’idea di ballare nel Balletto Russo. Era una buona ballerina, per ballare fra amici, ma con la migliore buona volontà del mondo era impossibile cominciare a diventare una professionista di balletto alla sua età. Per chiunque li amasse, lo stare con i Fitzgerald era un vero rompicuore.
Katy ed io navigammo lungo la Senna sui bateaux-mouches, nella luce ocra del sole invernale. Abbiamo cenato allo Sceaux-Robinson e abbiamo fatto il giro dei caffè assieme a Blaise Cendrars, la poesia del quale era, a quel tempo, la mia passione, assieme al suo cane bianco Samoyed, che era il suo inseparabile compagno. Cendrars era un uomo simpatico e mi piaceva come mi piacevano i suoi scritti, però io, col passare degli anni, mi allontanavo sempre più dalla vita letteraria.
Jeanne Léger ci confezionò il migliore blanquette de veau che nessuno abbia mai mangiato. Jeanne era la modella molto ricercata che Fernand aveva sposato agli inizi della sua carriera. Non vivevano insieme, perché Jeanne, nonostante fosse una donna molto attraente ed una cuoca meravigliosa, aveva un béguin per dei giovani amici terribili; ma per il resto i due vivevano secondo le regole, in un modo tipicamente francese, molto curioso e formale. Hem, Pauline e Jinny Pfeifer tornarono dalla Spagna e tutti insieme andammo a Montana Vermala, vicino a Sierre, nelle Alpi Svizzere, a passare il Natale assieme ai Murphy. Gerald e Sara stavano portando il peso della loro disgrazia con grande stile. La teoria allora era che, se Patrick fosse vissuto ad un’altezza adeguata, avrebbe avuto la possibilità di superare la malattia. I Murphy erano decisi a non accettare la compassione di nessuno.
Dorothy Parker era là, e lanciava le sue solite buttate buffe con gli occhi pieni di lagrime. Facevamo dello sci e di sera, accanto al fuoco, ridevamo a non finire sopra la fonduta di formaggio e bevevamo il magnifico vino bianco locale. Ci davamo tutti da fare per tenere alto il morale dei Murphy. Per qualche tempo la cosa riuscì.
Dopo, Katy ed io passammo una settimana con Cendrars, in un vecchio alberghetto gelato, nella città murata di Monpazier, nel Massiccio Centrale. Vi si cucinavano oche selvatiche e in genere cacciagione, in un immenso camino all’antica, e per cena ci davano tutte le sere frittata ai tartufi.
Cendrars aveva perso una mano in guerra. Andare in macchina con lui per le stradette di montagna era un’esperienza da far rizzare i capelli. Guidava con una mano sola e cambiava di marcia alla sua piccola vettura francese con l’uncino. Visitammo Les Eyzies e tutte le caverne preistoriche dei dintorni. Cendrars prendeva tutte le curve su due ruote.
In un modo o nell’altro sopravvivemmo, e partimmo per il Sud attraverso la Linguadoca, verso la Spagna. Credo che a Cadice ci imbarcammo su un piccolo vapore spagnolo, che si chiamava Antonio Lopez e che ci trasportò all’Avana, lungo un itinerario insolito e piacevole, via Isole Canarie. Fu un viaggio molto bello. Avevamo una cabina spaziosa sul ponte. Mi divertivo con gli acquarelli e a curare una versione inglese del Panama et Mes Sept Oncles di Cendrars.
L’unico passeggero di lingua inglese, oltre noi, era un certo Loomis del Dipartimento di Stato. Il signor Loomis era un buon conoscitore dell’Africa e un buon parlatore. Sapeva delle storie, sui riti sacrificali della Repubblica di Liberia, abbastanza agghiaccianti da farci accapponare la pelle. Non aveva nessuna fiducia negli effetti dell’acquisizione delle libertà civili in questi Paesi. Mr. Loomis ci era simpatico anche perché, quando gli abbiamo chiesto il motivo che l’aveva indotto a prendere due cabine, ci rispose: «Bisogna bene che abbia un posto dove mettere le mie scarpe, no?»
Per metà aprile eravamo di ritorno a Key West, a pesca di delfini e di altri pesci tipici di quelle acque, nella Corrente del Golfo, col vecchio Hem e la barca di Bra.
Durante quell’autunno andai con Hem a caccia di alci nelle vicinanze di Cooke, nel Montana. Lo zio di Pauline, Gus, finanziò il viaggio. Lo zio Gus era un ometto nostalgico, il grande capo di Hudnut, a New York. Pieno di soldi e solo al mondo, copriva di attenzioni le sue graziose nipoti. Ernest lo affascinava. La pesca, la caccia, la letteratura. Godeva nell’aiutare Ernest a fare tutte quelle cose che lui non aveva potuto fare, dal momento che era stato troppo impegnato ad ammassare danaro. Fu lo zio Gus che finanziò il primo safari africano.
Partimmo a dorso di mulo da una fattoria fuori mano e aggirammo Yellowstone Park. Mentre ero con loro, gli alci, i quali sono dotati di un olfatto particolarmente sottile, fiutavano la nostra presenza nell’aria e si buttavano nel parco, dove erano salvi. Troppo miope per poter maneggiare un fucile, passavo il tempo a guardare il paesaggio, a osservare da lontano gli orsi, i castori nello stagno, e a guardare Hem nella sua veste di cacciatore. Non fumava mai: aveva l’olfatto acutissimo. Sentiva un alce quasi altrettanto rapidamente di quanto l’alce sentiva il cacciatore.
Hem teneva già sotto il suo controllo la gente del ranch. Tutti lo consideravano il tipo più formidabile che avessero mai incontrato. Aveva il comando nelle vene. Pensavo che sarebbe stato un capoguerriglia eccezionale. Aggiungi il senso della topografia, che aveva fino come quello di un tattico militare. Sapeva quale sarebbe stato l’aspetto della prossima vallata prima ancora che il suo cavallo avesse raggiunto la cresta del monte.
Sulla via del ritorno a Billings, sulla sua Ford da turismo Hem ci portò in un fosso. La strada era stretta e lui era stato abbagliato dalle luci di una macchina che veniva nel senso contrario. Tutti mi accusarono per la mia cattiva vista, ma io posso giurare che era Hem alla guida. Naturalmente tutti avevamo bevuto buone dosi di Bourbon.
La macchina si rovesciò a gambe all’aria. C’ingegnammo a venirne fuori da sotto, ma Hem si era rotto malamente un braccio e rimase nell’ospedale di Billings per settimane. Era tipico di Hem, per un certo lato del suo carattere, il comportarsi come fece in quella contingenza: quando Archie Mc Leish si prese il disturbo di arrivare fin laggiù per fargli visita, Hem disse ad altri amici che Archie era venuto per vederlo morire.

Era questo il periodo della grande depressione. La cosa non riguardava molto me personalmente. Katy possedeva la casa di Provincetown, dove avevamo messo il nostro quartier generale, e io guadagnavo abbastanza ampiamente per i nostri viaggi. Mi piaceva dire che ero rovinato tanto prima quanto dopo il crak della Borsa. In ogni caso i miei libri potevano difficilmente essere venduti meno, per questo motivo. Ma la esperienza degli altri che mi stavano attorno mi diede la misura del fallimento del capitalismo della Nuova Era.
La mia teoria politica era allora che il Partito Comunista degli Stati Uniti aveva il compito di fare da guastafeste. Essendo io un indipendente, senza un vero interesse personale per darmi molto da fare, dipendeva solo dalla mia volontà il sostenere quelli degli obiettivi del Partito che io approvavo come capaci di rendere gli americani consci di quanto fossimo arretrati sul terreno delle libertà. Continuavo a scrivere a Hem e agli altri amici scettici che ero sul punto di liberarmi dai miei impegni con i radicali, ma la tentazione continuava a sollecitarmi.
[…]
Poco dopo l’entrata in carica di Franklin D. Roosevelt, ricaddi malato di febbri reumatiche. Il dottor Gantt, col quale, durante la lunga affamata galoppata nel Caucaso, avevo legato una solida amicizia, era tornato in patria ed era alla John Hopkins Medical School, per fondare un laboratorio pavloviano e per lavorare con Adolph Meyer, lo psichiatra svizzero che dirigeva il Phipps. Avevo portato Katy a Baltimora per farsi togliere le tonsille e mi cacciai nel suo letto di ospedale appena lei ne era uscita. Restai là per parecchie settimane penose, leggendo A la recherche du temps perdu. Proust è proprio lo scrittore da leggere quando si ha la febbre. Quando stavo bene, non ne avevo mai avuta la pazienza.
I miei amici si fecero vedere tutti. Ernest mi mandò un bigliettone, di quelli che lo zio Gus gli aveva dato per il safari in Africa. Gerald e Sara mi pagarono il biglietto su un piroscafo delle linee italiane, di modo che potessi passare la convalescenza ad Antibes. Horsley riunì al mio capezzale tutti i più grandi medici.
Scott viveva a Baltimora, perché Zelda era in cura del dottor Adolph Meyer. Veniva nella mia camera di ospedale e restava là, tormentato e immelanconito. Tentavo di persuaderlo che non aveva ancora dato il meglio come scrittore. E veramente ero così certo che non aveva ancora scritto il suo libro migliore che non volevo pubblicasse The Crack Up. Come è facile dare agli amici dei cattivi consigli! Invece, questo fu uno dei suoi libri migliori.
In quel momento Scott stava affrontando le avversità con una forza d’animo che trovavo ammirabile. Stava cercando di allevare Scottie, di fare per Zelda tutto quello che poteva, di trattenersi dal bere, e di dare ai giornali regolarmente dei racconti, per sopperire alle enormi spese cui doveva andare incontro per curare la moglie. Nello stesso tempo era deciso a continuare a scrivere romanzi di prim’ordine. Con l’età e l’esperienza, le sue esigenze letterarie si erano fatte sempre più severe. Non ho mai ammirato un uomo come ho ammirato lui. Aveva tanti guai, più di quanti ne avessi io, che spesso pensavo che avrei dovuto essere io seduto al suo capezzale, invece che lui al mio.

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE











Nessun commento:

Posta un commento