Visualizzazione post con etichetta in our time. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta in our time. Mostra tutti i post

venerdì 13 maggio 2016

Hemingway e Picasso visti John Dos Passos (2 di 4)

1927 - Hemingway a Gstaad

John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 212-223

[…] In ogni caso, gli americani negli anni Trenta erano alla moda, in Europa. Dollari, grattacieli, jazz, tutto ciò che veniva da Oltreatlantico, aveva un che di romantico. La pittura di Gerald, quando i suoi quadri furono esposti a Parigi, sembrò l’epitome dello chic di Oltreoceano.
Non passò molto che Gerald e Sara dovettero prendere una posizione di difesa contro l’assalto della società bene francese. Infatti essa preferiva i pittori agli uomini di lettere, tanto pignoli. Léger - che aveva il dono di fare di tutto ciò che vedeva o gustava o udiva, una sua personale composizione - era il loro preferito, come del resto era il mio; Sara divenne anche amica di Picasso.
Picasso era un uomo piccolo, chiuso e bruno. Non aveva nulla dell’estroversione spontanea che fa in genere, degli spagnoli, gente con cui ci s’incontra facilmente. Era sarcastico, cinico, stile contadino spagnolo: il cinismo di Sancho Panza. Mi sembrava impenetrabile perfino nei momenti di distensione e di allegria. Era il maestro costruttore, il muratore, l’artigiano. Era l’intelligenza incarnata. Gli mancava l’umanità. I greci lo avrebbero chiamato deinos[1] come avevano chiamato Ulisse. Non era possibile avvicinare né l’uomo né la sua opera - l’uomo e l’opera erano inseparabili - senza provare una profonda ammirazione per i suoi gesti eleganti, per la sagacità delle sue dita, la precisione del suo colpo d’occhio; se avesse avuto il dono della compassione, sarebbe stato grande come Michelangelo.
Hemingway si lasciò sedurre anche lui da un viaggio ad Antibes, ma non ricordo se ci incontrammo; forse io non ero là in quel momento. So però che non si sentì a suo agio, nonostante volesse bene a Sara Murphy. I pescatori sembra che non provino piacere a nuotare. Deve aver giudicato piuttosto idiota farsi arrostire al sole sulla spiaggia. Per stare bene a Villa America bisognava entrare a far parte del rituale che era stato inventato da Gerald. Hem era già troppo uomo-spettacolo per poter prendere parte alla sciarada di un altro.
Hem a quel tempo era una figura in vetta al Walhalla della Parigi letteraria. Ford Maddox Hueffer tentò di averlo con sé alla redazione del «Transatlantic Review». Era amico di Pound. Andava a cena con Joyce. Era stato adottato da Gertrude Stein. Pensava a un libro per l’editore Querschnitt, di tauromachia, che Picasso avrebbe illustrato.
Una delle cose che ci aveva uniti era il nostro entusiasmo per tutto quanto riguarda la Spagna. Molte delle mie permanenze a Parigi furono in transito da o per la Spagna. Hem e Hadley s’erano fermati a Vigo, quando avevano accompagnato per la prima volta Bumby in Europa, e giunsero a Parigi con stupendi ricordi di Compostella, delle Asturie e dei Paesi Baschi. La mania di Hem per la Spagna giunse al suo culmine quei giorni torridi di agosto, quando per la prima volta partecipò alla Fiesta di San Firmino a Pamplona.
Io non ero a Pamplona l’anno delle prime grandi festività che diedero a Hem l’idea di scrivere Il sole sorge ancora, ma v’ero l’agosto dopo. Eravamo tutti all’Hotel La Perla.
Tutti guardavamo Hem. V’era un’inglese titolata, incallita, che fra di noi chiamavamo Duff. Hadley era ancora sposata con Hem, ma io ebbi l’impressione che le piccole Pfeiffer, Pauline e Jinny facessero parte del gruppo. V’era un ufficiale dell’esercito inglese che chiamavamo Chink. V’era Don Stewart: e anche Bill Bird e sua moglie e un loro giovane amico che si chiamava George O’Neill. V’era anche Robert McAlmon.
I Bird erano simpatici, anche se erano degli espatriati, ma McAlmon non riusciva a piacermi. V’era su di lui un che d’ambiguo; e il fatto che io pensassi di lui che era un avventuriero mi faceva provare un po’ di vergogna. Può anche darsi che vi fosse Harold Loeb. E forse v’era altra gente.
Dopo aver letto il romanzo, non so più bene quali siano gli eventi realmente vissuti che Hem incluse e quali abbia inventato. Fu come un viaggio organizzato da Cook, con Hem maestro di cerimonia. Le feste di San Firmino sono qualcosa di terrificante. Bande, processioni, corride. L’arrivo dei tori, la loro cattura, le galoppate attraverso le strade. Ogni piazza piena zeppa di agili paesani che ballano in berretto blu. Da ogni vicolo i ritmi dei pifferi e dei tamburi baschi, il belato delle cornamuse galiziane o il clangore delle nacchere. Ogni gruppetto si portava il suo otre di vino. Per quanto ricordo, l’esuberanza però non superava mai certi limiti. Le buone maniere fra gente che crede nella dignità umana sono una questione di vita o di morte. Tutti dovevano essere muy hombres con i tori. Gli si correva incontro, quando venivano condotti all’arena: si tentava di entrare nel recinto, quando venivano esaminati dagli incaricati; al momento della capea i tori venivano lasciati al pubblico, che invadeva il recinto. Erano tori giovani, e non fra i più feroci. Ma quando venivano circondati da una folla di giovanotti navarrini che li provocavano con i giubbotti e con i fazzoletti reagivano talvolta con inaudita violenza. Parecchi giovani furono feriti, senza però che alcuno, quell’anno, fosse ucciso.
Fare mostra della mia insipienza intorno all’etica taurina, in una pista di tori piena di navarrini agilissimi ed esperti, non era esattamente ciò che consideravo un pomeriggio piacevole. Ma Hem voleva essere presente fra gli aficionados. I suoi compatrioti americani si facevano pure un punto di onore di mostrare il loro entusiasmo. L’ironia fu che, dopo aver apertamente respinto tutta la faccenda, mi trovai faccia a faccia con un toro. Aveva appena saltato la barriera e stava caricando lungo il corridoio sul lato opposto. Ci guardammo negli occhi. Ci lasciammo perdere. Mi arrampicai rapidamente sul marciapiede del muro di cinta ed entrai in prima fila fra gli spettatori. Raccontai che andavo cercando un punto elevato dal quale prendere i miei soliti schizzi.
Ci divertimmo, mangiammo bene, bevemmo bene, ma nel gruppo v’erano troppi esibizionisti perché la situazione fosse di mio gusto. La vista di una folla di giovanotti che tentano di dare prova tangibile di quanto siano hombres mi dava sui nervi. Potevo divertirmi, di tanto in tanto, a una corrida, prendendola come uno spettacolo, ma ogni giorno, per una settimana, era troppo.
Per Hem la cosa era diversa. Egli aveva una enorme possibilità di concentrazione su qualsiasi cosa lo interessasse nel momento. Fosse la Sei Giorni di bicicletta, o una corrida, lo sci o la pesca alla trota, si buttava a corpo morto.
Si attaccava come una sanguisuga fino a che l’esperienza gli fosse entrata tutta nel sangue. Entrava nella confidenza dei professionisti del luogo e si saturava delle loro sensazioni, fino al punto di accensione. Eccetto che nel caso di qualche scienziato, che ho visto perseguire fino all’esaurimento un esperimento difficile, non ho mai conosciuto alcuno che possedesse una tale facoltà di assorbimento. Talune delle migliori opere di Hemingway sono nate da questa qualità. Quando ha descritto il lavoro del matador in Morte nel pomeriggio sapeva bene ciò di cui parlava.
Gli spagnoli erano simpatici, io ero fedele a Hem e a Hadley, ma non avrei sopportato la parte americana di quella folla se non vi fosse stata una certa giovane donna. Stavo scoprendo la verità del detto di Ben Franklin: «Un uomo e una donna sono come un paio di forbici; nessuna delle due parti è utile, senza l’altra.» Avevamo costruito una specie di nicchia privata, dalla quale guardavamo quell’andirivieni, partecipando agli avvenimenti, senza però subirli. [...]

Durante l’autunno precedente, oppure durante il seguente, non ricordo bene, Hem mi lesse Torrenti di primavera. Cominciò un pomeriggio d’autunno, col sole rosso, alla Closerie de Lilas. Certe parti erano davvero buffe, soprattutto quando introduce nell’azione del libro l’indiano del Michigan - Hem aveva la mania degli indiani - ma per altri lati, mi metteva in imbarazzo. Io m’ero a suo tempo prodigato per convincere Horace Liveright a pubblicare in America In Our Time, e sembrava ora che Hem volesse ritenermi in parte responsabile di un contratto tutt’altro che conveniente, che egli firmò, concedendo a Liveright opzione su un certo numero di opere future.
Scott, che vantava pretese di talent scout, ed era disinteressatamente generoso con altri scrittori, stava dandosi da fare come un demonio per convincere Max Perkins a prendere Hemingway da Scribner.
Scott aveva per Hem una specie di capriccio letterario: per lui era lo stilista sportivo, il pugile narratore. Una sera, parlando di Hem, fummo d’accordo nel pronosticargli il destino di un Byron dei nostri giorni. Scott aveva ragione. L’editore che andava bene per Hem era Scribner, ma come disfarsi del contratto con Liveright?
Io non ho mai capito bene che cosa abbia inteso fare Hem col Torrenti di primavera. Aveva deliberatamente scritto delle cose che Liveright, nella sua veste di amico e editore di Sherwood Anderson, non avrebbe per nessun motivo al mondo voluto pubblicare, o questo libro era il risultato dello scherzo malvagio di un ragazzo senza cuore? Senza dubbio, quando me lo ha letto a voce alta, ho riso; ma ho fatto del mio meglio per convincerlo a non pubblicarlo, per lo meno subito. Gli dissi che per reggere come parodia non era uno scritto sufficientemente buono, e che, d’altra parte, In Our Time era stato un libro tanto maledettamente ben riuscito che era meglio, per una nuova pubblicazione, aspettare di avere qualcosa di veramente eccezionale da mettergli a confronto.
Quella sera convenne con me volentieri che Sherwood Anderson sarebbe stato l’ultimo uomo al mondo di cui avrebbe voluto urtare la suscettibilità. Sherwood era stato molto gentile con Hem, quando da ragazzo aveva lavorato a Chicago, e tutti e due sapevamo bene come egli fosse, perfino infantilmente, sensibile. Ero d’accordo con Hem nel ritenere Dark Laughter un libro sentimentale e sciocco, e che era pur necessario che qualcuno glielo facesse notare, ma ritenevo che quel qualcuno non dovesse essere Hem. Hem aveva un modo molto indisponente di mettersi d’improvviso, nel bel mezzo della conversazione, a canterellare. Quando, quella notte, ci separammo, ero convinto di averlo dissuaso dalla pubblicazione del Torrenti. Può darsi che questo non fosse affar mio, però in quei giorni gli amici erano amici. Ma la cosa non andò come io avevo creduto.[2]

Gli ultimi giorni belli che Hem, Hadley ed io passammo in Europa, furono quelli di Schruns, nel Vorarlberg austriaco. Avevano scoperto lo sport dello sci l’inverno precedente a Schruns. Gerald e Sara s’unirono a noi. Tutto costava incredibilmente poco. Eravamo in un grazioso hotel vecchio stile, con stufe in maiolica, che si chiamava Taube. Mangiavamo «forellen im blau» e bevevamo kirsch caldo. Il kirsch era tanto abbondante che ce ne davano per frizionarci, quando rientravamo dalle escursioni sulla neve.
Allora si sciava secondo la natura dei luoghi. Per le salite ci servivamo delle pelli di foca. La grande escursione conduceva, attraverso un vasto campo di neve al di sopra della città, fino alla Madlener Haus. Era una specie di club sciistico, un rifugio, con fuochi scoppiettanti e cibo caldo. La gente era cortesissima. Tutti ti dicevano: «Griiss Gott» quando t’incontravano. Sembrava di vivere in una cartolina di Natale dei vecchi tempi. Hem si era dato allo sci anima e corpo. Faceva esercizio senza posa. Doveva essere il più abile. Gerald era un tipo di perfezionista anche lui, ma diverso. Si stabilì fra loro una gara, chi dei due sarebbe diventato in quattro giorni uno sciatore completo. Erano ben buffi tutti e due.
Credo di essermi divertito molto più di tutti, perché, fin dal primo giorno, capii che non ne avrei cavato niente. Troppo terribilmente maldestro. Soffiando e sudando, con le mie pelli di foca, salivo in vetta per godermi di lassù il bel panorama. Non faceva troppo freddo.
Al sole faceva caldo. Le montagne coperte di neve proiettavano ombre azzurrine e purpuree. Bisognava essere prudenti perché, nel pomeriggio, si correva rischio di valanghe. Ne vidi una, sulla nostra pista, mentre scendevamo dalla Madlener Haus e m’impressionò molto. Salendo mi sentivo bene, ma scendendo dovevo ricorrere a tattiche personali perché non sono mai riuscito a curvare. Il meglio che potevo fare era cadere. Quando la discesa era troppo ripida, sedevo sui miei sci e li usavo come una specie di toboga. Quando, al rientro a Schruns, fu scoperto che il fondo dei miei pantaloni era consumato fino a essere liso, ne sentii di tutti i colori. Ai pasti non riuscivamo neppure a mangiare dal gran ridere che si faceva. In quella settimana passata a Schruns ci prendevamo in giro a vicenda, tutti. Mangiammo una gran quantità di trote, bevemmo vino e birra e dormimmo come ghiri sotto i grandi piumini. Eravamo fratelli e sorelle quando ci lasciammo. Fu un vero choc sapere, qualche mese più tardi, che Ernest e Hadley s’erano separati. Quando si vuol bene a una coppia si vorrebbe che non si dividesse mai.




[1] NOTA di GCM: Persona che incute timore.
[2] Per approfondimenti rinvio al mio post Hemingway a Parigi



POTREBBE INTERESSARTI ANCHE

1925 - Hemingway e Hadley a Pamplona

1928 - Hemingway e Pauline a Pamplona

1959 - Ordoñez a colloquio con Hemingway

1925 - Hem, Hadley, Jake Barnes, Brett Ashley, Robert Cohn

1925 - In Our Time, Liveright

1926 - In Our Time, Jonathan Cape

1926 Oct 22 - The Sun Also Rises

1926 - The Torrents of Spring

1927 - Fiesta

1930 - The Sun Also Rises

1930 - The Sun Also Rises

1932 - Death in the Afternoon

1932 - In Our Time

1944, gennaio - E il sole sorge ancora

1946 - Fiesta

1951 - Torrenti di primavera

1961 - Morte nel pomeriggio

I coniugi Hemingway e Dos Passos sugli sci

John Dos Passos, Joris Ivens, Sidney Franklin, Ernest Hemingway a Madrid





mercoledì 11 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (1 di 4)


John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 196-205

[…] Non ricordo come ci siamo incontrati. Nonostante le sue preoccupazioni riguardo alla posizione sociale, Don riusciva a sembrare buffo qualsiasi cosa facesse. Noi ridevamo come matti tutte le volte che ci si vedeva.
La mia mancanza di orientamenti di carattere sociale gli sembrava deplorevole. Era deciso a farmi incontrare la gente giusta. Nonostante tutto gli sarò eternamente grato di avermi presentato a Gerald e Sara Murphy.
Deve essere avvenuto a Parigi. Avevo già perduto un bel po’ del mio appetito per la Ville Lumière, anche se amavo i concerti, i musei e il tè agli Championnière, rue de Clichy. Nella primavera del 1922 già scrivevo ad Arthur McComb che conoscevo Parigi troppo bene. «I ricordi mi fanno le boccacce da tutti gli angoli. Non mi rammento se si tratta di quest’anno o dell’anno precedente. Si può a mala pena sopportare il presente, ma incontrare a ogni passo il passato col suo eterno specchio infernale è insopportabile . . . una cosa che detesto.»
L’incontro con Don Stewart a Parigi significò vedere la città in una nuova fantasiosa visuale tipo commedia di Madison Avenue: Mr. and Mrs. Haddock Abroad. Quando mi condusse dai Murphy mi diede l’opportunità di conoscere qualcosa di ben diverso dalla mischia dei letterati espatriati che gravitava intorno a Montparnasse, dei quali già avevo orrore.

Naturalmente Hemingway costituiva un’eccezione, così come Cummings. In quel tale universo privato che stavo confezionando a mio uso, la gente di lettere in genere, in particolare il Greenwich Village e gli esuli di Parigi, stavano fra le categorie scomunicate.
Il loro atteggiamento verso la vita mi dava la nausea. Ma dal momento nel quale cominciavo a stringere amicizia con uno o con una di loro, immediatamente costui o costei diventava l’eccezione unica e intoccabile.
Don, Ernest ed io avevamo già cominciato a frequentarci con regolarità nel periodo nel quale conobbi i Murphy; credo comunque che Ernest ed io ci siamo conosciuti l’anno nel quale è stato pubblicato l’Ulisse,[1] mentre era a Parigi per il «Toronto Star».[2]
Ricordo vagamente una colazione con lui e con Hadley al Lippe, (sic!) prima che nascesse Bumby; Ernest parlava splendidamente di una qualche conferenza internazionale alla quale aveva recentemente partecipato.[3] Quando era giovane, possedeva un acume tale per le cose politiche che non incontrai mai più qualcuno che lo uguagliasse. La sua conoscenza del linguaggio delle palestre di boxe e dei posti di polizia, che aveva acquisito a Kansas City e a Toronto, gli aveva fornito quel mezzo di comunicare diretto il quale dava alle sue storie il tono della verità. Tutto era messo a fuoco con estremo nitore. Io trovavo molto stimolanti i suoi giudizi aspri su Clemenceau, su Lloyd George e su Litvinov. Ci trovavamo perfettamente d’accordo nell’avere per Liebknecht e per Rosa Luxemburg una specie di culto geloso. Deve avermi mostrato un breve pezzo,[4] che in seguito incluse in Our Time,[5] perché ricordo di averlo fin da quel momento giudicato scrittore dotato in alto grado del possesso della lingua inglese.
Comunque, in qualsiasi circostanza di tempo sia avvenuto questo nostro incontro, ne parlammo parecchio insieme, nel tentativo di ricostruirne gli estremi, riandando nella memoria a un tempo nel quale nessuno di noi due aveva neppure la minima idea che sarebbe divenuto in seguito ciò che, nonostante le nostre ironie, il povero Sherwood Anderson qualificava «personaggio mondiale». Un primo incontro fra noi può darsi fosse già avvenuto, a Schio, nel maggio 1918, quando Ernest era appena arrivato in Italia con la 4a Sezione Ambulanze della Croce Rossa, ed io stavo per lasciare la 1a Sezione di Bassano in un mare di guai. Fairbanks ed io avevamo spesso il compito di portare i feriti a una base ospedaliera vicino a Schio e il nostro incontro con la 4a Sezione può essere avvenuto appunto in uno di questi viaggi. Ernest ed io ci ricordavamo vagamente l’uno dell’altro.
Fu soltanto nel 1924, quando Hem, come eravamo in molti a chiamarlo, e Hadley vivevano nella segheria della rue Notre-Dame-des-Champs,[6] che iniziò fra noi due quel gioco reciproco di convivenza che si protrasse nelle nostre vite. Hadley mi fu simpatica fin dal primo incontro. Era nato Bumby.[7] Era stato durante una delle mie corse a Parigi da un treno all’altro.
Con Hem m’incontravo di tempo in tempo alla Closerie des Lilas all’angolo di Saint-Michel con Montparnasse a bere delle bibite innocue come vermouth-cassis mentre si parlava delle difficoltà di metter sulla carta i propri pensieri; tutti e due stavamo leggendo il Vecchio Testamento. Ci leggevamo dei brani a vicenda. I nostri passi preferiti erano il canto di Deborah, il Libro delle Cronache e il Libro dei Re.[8]
Era uscito In Our Time ed io lo sostenevo a spada tratta. Appoggiavo le mie asserzioni sulla constatazione che Hem, con i suoi acuti, brevi periodi, secondo il linguaggio telegrafico o alla King James Bible, sarebbe diventato il più grande stilista della lingua americana.
Doveva essere primavera, perché eravamo seduti in un piccolo giardino triangolare fra i due boulevards e ricordo che mi aveva divertito il fatto che, a dispetto del nome, un vero giglio fioriva nella Closerie.
Poi siamo tornati, attraverso la folla delle cinque, alla segheria, per aiutare Hadley a fare il bagno a Bumby. Bumby era un bambino grasso, pieno di salute, affabile, e si divertiva di tutto. Lo si metteva a letto e dopo lo lasciavamo alle cure di una piacente, vivace contadina francese che veniva alla segheria a questo scopo, e noi tre uscivamo per cena. Aiutare a mettere a letto i figli degli amici prima di uscire per la cena era diventato uno degli aspetti piacevoli della società dei giovani in America; io mi ci sono sempre divertito. Gli uomini, quando hanno accanto una donna, diventano meno egoisti. Allo stesso modo, sia i giovani uomini che le giovani donne, quando hanno da prendere cura dei loro marmocchi, finiscono per essere più autentici, meno sussiegosi.
Fin dal principio Hem fu sempre terribilmente predisposto agli incidenti. Non ho mai conosciuto un uomo che abbia provocato tanti danni quanto lui alla propria carcassa. È di questo periodo l’episodio del lucernario dell’abbaino esterno al suo appartamento, che gli cadde in testa e gli provocò un trauma cranico e un taglio nel cuoio capelluto per cui fu necessario un ricovero in ospedale di alcune settimane.[9] La cicatrice gli rimase per tutta la vita.
Quando non c’era l’incidente, c’era il mal di gola. Era come uno di quegli atleti professionisti i quali, nonostante siano forti come tori, hanno sempre qualcosa. Mi sono costantemente difeso dal battermi alla boxe con Hem; il fatto che io porto gli occhiali ha offerto una buona scusa al mio desiderio di non competere con lui in questo settore.
Io non sapevo neppure andare in bicicletta. Hem andava matto per le corse in bicicletta. S’infilava in un maglione a righe come quello dei corridori del Tour de France e pedalava lungo tutti i boulevards esterni con le ginocchia all’altezza delle orecchie e il mento fra i manubri. Io trovavo tutto ciò un po’ sciocco, ma a quel tempo Hem aveva il gusto di certe bambinate.
Aveva una sfumatura di spirito, evangelica, che lo spingeva a cercar di convertire i suoi amici a tutte le sue varie manie. Seguirlo alle Sei Giorni è stato per me un divertimento; la Sei Giorni al Vélo d’Hiver era una buffa storia. Gli eventi sportivi in Francia, per il loro aspetto piuttosto comico, mi divertivano molto. Facevamo la spesa in botteghine e spacci di una di quelle stradette dove ci sono i mercati che piacevano tanto a tutti e due: vino, formaggio, pagnottelle croccanti, pâté e qualche volta pollo freddo; ci sedevamo in galleria; Hem conosceva tutti i dati tecnici, e vita morte miracoli dei corridori. Il suo entusiasmo era contagioso, ma tendeva a fare della cosa un affare serio, mentre per divertirmi, a me bastava bere, mangiare e guardare.
Di tanto in tanto gli veniva in mente che noi due, nella nostra qualità di scrittori di fama internazionale, eravamo rivali; allora diventava silenzioso; oppure capitò anche che mi imponesse freddamente di non scrivere mai niente sulle corse di bicicletta; questa era zona sua. Lo rassicuravo che scrivere di sport non era il mio genere, e che d’altronde Paul Morand aveva già preceduto tutti in La Nuit des Six Jours.[10]
Poteva anche darsi che fosse proprio perché avevo letto Paul Morand che lo spettacolo mi divertiva. Come Hem, anch’io mi sforzavo di cogliere gli eventi e di portarli direttamente sulla pagina; però continuavo ad avere il dubbio che fosse la vita a copiare l’arte, e non viceversa. Hem forzava la povera Hadley a restare seduta là tutta la notte, ma io, quando mi veniva sonno, me la battevo e andavo a dormire a casa mia. Fin d’allora era duro con le sue donne. Eppure sono convinto che sia stato più un costruttore che un distruttore. Quando le lasciava, erano più agguerrite per la vita di quanto non fossero quando le aveva incontrate. Senza dubbio, nei giorni della giovinezza, la versatilità del suo carattere, il suo temperamento estroso avevano sugli altri, che gli capitassero intorno, un effetto stimolante. Nel periodo della nostra amicizia, mi permise un confronto con la vita sportiva che, senza di lui, non avrei mai potuto sperimentare.
Fin d’allora era irritabile. Provava pietà per se stesso. Una delle sue angosce era il non avere avuto una educazione da College. Io gli dicevo che invece questa era una grande fortuna. Che pensasse a tutta la fatica in meno che aveva dovuto fare per dimenticare la cultura della scuola. Gli dicevo, supponiamo che tu fossi andato a Yale e che avessi inciampato nella Skull and Bones come Don Stewart. Rideva e ammetteva che sarebbe stata una rovina.
Hem aveva una vista eccezionalmente buona. La fredda mira del cacciatore. Mi sembrava, in quei giorni, che vedesse cose e persone senza il colore che loro donano i sentimenti o la teoria. Tutto viveva per lui entro una fredda chiara luce bianca, la stessa luce che pervade i suoi migliori racconti. A Clean Well Lighted Place,[11] per esempio.
Aveva la medesima vista acuta riguardo alla pittura. Può darsi che Gertrude Stein, che era tutt’altro che ignorante anche in questo settore della cultura, lo avesse aiutato a sviluppare questa acutezza.
Riconosceva a vista l’eccellenza del colore e del disegno. La Scuola di Parigi era già fin d’allora abbastanza piena di mestieranti da dare la nausea, ma Hem non si lasciava mai ingannare. Si trattasse di politica o di letteratura o di pittura, metteva a punto la situazione con una sola parola di quattro lettere.
Ricordo perfettamente quando comperò The Farm di Mirò[12] - credo sia stato l’ultimo quadro oggettivo che Mirò abbia dipinto - perché ho dovuto correre da tutte le parti per mettere insieme i soldi. Ci si prestava continuamente danaro a vicenda. Aveva saputo che poteva portarselo via per duemila o forse per tremila franchi (una cifra terribilmente piccola in dollari, al cambio allora corrente) e aveva la febbre al pensiero che qualcuno glielo soffiasse. Si portò a casa, alla segheria, il quadro, trionfante. Resta uno dei più bei quadri di Mirò.
Mi domando che valore abbia oggi. In genere, sulla pittura, eravamo sempre d’accordo.
L’entusiasmo di Hem era contagioso. Sebbene io avessi una inveterata inibizione contro qualsiasi gioco, riuscì a condurmi alle corse dei cavalli. Hem dichiarava di vincere grandi cifre e una primavera lo seguii a Longchamps e a Auteuil. Io, come al solito, badavo più allo spettacolo che al danaro. Degas mi aveva insegnato, attraverso i suoi quadri, ad amare i cavalli da corsa e le corse.
Harold Stearns ci passava le informazioni. Harold era un tipo straordinario. Dopo essersi fatto una reputazione come giornalista nel «The New Republic» e in altri giornali liberali e dopo aver pubblicato uno dei primi saggi di maggior successo sulla civiltà americana, era venuto a Parigi.
A Parigi aveva smesso di scrivere e aveva lasciato andare tutto. Perfino il piacere del bere e delle donne sembrava si fosse in lui attenuato. Manteneva un certo fascino. Restava un parlatore piacevole. Tirava avanti, pateticamente, la vita, frequentando i bar e raggranellando i quattro soldi che gli servivano vendendo informazioni sui cavalli ai turisti americani che avvicinava nei vari caffeucci dove era di famiglia.
C’era una corsa ad ostacoli in uno degli ippodromi che si annunciava molto elettrizzante, e Harold ci aveva indicato un cavallino che doveva essere un campione eccezionale; la valutazione al totalizzatore era bassa, trenta a uno, o qualcosa di simile. Agli amici non faceva mai pagare le informazioni, e questa volta giurava su tutto che avremmo sbancato.
Hem ed io riuscimmo a mettere insieme qualche centinaio di franchi e ci avviammo verso l’ippodromo. Harold aveva combinato con un ragazzo di scuderia che ci fosse permesso di dare un’occhiata in privato al cavallo. Era un piccolo baio scuro, piuttosto nervoso. Il fantino ci confidò che puntava su lui tutte le sue risorse. Sbirciammo il cavallo, accarezzammo il suo naso, ci prodigammo in francese e in inglese nel dire un bel po’ di sciocchezze di carattere tecnico. Al totalizzatore il nostro morale era al massimo: facevamo già progetti sul come spendere la vincita, una parte della quale per un pantagruelico pranzo al Foyot.
Il cavallo era senza dubbio un buon saltatore, ma alla rivière mancò, disarcionò il fantino e partì come una palla di fucile nella direzione sbagliata. Prima che lo potessero riprendere saltò un certo numero di ostacoli a ritroso. La corsa fu un disastro. Noi si moriva quasi dal ridere. Per conto mio, ritornato a Parigi ero più che mai convinto che il gioco è una pazzia. Incontrandoci di nuovo all’Henry’s Bar, Harold fece finta di non vederci.
Nessuno di noi due poteva permettersi di perdere una simile somma, eppure tutti e due non riuscivamo a far altro che ridere. Hem aveva appena rinunciato al suo incarico di corrispondente o stava per farlo. Campare con la sola attività di scrittore significava certo andare incontro a tempi duri. L’edizione dell’Our Time che Robert McAlmon aveva fatto uscire a Digione, gli aveva procurato successo nei circoli recherchés ma neppure un soldo. La sua unica sorgente di mezzi era lo scrivere poesiole spinte per una rivista tedesca, il «Der Querschnitt»; non è difficile cogliere il lato scherzoso del nome.

NOTE
di Giancarlo Mauri


[1] Ulysses ¦ by ¦ James Joyce ¦ Shakespeare and Company ¦ 12, Rue de l’Odéon, 12 ¦ Paris ¦ 1922. Sul frontespizio si legge: Printed for Sylvia Beach by Mauruce Darantiere at Dijon, France. - Dal 9 gennaio 1922 Ernest e Hadley abitano al 74 di rue du Cardinal Lemoine, terzo piano.
[2] L’8 gennaio 1920 Ernest prende il treno per Toronto e si stabilisce a casa Connable - 153 di Lyndhurst Avenue - e dopo neppure una settimana chiede a Mr Connable di trovargli un posto nel principale quotidiano dell’Ontario, il Toronto Star, che pubblica un’edizione quotidiana e una settimanale. Connable lo presenta a Arthur Donaldson, capo dell’ufficio pubblicità di entrambi i giornali, che lo porta alla sede di 20 King Street West e lo presenta a due redattori. Dopo aver dichiarato di aver lavorato al Kansas City Star, un modello per i giornalisti del tempo, gli propongono un lavoro pagato a righe per la prima edizione del settimanale. Il 27 dicembre 1923 EH si licenzia dal The Toronto Star Weekly.
[3] Si veda l’articolo intitolato Picked Sharpshooters Patrol Genoa Streets di Hemingway, uscito sul The Toronto Star Weekly del 13 aprile 1922 (Cfr.: La Conferenza di Genova, in By-line, pp 35-37).
[4] The Little Review “Exiles’ Number”, n. 9.3, Spring 1923, è interamente dedicato agli scritti di Statunitensi “attualmente in esilio in Europa” (sic!). Hemingway vi compare con alcuni brevi racconti, poi inseriti in our time.
[5] Con tiratura di 170 copie, in our time - tutte lettere minuscole - esce nel 1924 per conto della Three Mountains Press, Paris. Le Tre Montagne che danno il nome alla Casa editrice sono Montmarte, Mont Sainte-Genevieve e Montparnasse.
[6] Il 10 febbraio 1924 Hemingway scrive ad Ezra Pound d’aver trovato un appartamento semi ammobiliato sopra una segheria al 113 di rue Notre-Dame-des-Champs. Ezra Pound abita non molto lontano, al 70bis. Si tratta della segheria di Pierre Chautard, il padrone di casa e l’appartamento degli Hemingway è al piano superiore. Lo lasciano agli inizi del 1926, quando partono per Schruns (al rientro, gli Hemingway alloggiano all’Hotel Vénétia, Boulevard de Montparnasse).
[7] Il 10 ottobre 1923 a Toronto nasce John Hadley Nicanor detto Bumby: Hadley come la madre e Nicanor in onore al torero Villalta.
[8] Hemingway ricercava tra le pagine della Bibbia i titoli da dare ai suoi racconti: un’ottima operazione di marketing, visto che si rivolgeva per lo più ad un pubblico anglo-americano.
[9] Qui Dos Passos sbaglia: il 10 maggio 1927, con rito cattolico nella chiesa di Passy, Hem sposa la 32enne (4 anni più di lui) Pauline Pfeiffer e i due vanno ad abitare al 6 di rue Férou, vicino alla chiesa di Saint-Sulpice. È in questa casa che nel marzo 1928 avviene l’incidente del lucernario caduto in testa a Hemingway, danno riparato con sette punti di sutura.
[10] Storia inserita nella raccolta Ouvert la nuit, pubblicata da Gallimard nel 1922.
[11] Un posto pulito, ben illuminato, pubblicato la prima volta nel 1933 da Scribner’s Magazine.
[12] La fattoria, olio su tela, 1921-1922, oggi conservato nella National Gallery of Art di Washington che lo ha ricevuto in donazione da Mary Welsh, l’ultima moglie di Hemingway.