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venerdì 27 giugno 2014

Lo sciacquone di Hemingway


Il motto “non credere a niente di quel che ti dicono e credi a metà di quel che vedi” è sempre valido. Da qui il duro lavoro di chi scrive di Storia, l’opposto dello scrivere amene storielle. Una prova? Eccola: ho in casa diverse biografie sulla vita e il lavoro di Ernest Hemingway, tutte scritte da rinomati e ben retribuiti cronisti. Tutti questi libri riportano la disgraziata caduta di un lucernario sulla testa di Hemingway, incidente che portò lo scrittore ad una momentanea sospensione della sua vena creativa.

Seguendo l’ordine cronologico, apro Papà Hemingway. Ricordi personali di E. A. Hotchner, libro uscito nel 1965 e stampato in Italia da Bompiani nel 1966, e alle pp. 63-64 leggo:

Un altro giorno che i cavalli di Auteuil riposavano, attraversammo il Pont Royale per pranzare alla Closerie des Lilas, altro locale caro ai ricordi di Ernest. Lungo la strada, egli mi indicò un edificio alto e stretto, all’ultimo piano del quale aveva un tempo abitato con Pauline. “Era un grande appartamento,” disse, “con un lucernario che lo rendeva luminoso. Un giorno venne a trovarci un bohémien di nome Jerry Kelley, un dadaista scomunicato, che prima di partire ebbe bisogno di andare al cesso. Ma invece di tirar la catena della toilette, agguanta la corda del lucernario, le dà un violento strattone, e il lucernario piomba giù in un diluvio di vetro. Io mi trovavo proprio lì sotto e i vetri mi hanno squarciato il cranio. Quando ho visto zampillare il sangue, il mio primo pensiero è stato di salvare il mio unico vestito. Corro in bagno e, per salvare il vestito, mi chino a sanguinare sulla vasca. Contemporaneamente metto un dito sul punto di pressione alla tempia per rallentare un po’ il flusso del sangue che veniva giù come un figlio di puttana. Pauline andò a chiamare Archie MacLeish che si mise in contatto con un suo amico, medico all’Ospedale americano, quel dottor Carl Weiss, che più tardi ammazzò Huey Long. Fece un lavoro davvero orribile sulla mia testa e mi lasciò con questa chiazza di pelle nuda che s’allarga tutte le volte che m’arrabbio. Dopo di che misurammo il sangue che era finito nella vasca e risultò che era più di mezzo litro. Weiss fu certamente più in gamba quando s’occupò di Huey Long che quando dovette badare a me.

Hotchner è un giornalista infilatosi alla corte di Hemingway e queste “memorie” – fin da subito contrastate da Mary, l’ultima moglie di Ernest - sono apparse in libreria tre anni dopo la morte di Hemingway. Più che una biografia a me pare un libro auto-celebrativo, da prendere con le pinzette.

Il secondo libro è un lavoro serio, da topo di biblioteca, con tanti rinvii bibliografici. L’ha scritto Carlos Baker e s’intitola Hemingway. Storia di una vita; la traduzione è di Ettore Capriolo, l’editore è Arnoldo Mondadori, 1970. Apro alle pp. 281-282:

Si era appena riavuto da questa indisposizione, quando all’inizio di marzo gli capitò uno dei più curiosi incidenti della sua carriera. In seguito avrebbe smentito di essere eccessivamente soggetto agli incidenti, ma la vista debole e la goffaggine fisica unite provocarono una notevole serie di disavventure. Questa volta era andato a cena con Ada e Archie MacLeish ed era tornato a casa verso le undici. Alle due andò in bagno. La stanza era freddissima. Qualcuno, volendo tirare lo sciacquone, aveva invece dato uno strattone alla corda che serviva per aprire il lucernario, spaccando il vetro in più punti. Adesso, mentre lui annaspava tutto assonnato con la corda, tutto quel decrepito lucernario precipitò sulla sua sfortunata testa, raschiandogli la fronte poco sopra l’occhio destro[1] e facendolo cadere come un manzo colpito da una scure. Pauline cercò di stagnare l’emorragia con strati di carta igienica, poi chiese aiuto a MacLeish che chiamò un taxi. A questo punto Ernest era stordito e quasi in delirio. Arrivarono all’American Hospital di Neuilly poco prima delle tre. Il medico di turno chiuse con sette punti la ferita aperta che aveva forma di triangolo.
Era ormai troppo famoso perché si potesse ignorarlo e le agenzie d’informazione trasmisero la notizia. Ezra Pound mandò un messaggio da Rapallo. [...] Perkins telegrafò a Guy Hickok chiedendo un resoconto particolareggiato. Hadley, appena lo seppe, inviò una lettera di solidarietà.

Come disse Sciesa: tiremm innanz. Il terzo libro s’intitola Tutti i racconti di Ernest Hemingway, a cura di Fernanda Pivano; Mondadori 1993, pag. LVII:

1928. In febbraio ritorna a Parigi, trova l’appartamento in Rue Ferou gelato perché è saltato l’impianto di riscaldamento e si ammala; in marzo ha uno dei suoi soliti incidenti spettacolari: questa volta andando di notte nel bagno tira un cordone credendo che sia quello dello scarico dell’acqua e invece fa azionare un lucernario, che gli precipita sulla testa provocandogli una ferita di cinque centimetri sopra l’occhio destro,[2] suturata con nove punti all’ospedale americano di Neuilly e di cui conserverà la cicatrice tutta la vita. A cercare di arginare l’emorragia con la carta igienica è Pauline (non Hadley come risulta da una riduzione cinematografica italiana.

La stessa Pivano in Hemingway, Bompiani 2001, pag. 117, scrive:

Gli infortuni culminarono a Parigi nel marzo 1928 quando gli crollò sulla testa un lucernario producendogli sulla fronte una ferita abbastanza grave da richiedere nove punti di sutura: la cicatrice gli restò tutta la vita entrando nella sua aneddotica e confondendosi con gli incidenti di guerra i cui confini nei resoconti dei mass-media non furono mai molto precisi. A me, per esempio, raccontò addirittura che il lucernario era caduto perché Martha Gellhorn aveva cercato di entrare dalla finestra del soffitto in un tentativo di seduzione o per perseguitarlo, in due versioni che cambiavano a seconda dell’umore e non tenevano conto del fatto che aveva conosciuto la Gellhorn nel 1936.

Per finire: ma lui, l’interessato, non ha mai scritto niente sull’incidente? Certo che si: basta aprire Ernest Hemingway. Lettere 1917-1961, un volume curato dal citato Carlos Baker, tradotto da Francesco Franconeri per Mondadori, 1984, e leggere a pag. 184 quanto Hemingway scrive a Maxwell Perkins:

Parigi, 17 marzo 1928
Caro Mr. Perkins,
Guy Hickock mi ha mostrato oggi un cablo della Scribner in cui si chiede come sto di salute e spero quindi che lei non si sia preoccupato. Ero stufo di raccontare i miei incidenti così non ho voluto accennarne. Comunque è stato il lucernaio nel gabinetto - un amico aveva tirato la corda che lo alza invece di tirare quella dell’acqua provocando una crepa nel vetro così quando ho cercato di agganciare la corda (andando in bagno alle 2 del mattino e vedendola penzolare) è caduto tutto quanto. Abbiamo fermato l’emorragia con trenta strati di carta da gabinetto (un magnifico assorbente che ho ormai adoperato due volte per questo scopo in analoghe emergenze) e una legatura emostatica con la tovaglia e un pezzo di legno da ardere. Le prime due legature non sono riuscite ad arrestare niente perché troppo corte - (asciugamani di quelli piccoli) ed ero alquanto preoccupato dato che non avevamo telefono né c’è la possibilità di trovare un medico alle 2 del mattino e c’erano due arterie tagliate. Ma la terza ha funzionato molto bene e siamo andati a Neuilly all’ospedale americano dove hanno messo a posto tutto, legato le arterie, e messo i punti sotto e poi sei altri per chiudere. Nessun effetto collaterale però un maledetto fastidio.

Questa lettera è stata scritta pochi giorni dopo l’incidente, quindi da ritenersi un documento veritiero, perché fin da subito verificabile. Bastava chiedere a Pauline, ai medici dell’ospedale, ai coniugi MacLeish, al tassista, tutti testimoni oculari.

Queste versioni hanno almeno un punto in comune: l’incidente dello sciacquone e del lucernario è successo nell’appartamento al numero 6 di rue Férou, dove Hemingway viveva con Pauline Pfeiffer, la sua seconda moglie. O almeno... questa certezza vale fino al 1963, anno in cui Man Ray - nato Emmanuel Radnitzsky - esce con Self Portrait, un libro pubblicato a Boston da Atlantic Monthly Press/Little, Brown and Company. In casa ho la traduzione edita da Mazzotta nel 1975 e a pag. 154 leggo:

Una sera organizzai una festicciola a casa mia, invitando alcuni amici americani e francesi. A un certo punto Hemingway entrò in bagno, e ne uscì subito dopo con la testa sanguinante: aveva tirato quella che credeva la catena, e che era invece la corda del lucernario; il vetro si era frantumato su di lui. Gli fasciammo la testa, gli misi un cappelluccio di feltro che nascondeva in parte la fasciatura e gli feci una foto.

Sul ritratto Man Ray ha ragione: esiste, quindi non si discute. A non reggere è la storia che questa fotografia sia stata scattata la sera dell’incidente: non si vede una goccia di sangue né sulla camicia né sulla benda, malgrado la ferita sia ancora aperta, non suturata - almeno stando alle parole di Ray. Ne deduco che Man Ray abbia ingrassato la sua biografia col letame altrui. In alternativa, si può leggere questo cameo su Hemingway attraverso il filtro delle parole di Lucien Treillard: «Per tutta la vita, Man Ray rimase un artista dadaista libero, attraversò il surrealismo di cui subì l’influenza, ma conservò fino alla morte la sua assoluta libertà creativa.» Vista da quest’angolazione, la verità rimane un’opinione ...anche se nessuno dei citati autori si è mai dato alla politica.




[1] Al contrario, le fotografie mostrano che la ferita è sopra l’occhio sinistro.
[2] Vedi nota precedente.

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© Per il testo e le foto di Giancarlo Mauri


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