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domenica 22 febbraio 2015

Ricordi di Joyce (James Joyce in Trieste)

© Fotografia di Giancarlo Mauri

Cerca e ricerca, in questi ultimi tempi sono finiti nelle mie mani tutti i fascicoli elettronicamente digitalizzati di The Little Review - dal numero 1, marzo 1914 in poi - e di The Egoist - dal numero 1, gennaio 1914 in poi, due periodici storicamente importanti perché tra le loro pagine i raffinati lettori dell’epoca hanno potuto seguire l’evolversi letterario di James Joyce.
È infatti a partire dal numero di marzo 1918 di The Little Review - 22x14,5 cm il suo formato; Margaret C. Anderson publishers e sede stabilitasi a New York - che inizia la pubblicazione rateale dell’Ulysses, la cui sequenza avrà termine col volume settembre-dicembre 1920, dopo 23 discontinue puntate tormentate da continui sequestri e da un processo per trivialità, processo commentato dalla stessa Margaret C. Anderson in “Ulysses” in Court, sul numero gennaio-marzo 1921 della rivista stessa.

In Europa, sempre nel 1914, a partire dal numero 3 datato 2 febbraio, The Egoist - Dora Marsden editor, con sede in Bloomsbury Street, London W.C. - iniziava la pubblicazione di Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce, saga terminata dopo 24 puntate nel settembre 1915.
Anni dopo, a partire dal numero di gennaio-febbraio 1919, la stessa rivista riprende e pubblica alcuni sparsi episodi dell’Ulysses: sei puntate, terminate col numero di dicembre dello stesso anno.

Ed è sempre di questi giorni l’arrivo sulla mia scrivania di un altro importante tassello per gli studi joyciani: Ricordi di Joyce, lo scritto che Silvio Enea Benco aveva pubblicato in lingua madre sul periodico fiorentino Pegaso, agosto 1930, e poi in lingua inglese ma con titolo diverso: James Joyce in Trieste su The Bookman, New York, n. 4, December 1930. Ho entrambi i fascicoli, ma ho dato la precedenza al testo originale, di non facile reperibilità e qui da me integralmente trascritto.
Buona lettura.



Silvio BENCO. Ricordi di Joyce. [in] Pegaso, anno II, numero 8, agosto. Felice Le Monnier, Firenze, 1930, pp. 150-165.

RICORDI DI JOYCE

- Abbastanza mutato, Joyce, - mi dice mia moglie, che ha visitato di recente lo scrittore e la sua signora a Parigi: - È ringiovanito, e s’è fatto in tutto un uomo elegante. Nella sua casa regna, come sempre, la musica: la signorina danza, e s’è anche presentata al pubblico; il giovane figlio esercita la sua voce baritonale; tutta la famiglia è sempre pronta a seguire nell’una e nell’altra città le peregrinazioni di un illustre artista polacco, che Joyce ammira sopra ogni altro cantante. Per amor dei contrari, anche il dialetto triestino ha in quella casa tutti gli onori: è la lingua abituale della famiglia. (Irlandese la signora e il marito; i due figliuoli nati e cresciti a Trieste). Parlano tutti il nostro dialetto con la voluttà di conservargli la rudezza dell’accento locale. Bizzarra cosa, quel signorile appartamento parigino tutto pieno della parlata dei quartieri popolari di Trieste. Aver dimenticato l’indirizzo di Joyce e dover trovare l’uomo, è una disgrazia. Le celebrità forestiere non sono conosciute da molti, a Parigi. Trovai tuttavia, in una delle librerie principali, l’uomo che sapeva l’indirizzo. «Non è un dovere della nostra professione il saperlo; è una mia erudizione del tutto personale», egli ci tenne a chiarirmi con un particolare sussiego. E così mi fu dato vedere Joyce nel suo nuovo aspetto d’eleganza e di ritorno alla giovinezza; ma anche, purtroppo, troppo aggravato agli occhi da non vederci più a scrivere, da dover dettare ogni cosa. Sette volte, dagli anni di Zurigo in poi, quegli occhi sono stati operati senza alcun sensibile miglioramento, ed ora si sta per intraprendere un trattamento decisivo, dal quale si spera molto. Intanto, a tutte le ore, in tutte le stanze, ci sono ammiratori e discepoli del maestro, giovani inglesi, che leggono per lui, raccolgono il suo dettato, fanno per lui martellare le macchine da scrivere. Il lavoro di Joyce invade letteralmente tutta la casa. Quel suo nuovo lavoro che prenderà sette anni della sua vita, come Ulysses, e del quale sono state pubblicate in America la prima e qualche cosa dell’ultima parte: i capitoli centrali rimangono tuttora in gestazione. All’infermità degli occhi egli non permette di vincerlo; ne domina bravamente l’amarezza; appare solo un po’ astratto e lontano, nella sua parlantina sempre arguta e sarcastica. Egli ricorda ad uno ad uno i tanti triestini ai quali ha insegnato l’inglese; ricorda certe vie cittadine, le sue care vie di Città Vecchia, con le osterie e le friggerie che forse non esistono più; al nome di Svevo, si commuove, e s’indigna che un uomo di tal valore abbia potuto morir così presto. Passa da un argomento all’altro; v’intromette aneddoti, nella sua favorita forma dell’apologo. Si rallegra della prima traduzione giapponese d’un suo libro, non ricordo più quale. La sola cosa, - egli dice, - che non lo interessi più per nulla è la politica. «Nessuno se ne occupa del resto, soggiunge; non è più di moda».

Ora alle impressioni di ieri, di mia moglie, mi sostituisco io coi miei ricordi più o meno lontani. Quasi alla giovinezza devo tornare: quando s’incominciò a parlare, a Trieste, d’un nuovo professore che era un portento nell’insegnare l’inglese. Ed erano pur freschi nella città i ricordi di Pietro Jones, l’altro uomo singolare, altra celebrità in questo insegnamento. Joyce, quando giunse a Trieste, aveva poco più di vent’anni, ed era stata Pola la prima tappa di un viaggio di nozze, che era anche un viaggio di necessità per trovar da vivere a questo mondo. Un giovane irlandese, affinato e piegato dalla scuola dei Gesuiti fino a saltarne fuori di scatto rompendo tutto, e una giovanissima sposa che aveva molto amore e molto coraggio dietro il visetto attonito, non possono nemmeno essi vivere d’aria. A Pola trovano un giovane fiorentino, il professor Alessandro Francini-Bruni, e un’altra giovane signora, che erano ancor essi dinanzi allo stesso problema. La Berlitz-School li aveva chiamati, e per il momento li salvò tutti e quattro. Joyce insegnava l’inglese, e Francini il pretto toscano. Un po’ diverso dall’italiano in cui Joyce incominciava a lanciarsi. «Parlava allora uno strano italiano, - Racconta il Francini, - stracco convien dire meglio che strano, un italiano ciompo pieno di trafitte e di scrofole. Era, in ogni caso, una lingua morta che veniva ad unirsi alla babele delle lingue vive». Dopo un anno, vennero i due nuovi amici a Trieste, ancora alla Berlitz-School. Bolletta nera. Ma ben presto l’Accademia di Commercio rapì Joyce a quell’umile cattedra; e incominciò la fama di lui.
Fama di professore d’inglese, intendiamoci. Giacché le poesie che a quando a quando egli mandava a riviste di Dublino, erano una sua faccenda privata e lontana, né i triestini avevano a sapere del suo libretto di versi Chamber Music, del quale i maestri irlandesi musicavano tutte le pagine. Joyce era già qualcuno nella sua patria abbandonata; ma a Trieste non s’atteggiò mai a letterato; permise a tutti d’ignorarlo; forse ci trovava piacere, e difatti in lui la già vissuta, se non ancora rivissuta, esistenza di Stefano Dedalus. Meglio il professore coscienzioso e probo, che accettava l’esilio come l’esilio. Così alto, smilzo, slanciato, imberbe (un esemplare della giraffa, diceva egli), misurante le vie con due gambe di compasso irreprensibilmente rigide, sarebbe potuto sembrare, e con pieno diritto per la sua età, un ragazzone che avesse avuto il crescere diseguale e lo sviluppo tutto osseo dell’adolescenza. Senonché nessuno avrebbe preso James Joyce per un ragazzone, tanta era nella risolutezza della sua andatura d’automa l’espressione di una vita già matura, già decisa, e che traesse autorità dalla propria sodezza. Passava volentieri le notti a bere, dice Franchini; io di queste faccende della notte non ne so nulla. Doveva essere ancora, dentro di sé, un discreto ribelle; ma questi sentimenti tumultuosi, riservati all’Irlanda, anche annegati forse talvolta ne whisky e nel vino, non erano decifrabili per noi, che ammiravamo in quel suo slancio ginnastico la perfetta rispondenza della macchina alle esigenze ambulatorie della sua professione. Correva a dare la loro ora d’inglese, di casa in casa, a tutti i triestini. In verità, il nocciolo dell’uomo sodo c’era. Strenuo e puntuale lavoratore, ottimo padre di famiglia, stretto alla moglie, ai figli, alla casa. Ma dentro aveva il tormento poetico, le acute discriminazioni critiche, la diavoleria paradossale di Joyce. Il suo amico Francini, con cui c’era la confidenza dei casi comuni, fu forse il solo nei primi tempi a saperlo: e dopo la guerra lo ricordò in un libriccino vivacissimo, oggi alquanto raro, che ha tratti biografici preziosi. Il titolo è brutto: Joyce intimo spogliato in piazza. Ma è la sola cosa brutta. Se non fosse in parte una caricatura, ce ne fideremmo molto più largamente.
Pure un momento vi fu, nel quale poco mancò non si scoprisse il letterato Joyce anche a Trieste. Il dottor Roberto Prezioso, allora mio direttore al Piccolo, uno dei pochi che si fossero stretti in amicizia con l’irlandese, mi pregò di voler rivedere la forma italiana di alcuni articoli su l’Irlanda che questi gli avrebbe portato. Debbo a ciò la conoscenza personale di Joyce. Egli voleva che la revisione avvenisse sotto i suoi occhi; e non credo fosse diffidenza, ma volontà d’imparare. Per vero, negli articoli c’era da mutare ben poco; l’italiano vi si sentiva un po’ duro e prudente; ma non mancava né di correttezza né di tono espressivo, quand’anche la scelta del vocabolo appropriato non fosse sempre quella del purismo linguistico. - Lei scrive in inglese e poi traduce? - gli chiesi. - No, scrivo direttamente in italiano. - Erano ormai tre anni da quando aveva incominciato a impararlo: e rimase la lingua nostra uno degli strumenti più perfetti tra le diciotto lingue antiche e moderne delle quali egli costituì a poco a poco il suo tesoro di glottologo e di filologo. Parlava il greco antico e l’odierno, il sanscrito, l’arabo, tutte le lingue maggiori d’Europa; successivamente vi aggiunse, come ricercatezze e rarità, anche le minori.
La mia collaborazione durò poco. Il giorno che disputammo sopra un vocabolo, ed ebbe ragione lui, vocabolario alla mano, mi fu chiaro che i suoi manoscritti non avevano bisogno dei miei freghi di penna. D’altronde, gli articoli furono pochi. Tre in quell’anno, 1907, e poi, un paio d’altri, a intervalli lunghissimi.
Joyce non si rallegrava ancora che la politica fosse fuori di moda. Dall’Irlanda ne portava ancora in sé il fremito: vi fossero pure in lui l’amarezza del disinganno, l’insofferenza dell’uomo fastidito e la bravata dello scettico. (- Le monarchie costituzionali e non costituzionali mi fanno schifo, - disse un giorno a Francini: - Le Repubbliche, borghesi o democratiche, mi fanno schifo. Possiamo desiderare la Monarchia per diritto divino? Ci credi tu al Sole dell’avvenire? -). Tuttavia, l’evocazione della cara patria, colpevole di averlo disamorato, non avveniva in lui senza accento di dolore, sembra quasi una rabbia di pianto. Il primo di quegli articoli L’ultimo feniano, parlava di un certo John O’Leary, morto a Dublino il giorno di San Patrizio. Spiegava che nel fenianismo era da vedere una duplice lotta: la nazione irlandese contro il Governo inglese; ma anche il partito «della forza fisica» contro il partito moderato. Ora il fenianismo era invecchiato o morto. I suoi momenti psicologici erano passati. «In Irlanda, al momento psicologico, si presenta sempre il delatore». (Rampogna che si riproduce in Ulysses: gli Irlandesi tradiscono sempre i loro uomini migliori).
Il secondo degli accennati articoli del Piccolo della Sera era intitolato Home Rule maggiorenne. Ricordava gli evviva a Gladstone, nel 1886, quando il vecchio statista aveva dichiarato che il partito liberale inglese si sarebbe rifiutato di far leggi per l’Inghilterra finché essa non avesse concesso una misura d’autonomia all’Irlanda. Dopo sette anni e mezzo, Gladstone, «avendo nel frattempo, con l’aiuto dei vescovi irlandesi, compiuto l’assassinio di Parnell», presentava per la terza volta il suo disegno di legge alla Camera. Ora, dopo ventun anno, l’Home Rule sarebbe dovuto essere maggiorenne. Invece Gladstone era morto, il parlamentarismo irlandese fallito, e tutto dormiva. Gladstone aveva fatto maggior danno all’Irlanda che Disraeli. L’aveva, sempre con l’aiuto dei vescovi, impaludata.
Pochi mesi dopo, un terzo sfogo di pessimismo, L’Irlanda alla sbarra. Vogliamo leggerne l’inizio, come saggio dell’italiano di Joyce, e anche per l’accenno che contiene all’antica schiatta, donde proviene l’autore:

Parecchi anni or sono si tenne in Irlanda un processo sensazionale. Nella provincia occidentale, in un luogo romito che si chiama Maamtrasma, era stato commesso un eccidio. Furono arrestati quattro o cinque villici del paese appartenenti alla tribù di Joyce. Il più anziano di loro, tale Milesio Joyce, vecchio di sessant’anni, era particolarmente sospetto alla gendarmeria. La opinione pubblica lo giudicava allora innocente, ed ora lo stima un martire. Tanto il vecchio quanto gli altri accusati ignoravano l’inglese. La Corte dovette ricorrere a un interprete. L’interrogatorio svoltosi col tramite di costui ebbe a volte del comico e a volte del tragico. Dall’un lato vi era l’interprete formalista, e dall’altro il patriarca della misera tribù, il quale, poco avvezzo alle usanze civili, sembrava istupidito da tutta quella cerimonia giudiziaria.

La figura di questo vecchio inebetito, «avanzo di una civiltà non nostra, sordomuto dinanzi al suo giudice», sembrava al Joyce simboleggiare l’Irlanda alla sbarra dell’opinione pubblica. «Essa non riesce a farsi capire; non ha modo di comunicare con l’opinione pubblica dell’Inghilterra e dell’estero. Gli irlandesi sono supposti malandrini. Il vero sovrano dell’Irlanda, il Papa, li capisce come gli inglesi».
Riuscirono poi anch’essi a farsi capire: ma Joyce non era obbligato a essere profeta.
Diciamo pure: grandi articoli non erano i suoi; né potevano suscitare molto interesse a Trieste. Ma spunti di passione, là dentro, non mancavano: l’innocenza del patriarca Milesio Joyce era quasi veneranda; Parnell, l’uomo intelligente sacrificato dall’ipocrisia e dalla furbizia, era senz’altro un personaggio tragico; L’Irlanda insulare, anacronistica, incompresa, era quasi un naufragio. L’uomo n’era saltato fuori; aveva scelto l’esilio; pensava freddamente col suo cervello: ma il cuore gli doleva.
Non poteva dolergli egualmente per lo sforzo di liberazione nazionale che sentiva, faticoso e accanito, a Trieste. Ma appunto perché gli mancavano i motivi di passione e di cruccio, lo considerava con una simpatia ragionevole. Molto viva era in lui la simpatia per l’Italia; ma certamente molto incompleta la sua conoscenza della letteratura italiana. Al Francini confidava questi giudizi sommari: «La letteratura italiana incomincia da Dante e finisce in Dante. Non è poco. In Dante c’è tutto lo spirito della Rinascenza. Adoro Dante quasi quanto la Bibbia. Il resto è zavorra». Egli aveva trovato per istinto il suo punto di affinità, ed era giusto; ma il suo giudizio trinciato sul resto poteva mettersi con quelli che si sogliono udire, su tutte le letterature, da intelletti sbrigativi. Nemmeno Roma gli piaceva. Solo la Chiesa romana gli pareva grande: ma quella specie di mescolata grandezza nel bene e nel male che molti stranieri ricavano dalla concezione eccessivamente romanzesca che essi si fanno del Papato nel Rinascimento. In conclusione, giudizi più beffardi che meditati: e sull’Italia non abbiamo nulla da imparare da Joyce. Se non forse l’avvertimento che gli stranieri prendono come pugni certe nostre imposizioni polemiche dei nomi dei nostri grandi, di Michelangelo, di Leonardo, di Galileo: li ammettono, ma non vogliono pigiare dei pugni.
Si capisce che egli tenesse le sue opinioni di letterato un po’ alla larga da quella che era allora la letteratura triestina. Frequentava molto i nostri teatri, e reputava gli italiani i primi attori e primi cantanti del mondo; leggeva sul Corriere le critiche drammatiche di Giovanni Pozza, e le trovava lucide e acute (più tardi egli mi lodò anche quelle di Renato Simoni). Mostrava interesse per parecchi musicisti di Trieste; ma dei propri lavori letterari non parlava se non con Svevo, molto più vecchio di lui e già da parecchi anni «autore locale dimenticato», e col dottor Prezioso, a cui aveva fatto leggere, manoscritte, le novelle che poi composero il volume Dubliners. Quest’ultimo me ne parlò con molto calore, e mi preannunciò una grande sorpresa quando sarebbero state pubblicate. Correva l’ultimo anno prima della guerra: le novelle Dubliners uscirono proprio quando scoppiava la guerra mondiale. Io allora non le lessi; non seppi nemmeno dell’avvenuta pubblicazione; a Trieste non poterono arrivare.
Avevo l’impressione - tanto è difficile penetrare la vernice di freddezza esteriore che copre gli spiriti nordici - di non aver saputo lasciare in Joyce alcuna traccia a mio vantaggio. Sapevo che nei miei romanzi giovanili egli aveva trovato molto da ridere, benché purtroppo fossero scritti sul serio: di ciò non gli facevo torto: ma pensavo che gliene fosse rimasta, più che indifferenza, diffidenza verso l’autore. Più tardi, ebbi prova che questo non era vero, e Joyce, che è veramente un’anima fedele, mi tratto sempre da amico. Egli stesso, forse, immaginava che io non avessi intravveduto in lui l’uomo d’ingegno. E in tal caso si sarebbe ingannato. Benché fossi ben lontano dal supporre contenuta nella sua testa la gigantesca equazione fra enciclopedia e vita, dell’autore di Ulysses.
Scoppiata la guerra, ecco Joyce a Trieste prigioniero a piede libero, cittadino di Stato nemico nelle mani dell’Austria. Aveva dovuto smettere l’insegnamento all’Accademia di Commercio. Anche le lezioni private si erano probabilmente diradate. Già da tempo diceva egli di aver insegnato l’inglese ormai a tutti i triestini e di dover accingersi a cambiare città: ma tante cose si dicono, ed egli era a Trieste profondamente attaccato. La guerra dovette in su le prime scombussolarlo, darli quel senso di crollo degli orizzonti che n’ebbero tanti uomini di pensiero. Lo si incontrava per le vie, camminante col suo passo rapido; ma tutto assorto in se stesso, le labbra inchiodate da una linea dura a perpendicolo, scoramento negli occhi e perplessità. Salutava con un lungo sguardo, ed evitava di trattenersi, di scambiar parole. La posizione ufficiale di quell’irlandese in guerra con l’Inghilterra era adesso quella del cittadino britannico in guerra con l’Austria. Accettarla non era bello, e tanto meno rinnegarla.
E la guerra: sentiva egli quel gran problema che pesava su tutte le coscienze? Aveva egli già scritto, nell’incominciato Ulysses, la famosa frase: «La storia è un incubo, da quale tento di risvegliarmi»?
Dopo breve tempo, Joyce scomparve dalla città. Aveva ottenuto di potersi recare in Isvizzera. A Trieste, avvicinandosi il conflitto con l’Italia, le autorità imperiali non amavano custodire cittadini di Stati nemici. Joyce andò a Zurigo: e da quell’uomo ch’egli fu sempre, o tale almeno lo giudico, inflessibile nella propria rotta interiore, tenne fermo alle sue costruzioni d’arte, e non badò ad altro. Gli stavano avvenendo cose meravigliose. Il successo di Dubliners, lui lontano; il prezzo principesco pagato in America per il manoscritto, e perfino per la bozza di stampa, del Portrait of the artist as a young man; la piena tranquillità materiale per l’oggi e per il domani; l’indipendenza guadagnata allo spirito. Era di buon umore (mi dice il mio amico Antonio Battara, che fu suo compagno nell’esilio elvetico) e si passavano ore deliziose ad ascoltare i suoi aforismi e i suoi paradossi. Parecchio tempo passava a letto, scrivendo Ulysses; spesso si mescolava con gli altri esuli irlandesi, e li aiutava a fondare una compagnia di «Irish players», che, improvvisato un teatro, vi recitavano la sua commedia del tormento, Exiles. Anche la signora dello scrittore recitava talvolta, e molto bene. Come diversivo, egli ebbe qualche scenata burrascosa col console britannico. Forse si trattava di quell’episodio di Ulysses che, mandato manoscritto in Inghilterra, riuscì tanto incomprensibile alla censura da farglielo giudicare un documento cifrato; e si persuasero solo da ultimo di aver a fare con «un genere di letteratura ancora sconosciuto». Lievi cose. La più grave fu la malattia agli occhi, della quale Joyce incominciò a soffrire molto seriamente.
A me qualche eco giungeva di tutto ciò nel mio luogo d’esilio, mediante i giornali di Zurigi e di Monaco. Joyce era divenuto decisamente un uomo celebre. Un giorno ebbi la visita inattesa del fratello di lui, Stan Joyce. Relegato io a Linz, sul Danubio, egli chiuso nel vicino accampamento di Katzenau, un giorno d’uscita mi portò i saluti dello scrittore. Ebbi dunque sulla favolosa avventura della sua celebrità più precise notizie; Stan Joyce anche mi disse che gli inglesi erano stati colpiti da una specie di classica nitidezza nella prosa di suo fratello, e da una costruzione musicale dei periodi insolita nei loro autori. Egli era un uomo intelligente, non un letterato, e tutto l’opposto di uno «snob»: e queste sue notizie mi furono preziose. Alla seconda sua visita, mi portò Dubliners. E conobbi Joyce dei giovani anni: ritrattista d’uomini veri, conscio vigilatore del suo stile, non meno realista e non meno analitico di quello che fosse la maggior parte dei narratori della sua generazione, osservatore acuto e, meglio che spassionato, capace di mettere la distanza di un tono freddo alla propria commozione.
Tornato a Trieste nella primavera del 1918, vi trovai Exiles, e poco dopo mi giunse da Zurigo il Portrait of the artist. Nella commedia riconobbi tosto la radice ibseniana (Ibsen, grande amore di tutta la giovinezza di Joyce), ma troncata al punto dell’innesto retorico, e sviluppata crudelmente, un po’ alla Strindberg, secondo la legge naturale di distruzione dell’anima, quando s’è esposta al fuoco. Forse Strindberg avrebbe finito col prorompere; Joyce guardava la distruzione ironico e taciturno.
Nel Ritratto mi colpirono il rigore della precisione, la lucidità estrema del disegno, la «somiglianza» con l’originale che si rivelava per la logicità della struttura: ritratto di «scolaro», plasmato, fucinato e temprato nella disciplina mentale della scuola dei Gesuiti; ribelle sì, pieno d’ira e di recriminazioni, infocato alle ritorsioni critiche, ma non mai più liberato, non mai più liberabile, dai segni spirituali lasciati in lui da quella scuola imperiosa. Essa lo ha armato guerriero in tutti i sensi. Egli è un formidabile teologo, filologo, umanista; è esercitato al sillogismo, all’ordine architettonico della Chiesa, al sottile argomentare della scolastica, al contrappunto della musica sacra, al sagace risalire dalla vita alla verità occulta dei testi. Non importa che egli sia un ateo, uno svincolato a priori da ogni legge morale, un concitato beffardo, e che, rasciutta in lui ogni linfa emotiva della chiesa e della tradizione patria, non tenda ad altro che a un riconoscimento estetico del mondo.
Il Ritratto non sarà mai il libro degli italiani. È terso di una tersità translucente, fresco di una tagliente freschezza invernale che è quasi rigidità, autoritario per esattezze intellettualistiche, più che non tollerino le nostre abitudini colorite e sentimentali. Non bisogna prenderlo come un libro troppo giovanile rispetto ad Ulysses. È scritto immediatamente prima di esso. È un suo elemento, come i ritratti dei Dubliners. È il ritratto, profondamente volitivo, del giovane che si sobbarcherà a quella fatica enorme. Prima di concepire il labirinto, egli fissava, chiare, ancora dissociate, le linee del mondo; provava al loro taglio la sua intelligenza. L’autore di Ulysses mi si presentò, improvviso e inaspettato, un giorno del 1919.
    Allora io dirigevo un giornale a Trieste. Era una vita faticosa; forse anche bella, ma faticosa. Pareva che tutti, in quel momento, avessero l’amore del caos, e non concepissero la vita che in edizione straordinaria. Joyce, come apparizione del caos, era intonatissimo. Sembrava in quei giorni un poco invecchiato: avrei anche detto stanco; ma questo non era. La sua figura alta e stecchita s’era stretta addosso una di quelle tonache da monaci con cintura militare che allora usavano come soprabiti; gli era troppo corta, e lo sproporzionava. Dopo pochi momenti, mi pregò di velare un poco la lampada che, essendo all’altezza del suo viso, gli offendeva gli occhi. E allora parlammo dei suoi occhi offesi, e di Trieste dov’egli contava di rimanere per sempre, dei tempi agitati che non riuscivano ad alterare, del resto, la sua imperturbabilità, della lingua danese che egli studiava, sua diciottesima lingua, del parlare il greco antico come il moderno di Omero e di Ulysses.
Io ebbi quella sera un concetto generale del lavoro, non tale però da farmene un’immagine nemmeno lontana. La misura di Joyce era per me ancora nel Portrait of the artist: a quel canone si ragguagliavano naturalmente le mie aspettative. Ma dopo un paio d’altre visite (non più imbrigliato dalle lezioni, Joyce veniva spesso a trovarmi) la mia curiosità si era fatta più tesa: massime quando mi fu mostrato il pentacolo magico di Ulysses, la chiave del suo segreto, il famoso specchietto della sua costruzione ermetica, che tutti possono oggi trovare nel volume di Stuart Gilbert, mirabile commentario che, con la guida dell’autore stesso, interpreta e chiarisce in ogni parte il romanzo di Joyce.
Seppi perciò com’egli avesse inteso praticamente il rapporto fra la giornata vagabonda di un moderno abitante di Dublino e il viaggio dell’antico Ulisse cantato da Omero. Seppi che ad ogni canto dell’Odissea corrispondeva un episodio del nuovo Ulisse, appropriato a una determinata ora del giorno: che Stefano Dedalus vi diveniva il novello Telemaco, giovane intellettuale bramoso, arrischiato e inesperto; che il funerale di un oscuro cittadino dublinese permetteva di riprendere i temi della discesa di Ulisse nell’Ade; che una redazione di giornale figurava la caverna d’Eolo; che le sirene omeriche erano rievocate in due belle figliuole nuotanti con le braccia nude tra la multicolore liquidità degli alcoolici dietro il banco di un bar, mentre la sala era piena di musiche strimpellate da un pianoforte e vociate dai clienti canori; che Circe teneva bordello; che «gli scogli vaganti», pericolosi ai mitici navigatori, erano simboleggiati da un pesante carrozzone del tranvai e dal corteo del vicerè Lord Dudley, ingombri mobili, alla stessa ora, delle vie di Dublino.
Seppi altresì che le sensazioni d’ogni singolo episodio erano chiamate a raccolta da una diversa parte del corpo umano, cervello o stomaco, orecchi o naso, intestini o più giù; che ciascun episodio era orientato intellettualmente, con introduzione di personaggi acconci, verso una plaga dello spirito, o della vita sensuale: teologia, retorica, letteratura, politica, medicina, magia, erotismo o esaltazione alcoolica; che molti episodi avevano un loro colore dominante, e ciascuno era contraddistinto da un simbolo (erede, cavallo, affossatore, editore, vergine, madre, prostituta, terra); e che avendo ogni personaggio il proprio suo stile, e ad ogni situazione e materia trattata convenendo anche uno stile particolare, da prediligersi in autori diversi, era nel libro un concerto stilistico, che spezzava audacemente la regola dell’unità di forma, facendosi innanzi ad ora ad ora gli stili più vari, dall’omerico al biblico, dall’elisabettiano al settecentesco, dallo shakespeariano maggiore e clownesco al vittoriano borghese, dallo stile di romanza al giornalistico, da quello di Carlyle a quello di Synge, da quello dell’Università a quello della bettola, e da quello dei Santi Padri a quello futurista.
Ma infine, tutto ciò non mi diceva che un programma, il quale per bizzarro e gigantesco che fosse, poteva anche ridursi ad una enorme farsa o ad un nobile fallimento. Joyce spiegava cotesta complicata tessitura, con convinzione sì, ma senza infervorarsi, al suo modo lucido, compassato, scandito, come se esponesse l’intavolazione d’un problema matematico. Certo v’era la compiacenza in lui d’aver architettato cosa sì nuova, difficile e strana: ma soprattutto una grande sicurezza, quella assoluta fiducia di andar dritto e con piene forze, che gli dava autorità anche ai tempi della prima nostra conoscenza, quando sarebbe stato impossibile il sospettare in lui un maestro.
Dopo quella prima preparazione, egli volle che leggessi quanto era scritto di Ulysses. Mi portò i fascicolo della Little Review di New York, dov’era comparso circa un terzo dell’opera: alte strida di puritani, offesi dalla sua «oscenità», avevano costretto a interrompere la pubblicazione. Gli episodi successivi erano tuttora semplicemente battuti a macchina: ne mancavano ancora cinque per il compimento dell’opera. Egli mi mostrò gli scartafacci, sui quali preparava la materia di ogni episodio, gli appunti di compulsazione, le citazioni, i riferimenti, le idee, le prove di stile; quando tutta la materia era pronta, egli si accingeva a stendere l’episodio, e lo faceva di solito in meno di un mese. Estro, diavolo in corpo, adunque, e non lambicco. Ulysses era stato, con questo metodo, incominciato a Trieste prima della guerra, continuato a Zurigo, ed ora ripreso a Trieste.
Leggere i primi episodi nei bei quaderni della Little Review mi fu relativamente facile: in essi è protagonista, come tutti sanno, il giovane Stefano Dedalus, questo «bohème» ad alta tensione, che s’è bandito dalla propria famiglia e dalla roccia fossilifera delle idee familiari, e vive, cervello al vento, cercando di essere quanto è possibile uccel di bosco al margine della società e delle sue credenze. Cotesta Telemachia, per quanto vi si respirasse l’atmosfera intellettuale frizzante del giovane pedante ribelle, non mi dava ancora il senso d’espansione e di vibrazione molecolare in tutte le direzioni; era di linea più semplice, e si ricollegava alla maniera di proiezione intellettuale a me nota dal Portrait. Il fascino nuovo, avvolgente, travolgente e sconvolgente, incominciò quando il romanzo ebbe un repentino mutamento di centro, portandosi nella casa e nella persona di Mr. Leopoldo Bloom. L’Ulisse di Joyce. La sua grande creazione d’artista. Il semita vagante, la cui elaborazione psicologica attinge incessantemente nelle esperienze di una vita già lunga, nel mistero di un passato immemorabile, e nel perpetuo stimolo subcosciente dei sensi. Sentii ben presto che nel cervello di Joyce si navigava ormai per un vasto e vorticoso mare: e per quanto faticosa fosse divenuta la lettura, su quei fogli dalle righe troppo fitte, dalla grana troppo speluzzata, dagli inchiostri troppo pallidi, tempestati qua e là di correzioni e di aggiunte nella minuscola scrittura saltellante dell’autore, per quanto l’astrusità stessa delle idee e del vocabolario fosse aggravata da questi attriti meccanici, ebbi l’intuizione, che si ha un paio di volte nella vita, di cogliere il primo fremito di un’opera d’arte destinata a non lasciare il mondo com’esso era ieri.
Tutta quella mia prima lettera fu più che altro intuizione. Ne parlammo qualche tempo dopo col professor Stan Joyce, il quale condivideva l’opinione di molti inglesi che suo fratello avrebbe fatto meglio a perseverare su la via del Portrait, e trovava pagine intere di Ulysses assolutamente incomprensibili. «Lei, deve sapere ben profondamente l’inglese per cavarne qualche cosa», mi disse. Gli risposi che il mio inglese era molto povero, e del tutto subissato da un nababbismo linguistico come quello di suo fratello; ma che mi aiutava per fortuna una certa intuizione che ho di queste cose. E fermamente io credo che in quanti, inglesi o no, hanno letto Ulysses la prima volta, solo l’intuizione poté supplire a ciò che l’autore esigeva dalla loro elasticità e versatilità.
Mi è piaciuto veder citato anche nel libro di Stuart Gilbert il giudizio di un critico napoletano, che non Stefano Dedalus, né Bloom, fosse il protagonista di Ulysses, bensì il linguaggio. Io stesso, negli articoli informativi ch’ebbi a scrivere dopo la prima e la seconda lettura del libro, ne decantai sempre la ricchezza lessicale senza fondo; e più accentuai questa caratteristica, quando s’incominciò a cantare quel noioso ritornello di nomi, Proust, Joyce, Svevo, Kafka. Scrittori analitici tutti, certamente, e ognuno a modo suo: ma Joyce portava l’analisi nel corpo stesso della parola, che egli possedeva da glottologo, da filologo, da fisiologo, da naturalista, come si conviene a questo proteiforme elemento, la parola che si presenta in centomila forme, presso centinaia di popoli, negli atti meccanici istantanei del passaggio dall’interiorità all’espressione. Joyce era ossessionato dalla duttilità di questo suo Proteo: componeva, alterava vocaboli con innesti audaci su scorticate radici; li ironizzava nella stramberia delle onomatopee e dei suffissi mimetici; li prendeva da altre lingue, quando, nel mosaico, aveva bisogno d’un più sprizzante baleno di vetro: li trattava come valori musicali; li costringeva, con arte diabolica, ad affluire, monosillabici e martellanti, nelle strette precipitose del contrappunto fugato che essi dovevano imitare parlando. La scienza del linguaggio era per lui capitolo primissimo ed approfondito della sua scienza universa: dannato «scolaro», ma scolaro sempre; dotto della linguistica comparata e dei valori fonetici, di tutti gli artifizi della retorica e dei riflessi nervosi ingenui della bocca che parla. Si componeva quella sua oggi ammiratissima lingua, che, pur essendo fatta dei vigori di sette secoli della letteratura inglese, con qualche impollinatura delle lingue antiche e degli idiomi moderni, doveva essere l’organo di trasmissione artistica, intonata, sensitiva, di una nuova scienza del meccanismo umano.
Nuova scienza: vocabolo, dinanzi all’ultimo Joyce, sempre presente. Fra quello che egli prende dall’Italia per la sua costruzione (schegge, talvolta, minuzie, bestemmie in bocca romana, spunti dal dialetto triestino, gerghi gigioneschi, perfino la scenografia della Danza delle ore del buon Ponchielli), sta in sommo posto e in somma riverenza il pensiero di Giambattista Vico. Esso lo affascina, come concezione delle razze, come teoria del linguaggio e come interpretazione della storia: e non più ormai un mistero (il Gilbert via accenna più volte nel suo commento ad Ulysses), che il prossimo libro del romanziere, The Work in progress (titolo provvisorio e…. pirandelliano) sarà anche più deliberatamente compenetrato di spiriti vichiani. La nuova scienza, l’esplorazione del mondo come genesi e come ciclico ritorno, sarà ricondotta al suo maestro e padre, al grande precursore napoletano.
Joyce, per tutto quanto si sa del suo nuovo lavoro, intende insistere nel carattere analitico, sperimentale, in una parola scientifico, della sua creazione d’arte. Vuol continuare a essere l’uomo che molto sa, d’innumerevoli cose, e che nulla scrive, nessuna eccitazione si permette all’estro, senza aver controllato la sua posizione con osservazioni scientifiche. Nel Work in progress, lo studio della lingua investirà anche la materia, parzialmente freudiana, dei «lapsus», delle parole steccate, smozzicate, deglutite nella ruminazione, o deformate o scambiate con altre in stati di distratta incoscienza o sotto l’azione di turbamenti nervosi: tronconi, frammenti e maschere di parole, che già fanno proclamare il nuovo libro molto più incomprensibile di Ulysses e molto più bisognoso di un magistrale commento delucidatore come quello del signor Stuart Gilbert. La tendenza a spingere l’indagine del linguaggio fino alle estreme conseguenze, fino ai misteri dell’articolazione di suoni, sembra voglia essere portata al fortissimo. Joyce è un ostinato, e la sua temerità letteraria si appoggia sull’ostinazione scientifica.
Si noti il largo uso che egli fa della parola «tecnica» per definire cose d’intonazione psicologica e di stile. Il «narcissismo», l’«incubismo», il modo narrativo, il dialettico, il «labirintico» ecc., che egli si propone seguire nei singoli episodi di Ulysses, per lui sono null’altro che «tecniche». Egli è un artefice cosciente, un cervello erudito, che ai propri sgorghi, alle proprie effervescenze liriche, ha messo un presupposto di rigorosa consapevolezza. I suoi personaggi possono navigare nella subcoscienza e nell’incoscienza della loro vita interiore; ma l’artista sa. L’artista è un dotto. L’incosciente è caduto nel laboratorio dei suoi sensi lucidi: è uno strumento nelle sue mani. Egli se ne vale con una meravigliosa destrezza e virtuosità. Ama, nella febbre del lavoro, palleggiarlo grottescamente, lanciargli qualche motteggio.
Per Joyce non esiste silenzio. L’uomo parla sempre. Parla con se stesso. Dirige il proprio discorso, ragiona; ma molto spesso gli viene quel discorso da impulsi reconditi e lontani, da frammenti d’impressioni subite e incubanti nella memoria, da improvvise indirette associazioni di idee con percezione dei sensi. Cose incoercibili e disguidate: fa lo stesso: l’uomo parla: Freud osserva il fatto, e ne svolge la teoria; Joyce lo osserva da artista, e ne cerca la «tecnica». Essa è quella chiamata del «monologo interiore», riproduzione fedele e realistica del linguaggio interno: tecnica non da lui inventata; gliela suggerì un romanzo francese uscito nel 1887, Les lauries sont coupés, d’un autore dimenticato, Edoardo Dujardin. Fu lui stesso ad additarlo all’attenzione di Valéry Larbaud, il suo possente traduttore, e di altri critici francesi. Non tace Joyce le proprie scoperte letterarie: lo abbiamo veduto nel «caso Svevo».
Questo «monologo interiore», che del resto è un po’ l’uovo di Colombo, Dujarden lo adoperava con una vivacità impetuosa e graziosa: Joyce lo adopera con versatilità di accozzi coloristici, con straordinari passaggi dalla minuta pittura divisionista ai ricchi e rapidi impasti, segnatamente quando lo attribuisce al continuo pettegolo gorgoglio della parlata interna di Bloom.
Che cosa pensassi di questo personaggio di Bloom, fu la prima domanda che egli mi rivolse, quando ebbi letto gli episodi di Ulysses poetati sino a quel momento. E rispose egli stesso: - Non ha carattere; non deve aver carattere. - Ribattei: - È tuttavia una persona viva. Ha una completa individualità fisica, sociale, morale; la definiscono perfino le indeterminazioni di contorni della sua vagabonda vita, senza professione precisa, e della sua provenienza di razza che si perde nell’Oriente e nel tempo. Egli è un piccolo uomo complicatissimo; non mai uomo semplice, e tutt’altro che materia bruta da sensazioni. Potrebbe essere altrimenti, se egli è il vecchio Ulisse, arrugginito in mediocri casi, ma anche affinato in una sottile civiltà?
Il monologo interiore, contrappuntato dai boborigmi dell’incosciente, è stato il razzo popolare della fama di Joyce. Conviene però soggiungere che la ricchezza di associazioni con tutte le forme della vita intellettuale, e la naturalezza con che vi si prestano i suoi personaggi, è il segreto del sempre rinnovato fascino del libro. La sua maestosa universalità, non la giustapposizione melodica degli accidenti interni, giustifica le sue proporzioni. Esso ha qualche cosa di medioevale, una sua anima costruttiva che tende a rinserrar tutto; è nella linea della Commedia, nel sistema mentale di Amleto educato a Heidelberg, nel mondo cabalistico e scolastico del dottor Faust. È assiso anch’esso sopra l’antichità. Quella idea di ricalcare il disegno d’un poema omerico in un’analisi attuale del mondo interno dell’uomo, è un’idea proprio da mente erudita, soggiogata dall’autorità esterna dei testi, bisognosa di vincolarsi a ciò che è scritto. Tanto più che il ricalco non è affatto limitato ad ariose analogie in grandi linee, come potrebbe credersi e come io stesso credetti alla prima superficiale lettura, anche dopo i chiarimenti del romanziere.
Il libro del Gilbert è a questo proposito di una chiarezza definitiva. Esso toglie ogni dubbio quanto all’essere il riscontro omerico condotto fino ai più piccoli particolari. Rintracciabile nelle più labili allusioni, nelle più caratteristiche idee, nelle strutture più minute del libro. L’Odissea è la chiave che di questo enorme mobile apre tutti i cassetti segreti. Una Odissea che frattanto ha vissuto la sua storia: che è stata posseduta criticamente, irradiata dalla filologia moderna, controllata dai celebri studi di Victor Bérard. Ma tutto ciò non dirada i vincoli, bensì li rende più numerosi e tegnenti. Joyce sa tutto, e tien conto strettamente di tutto. All’apparenza si direbbe che voglia legarsi senza remissione, negare al suo canto ogni possibilità di esser libero. Invece tutto gli serve; tutto gli è stimolo. Ogni vincolo gli dà uno scatto di molla nascosta. Pure sempre fra quei due righi inesorabilmente paralleli: i casi dell’Odissea e la proiezione di quei casi nella vita umile odierna.
Proiezione apparentemente degradata e deforme. Ma non poi tanto. Mercé le infinite connessure dell’analisi interiore, mercé la leggenda e la storia, la teologia e la retorica, la letteratura e la filosofia, l’architettura e la meccanica, la medicina e la magìa, ottiene anche Joyce un’amplificazione, una vastità, la quale a modo suo, certo bizzarramente, risponde al grande afflato che alla narrazione d’Omero veniva nell’immensità del cielo e dai venti del mare.
Si leggono di continuo nel libro i segni furbeschi della parodia; ma esso non è tutto parodia, né questa è l’essenziale. «Joyce è un uomo senza religione, ma non irreligioso», osservava già il buon Francini, che lo conosce come pochi. Così in tutto questo libro empio e sarcastico v’è la sensazione di un abisso di profondo mistero, dove sta qualche cosa a che Joyce tenta dirigersi come al polo di un’oscura fede. Il mondo, così frastagliato, pure è costrutto. Non esiste disarmonia. Il mondo canta. I contrari si conciliano. Nell’avviluppato caos fanno chiarità e ordine certe cicliche leggi. In trasmutazione di luoghi e di tempi, si ripetono gli stessi destini, gli eterni ritorni dello spirito umano nell’uomo. Il giovane Acheo sperduto, Stefano Dedalus, della leggendaria colonia achea di Dublino, diveltosi dalla casa paterna e dal putativo padre dublinese, va errando nella vita alla ricerca di un vero padre, in cui trovi gli antecedenti che gli mancano, i complementari senza i quali la sua anima è un tessuto inconsistente di intellettualismi irsuti. Ed avrà alfine a trovare questo padre nel vecchio fenicio Leopoldo Bloom, uomo di molti negozi, di molte esperienze, di molte patrie e di nessuna, di acutissima sensualità sempre eccitabile e sempre errabonda, di piccola realtà, ma infinitamente dilatabile per tutto quello che in lui agisce della sua preistoria lontana. Bloom cerca anch’egli un figliuolo, ché ne ha perduto uno, ed era negli anni suoi di fanciullo. I due uomini si avvicinano, si fondono, quel giovane Acheo e quel Fenicio, quello speronato intellettuale e quel randagio sensuale. La signora Bloom, Penelope, in cui anche è Gea, l’eterna madre degli uomini, li fonde anch’essa nel laborioso travaglio del suo dormiveglia: benché consideri la cosa in modo alquanto diverso, e del tutto femmineamente, e come si conviene ai suoi pensieri terrestri: e nel giovane figlio incognito che entra nella casa, ella veda piuttosto un giovane amante, che sorge su l’orizzonte perpetuamente irrequieto degli amori. Di che Freud si rallegra. Ma è certo che la fusione di Stefano e di Bloom, del rigido intelletto e della fluida esperienza sensitiva, si compie sopra tutto con soddisfazione in Joyce stesso, nell’autore consapevole, che ha cercato di vedere dentro di sé.
Si deve credere che egli si sia sentito vivere molto come Stefano, molto come Bloom. Più volte, in quest’ultimo anno suo di vita triestina, egli è venuto a tentarmi perché lo seguissi in qualche osteria di Città Vecchia a lui cara, a chiacchierare fumando la pipa e trincando, come sempre è piaciuto, del resto, a poeti e filosofi. Io non gli nascondevo che la tentazione era forte; ma dovevo pure rappresentargli che un direttore di giornale, in tempi così agitati, non poteva permettersi la dolce diserzione del suo posto e della sua scrivania. Joyce aveva in quel tempo la passione del Chianti chiaro e della cucina toscana, ed amava pranzare spesso da Francini, e trattenersi colà fino a ore piccine. Francini, allora ufficiale dell’Esercito, s’era fatto assegnare un appartamento al quarto piano della casa dove abito io. Là si recava Joyce quasi ogni settimana con tutta la famiglia, e ad una certa ora, per lo più molto innanzi nella notte, sentivo, leggendo a letto, il parlottare represso della comitiva che scendeva le scale e il passo pesante di Joyce, che non si era fidava dei suoi occhi al lume tremolante della candela. Una sera accettai di essere loro compagno.
Fu una serata molto allegra, benché l’allegria dei nordici non abbia la chiassosità di certe nostre allegrie familiari. Ma a ciò provvedeva Francini. Joyce era accompagnato dalla moglie, signora dalla svelta bionda bellezza, con una fisionomia statica in lineamenti di quasi greca regolarità. Avevano con loro i ben cresciuti figlioli: poiché non v’è famiglia più strettamente unita di questa. Joyce disse un mondo di bene di Linati, con cui era entrato in corrispondenza: e, mi esaltò gli scrittori suoi amici. Wyndham-Lewis, il poeta Ezra Pound e alcuni altri, raccomandandomi di leggere i loro libri. Egli, ho detto, è un’anima fedele. Dopo il pranzo, scostata un po’ la poltrona dalla tavola, si accinse a cantare. Abitudine sua fin dalla prima giovinezza, quando credeva che si sarebbe dedicato alla musica e sarebbe divenuto uno dei non pochi celebri tenori irlandesi. Cantò musica da chiesa. E pareva tutto assorto nel canto. L’autore di Ulysses.
Fu quella anche una delle ultime volte che lo vidi. I suoi giorni triestini precipitavano. Si era accasato alla meglio presso suo fratello; stavano tutti a disagio, e non c’era caso che si trovasse a Trieste un appartamento per James Joyce. Tempi davvero strani. Egli n’era esasperato, poiché gli pareva di poter vivere felice solo a Trieste. Ma un giorno si diede per vinto, oppure gli parve di dover seguire un cenno del destino: e se ne andò a Parigi.
SILVIO BENCO


ALESSANDRO FRANCINI BRUNI, Joyce intimo spogliato in piazza. Editoriale Libraria, Trieste, 1922. - STUART GILBERT, James Joyce «Ulysses». A study. Faber and Faber, London, 1930.












sabato 15 novembre 2014

27, rue de Fleurus




L’annuale blitz a Parigi è ormai alle spalle.
Sono rientrato con tante fotografie e un nuovo piacevole ricordo: lo scorso 6 novembre, attraversato il giardino del Lussemburgo, ho preso in direzione di rue de Fleurus, dove al civico 27 vi era la residenza dei fratelli Leo e Gertrude Stein, poi diventava la casa matrimoniale (Leo se n’era andato nel 1913) di Gertrude e di sua “moglie” Alice Babette Toklas.
Un’attrazione fatale, la mia, verso questo portone, con la lapide che ricorda il tempo che fu. Un portone varcato da tutta l’intellighenzia dei primi decenni del secolo scorso e dove, in una dependance isolata, separata dalle stanze da letto, i fratelli Stein prima, Gertrude e la Toklas dopo, tenevano appesi al muro i loro Cézanne, Matisse, Renoir, Picasso e altre future ricchezze economiche portate a casa per pochi soldi e …che mai nessuno pensò di rubare, tanto erano incompresi.
E poi le serate con Hemingway e tutti gli scrittori della sua generazione, che non era di certo “perduta”, frase della Stein sempre raccontata in maniera equivoca dai troppi che scrivono senza saper leggere e dai taglia-incolla di mestiere.
Ma ogni volta, arrivato davanti al portone non potevo far altro che scattare l’immancabile “nuova” fotografia e andarmene in cerca di altri ricordi.

La mattina del 6 tutto cambia: mentre sono pronto all’ennesimo scatto ecco arrivare un’auto che si ferma in mezzo alla strada e davanti al portone. Ne scendono due donne in tenuta da imbianchino e rapide prendono a scaricare i pesanti recipienti del colore, appoggiandoli al muro.
Mentre una delle due continua a scaricare il veicolo, l’altra pigia un tasto del citofono, si presenta, le aprono.
Rapido m’infilo nell’apertura del cancello, ritrovandomi nell’androne d’ingresso e davanti ad un armadio muscoloso con tanto di distintivo “da sceriffo” sul petto.
Profilo basso e subito provo a chiedergli il permesso di poter guardare dalla vetrata di fondo il giardino agognato, ma proprio in quel preciso istante il muscoloso guardiano ha cose più importanti da fare: si porta all’orecchio il cellulare e inizia a parlare.
Nello stesso istante vedo uscire da una porta laterale una giovane donna: punto su di lei, le dico che sono uno scrittore (ehm ehm) e che intendo scrivere della Stein e dei suoi amici artisti.
La ragazza sorride e mi risponde: lei parla inglese?
Ripeto la richiesta nella lingua voluta, chiedendo la cortesia di poter accedere al mitico giardino.
“Perché no?” risponde lei, aprendomi la porta del desiderio.
Ed eccomi li, tutto solo, davanti alla casa e al salone a suo tempo preso in affitto dagli Stein - però i quadri adesso sono ben custoditi in un museo di New York.
Scatto un po’ di foto, poi mi decido a lasciare quel luogo a lungo sognato.
Un breve momento di gioia che è valso tutto il viaggio.

Ripresomi, ho deciso che quello doveva continuare ad essere un giorno speciale, in cui potevo strafare, ed ho subito ripreso a camminare sulle orme di Camille Claudel, di Picasso, di Joyce e (irrinunciabile) di Hemingway, regalandomi un meritato riposo al tavolino de L’Époque, una piccola ed economica trattoria dirimpettaia al 74 di rue du Cardinal Lemoine, la prima casa parigina di Ernest.

E poi via, verso la stanza dove morì Paul Verlaine, locale in seguito affittato da Hemingway per farne il suo studio di lavoro.
Di certo non poteva mancare il consueto giro tra i librai di strada, dove ho trovato alcune biografie su Picasso, prime edizioni da me inutilmente cercate su internet, portate a casa per pochi euro ciascuna.
Una giornata piena, vissuta con gioia, come dovrebbero essere tutte. Sempre.

PS: qui sotto ho inserito alcune fotografie depoca, riprese da internet o da libri di mia proprietà, utili a ricostruire l'avvicendarsi (o il diminuire, dopo la partenza di Léo) delle tele appese alle pareti.


© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri

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27, rue de Fleurus nelle parole di Alice B Toklas
27, rue de Fleurus raccontato da Dan Franck

Jardin du Luxembourg



27, rue de Fleurus





Lo stesso angolo in tre scatti: 1905 (con Leo Stein),
dopo il 1920 e 2014








Alice B Toklas e Gertrude Stein, by Man Ray, 1922

Alice B Toklas e Gertrude Stein, by Man Ray, 1922
Place de la Contrescarpe

74, rue du cardinal Lemoine
La prima casa di Hemingway a Parigi vista
dal numero 81 di rue du cardinal Lemoine

 Paul Verlaine ed Ernest Hemingway hanno coabitato,
in tempi diversi, la stessa stanza


venerdì 10 ottobre 2014

Joyce, o la "resurrezione" di Svevo


Quando Aron Hector Schmitz (poi Ettore Schmitz, poi Italo Svevo) scrive e fa stampare a sue spese due romanzi, Trieste è soggetta al governo di Vienna e i commerci che ruotano attorno all’attività portuale creano ancora ricchezza, l’humus adatto al proficuo sviluppo delle attività artistiche di contorno.
Sposando Livia Veneziani, la vita di Ettore cambia registro: lascia il suo vecchio lavoro per entrare nell’azienda del suocero, con frequenti viaggi in Inghilterra a scopo professionale.
Dal 1905 alla Berlitz School di Trieste la lingua inglese è insegnata da un giovane irlandese decisamente strambo e forse per questo ricercato. Lui non annoia con lezioni grammaticali, ma ama entrare fin da subito nel vivo della conversazione attraverso il tema a lui più caro, la letteratura.
In breve il professor Joiz si ricava una sua fetta di clientela nel mondo della nobiltà e fra i ricchi commercianti, a cui impartisce lezioni anche in privato.
Questo giovane - James Joyce all’anagrafe - ha ereditato dal padre la sana abitudine che oggidì caratterizza politici, banchieri, alto clero e industriali da rapina: vivere il meglio possibile grazie ai soldi altrui.
Nel caso specifico, Joyce usa frequentare quotidianamente i ristoranti, passare le notti nelle osterie scolando quanto più vino bianco possibile (ma sempre il migliore) e frequentando postriboli. All’opposto, quel che proprio non rientra nel suo DNA è il metter mano al portafogli per pagare i creditori, proprietari degli appartamenti in affitto inclusi. Da qui la ragione dei suoi continui cambiamenti d’indirizzo; ma di questo ne parlerò altrove.
Un modo di vivere, questo suo, così “fotografato” da Ernest Hemingway in una lettera indirizzata a Sherwood Anderson e datata Parigi, 9 marzo 1922: «… Joyce ha un libro maledettamente meraviglioso. [L’Ulysses, appena pubblicato da Sylvia Beach] Probabilmente ti arriverà per tempo. Intanto le notizie dicono che lui e tutta la sua famiglia stanno facendo la fame, però poi quella tribù di celti la trovi tutte le sere al Michaud dove Binney [Hadley] e io possiamo permetterci di andare soltanto una volta alla settimana o giù di lì.
Gertrude Stein dice che Joyce le ricorda una vecchia di San Francisco il cui figlio si era arricchito nel Klondyke e la vecchia non faceva che andarsene in giro storcendosi le mani e dicendo: “Oh Il mio povero Joey! Il mio povero Joey! Ha troppi soldi!”. Questi maledetti irlandesi, devono sempre lamentarsi per una cosa o per l’altra, però mai sentito dire di irlandesi che muoiono di fame

Un bel giorno a Villa Veneziani il professor Joiz decide d’introdurre nella didattica la lettura di alcune sue poesie e parti del suo nuovo libro in fase di stesura. Ettore e Livia Schmitz ne sono profondamente colpiti e a modo loro vogliono omaggiare l’insegnante: lei esce in giardino e rientra con un mazzo di fiori freschi raccolti per lui, Ettore gli confida un suo segreto: a suo tempo pure lui aveva scritto due libri, invenduti e snobbati dalla critica letteraria.
Joyce li legge con voracità e già alla successiva lezione è in grado di recitarne intere parti a memoria davanti allo stupito autore. Tra i due nasce un nuovo rapporto - e per Joyce si aprono nuove fonti di credito a fondo perduto.

Lo so, ho raccontato tutto in fretta, restringendo tempi e modi, ma è una scelta voluta: ho in casa una copia de La vita di mio marito, firmata Livia Veneziani Svevo e come sempre - non uso a spacciar per mia la farina presa dal sacco altrui - cedo la parola a chi meglio di me può raccontare il peso che il beone, puttaniere e sifilitico James Joyce (l’inventore della letteratura “cubista”, primogenitura contestata da Gertrude Stein*) ha avuto nel far conoscere al mondo l’opera dell’integrato borghese Ettore Schmitz (Non aveva che genio: nient'altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto scriverà l'acido Bobi Bazlen in una lettera da lui inviata ad Eugenio Montale), proponendo una selezione di pagine mirate.

* Nota: Scrive Richard Ellmann in James Joyce, Feltrinelli 1964, p. 608: In Rue de Fleurus, a pochi isolati dalla Shakespeare and Company, Gertrude Stein era seccata al veder minacciata la sua posizione di prima sperimentalista. “Joyce”, ammetteva, “è bravo. Joyce è un buon scrittore. Piace alla gente perché è incomprensibile e tutti ci trovano qualcosa da capire. Ma chi è venuto prima? Gertrude Stein o James Joyce? Non si dimentichi che il mio primo gran libro, Tre vite, fu pubblicato nel 1908. Ulysses era ancora di là da venire. Joyce ha fatto qualcosa, certo. Tuttavia la sua influenza è locale. Come Synge, altro scrittore irlandese, ha avuto il suo giorno di gloria”.
I due primogenitori - in verità, le sperimentazioni linguistiche di Tre vite sono vino annacquato rispetto a Ulysses e Finnegans wake - fecero di tutto per non incontrarsi mai. Una sola volta accadde, a una festa in casa di Eugène Jolas, e in quella occasione Joyce si rivolse alla Stein: “Strano che viviamo nello stesso quartiere e non ci siamo mai visti.” “Già” rispose lei con tono distaccato. Furono le uniche parole che si rivolsero in vita.





[pp. 82-87] Le nostre vite si svolgevano in piena armonia. Ettore sembrava apparentemente pacificato, ma le sue ossessioni continuavano ad assediarlo segretamente. Il 10 gennaio 1906 scriveva su un album, le cui rimanenti pagine sono per la maggior parte vuote:
«Perché diavolo parlo tanto della mia vecchiaia? Non certo per paura della mia morte che non mi desta né curiosità né paura. Io penso che effettivamente la mia vita sia stata troppo corta. Fu molto piena di sogni che io non notai né ritenni. Non rimpiango di non aver goduto abbastanza ma sinceramente rimpiango di non aver fissato tutto questo periodo di tempo. Del resto se ci fossero molti altri che sentissero come me! Povera umanità! Quante autobiografie! Letizia crebbe e io non conservo della sua prima infanzia altro che delle pallide fotografie.
Tutto a me d’intorno muore giornalmente nell’oblio perché io sto estatico a vedere, frastornato da un mondo di gente che mi grida nelle orecchie. Siora Livia aveva vent’anni ed ora ne ha trentuno passati. A me pare come se essa avesse avuto sempre questa età e se arriverò all’età cadente, tutti noi saremmo stati sempre vecchi».
Aveva quarantatrè anni e considerava già chiusa la sua vita, mentre tante felici sorprese gli riserbava ancora il destino.
Lo scrittore pareva dormire nel profondo, quasi ignorato da noi e apparentemente guardato da lui stesso con una specie di compatimento: «Io mi ricordo che pochi anni or sono un uomo d’affari interruppe le trattative serie per domandarmi: «È vero che voi siete l’autore di due romanzi?». Arrossii come sa arrossire un autore in quelle circostanze e, visto che l’affare mi premeva, dissi: «No! No! No! È un mio fratello». Ma quel signore, non so perché, volle conoscer l’autore dei due romanzi e si rivolse a mio fratello, il quale poi non fu molto lusingato dall’attribuzione che evidentemente scemava la sua rispettabilità professionale».

Per farlo uscire da quella specie di dormiveglia occorreva una scintilla e questa si sprigionò nel casuale incontro con lo scrittore irlandese James Joyce.[1]
Già nel primo viaggio in Inghilterra Ettore aveva sentito la necessità di perfezionarsi nella lingua inglese. Conosceva perfettamente il tedesco, abbastanza bene il francese (s’era impratichito con me già all’epoca del fidanzamento), ma gli erano noti solo gli elementi dell’inglese. Lo studio della lingua fu la causa della sua fortunata amicizia con Joyce. Questi era venuto da Dublino a Trieste nell’autunno del 1903, portando con sé la giovane moglie, Nora Barnacle. Era giovane, aveva poco più di vent’anni, povero, al principio della sua meravigliosa carriera letteraria. Era giunto a Trieste dopo un’avventura tragicomica: preso il treno Vienna-Trieste, per errore era sceso a Lubiana alle quattro del mattino. Quando, l’indomani, chiese a un passante della via S. Nicolo, dov’era il recapito della Berlitz School triestina, capì di avere sbagliato città. E pieno di apprensione perché aveva con sé poco denaro, aspettò tutto il giorno e parte della notte alla stazione di Lubiana il treno per Trieste. Giuntovi, lasciò la moglie nel piccolo giardino prospiciente la stazione e andò alla ricerca della scuola per avere un aiuto in denaro. Capitò per sbaglio in una via di città vecchia dove dei marinai inglesi stavano azzuffandosi con delle donne di malaffare. Volle fare da interprete e da paciere, ma male gliene incolse: sopraggiunta la polizia fu arrestato assieme agli altri e trattenuto tutto il giorno in prigione, mentre la povera moglie lo aspettava seduta su una panchina del giardino, senza danaro, ignorando la lingua della città straniera.
Quante volte sentii raccontare con brio indiavolato da Joyce quest’avventura, il cui ricordo lo divertiva moltissimo!
Dopo aver insegnato per qualche tempo alla Berlitz School, se n’era staccato e viveva dando lezioni d’inglese, correndo di casa in casa. Ettore, oltre ad apprendere la lingua, desiderava trovare un’esperta guida per la migliore conoscenza della moderna letteratura anglosassone. Si rivolse a Joyce, che in quell’epoca era l’insegnante di moda presso la ricca borghesia triestina e così s’incontrarono.
Fra il maestro, oltremodo irregolare, ma d’altissimo ingegno (conosceva diciotto lingue tra antiche e moderne), e lo scolaro d’eccezione le lezioni si svolgevano con un andamento fuori del comune. Non si faceva cenno della grammatica, si parlava di letteratura e si sfioravano cento argomenti. Io pure vi partecipavo. Joyce era divertentissimo nelle sue espressioni e parlava il dialetto triestino, come noi, anzi un triestino popolare appreso nelle oscure vie di città vecchia dove amava sostare. Anche in Svizzera e a Parigi il dialetto triestino rimase il mezzo espressivo abituale della famiglia e dei figli, nati a Trieste: Giorgio dalla bella voce ereditata dal padre, e Lucia diventata danzatrice e abile disegnatrice. Ricordo ancora le sue magnifiche illustrazioni per un poema di Chaucer dedicato alla Vergine Maria.
Nonostante la differenza di età e di nazionalità, l’amicizia fra loro sorse immediata. L’irlandese, che non aveva mai parlato ad alcuno dei suoi lavori letterari, portò ben presto i suoi manoscritti a Villa Veneziani. Erano le poesie di «Chamber Music» e alcuni capitoli dei «Dubliners». Ricordo di essere scesa in giardino dopo la lettura del racconto «I morti», ultimo capitolo dei «Dubliners», a cogliere dei fiori e di averne fatto omaggio allo scrittore. Mio marito gli presentò a sua volta i due volumi dimenticati, prima «Una vita», per il quale aveva una particolare tenerezza, e poi «Senilità», come per dirgli: «Anch’io fui uno scrittore». Joyce li lesse subito e durante la lezione successiva dichiarò che secondo la sua opinione Svevo era stato ingiustamente negletto. Aggiunse con calore che certe pagine di «Senilità» non avrebbero potuto scriverle meglio i più grandi maestri del romanzo francese. A quelle parole inaspettate un balsamo scendeva sul cuore di Ettore. Egli lo guardava con grandi occhi incantati, beato e stupito. Mai avrebbe pensato di sentire tali lodi dei suoi romanzi dimenticati. Quel giorno non poté staccarsi da Joyce, lo accompagnò fino alla sua abitazione, in piazza Vico, narrandogli lungo il percorso le sue delusioni letterarie.
Era la prima volta che apriva il cuore a qualcuno per mostrarne la profonda amarezza. Joyce parlò diffusamente della scoperta nella sua cerchia di conoscenti ed agli intellettuali che andavano per la maggiore. Recitava persine a memoria le ultime pagine di «Senilità», si scagliava contro la cecità della critica, affermando che Svevo era un romanziere molto originale, l’unico moderno scrittore italiano che riuscisse a interessarlo. Ma anche di fronte a simili elogi l’ambiente triestino rimaneva sordo e incredulo.
L’irlandese trovava in Ettore una mentalità affine alla sua, un metodo analitico congeniale. Louis Gillet arrivò a dire, nel 1937, in una conferenza tenuta a Parigi, che Joyce aveva subito l’influenza di due soli scrittori italiani: Giambattista Vico e Italo Svevo.
Da allora, durante le lezioni parlarono continuamente di progetti e di problemi letterari. Mio marito confidò all’amico il suo proposito di svolgere un racconto intorno a un vecchio e a una fanciulla - realizzato più tardi col titolo «La Novella del Buon Vecchio e della Bella Fanciulla» - e Joyce discusse con lui in ogni particolare la concezione di Bloom sviluppata poi nell’«Ulisse».[2]
Sul carattere dubbioso di Ettore, il temperamento battagliero o tenace, la profonda sicurezza dell’irlandese (egli aveva risposto in giovinezza a un vecchio poeta: «È vero, io non subii l’influenza vostra, ma è deplorevole che voi non possiate subire la mia perché siete troppo vecchio») ebbero un benefico influsso. Lo si sente anche dal ritratto che Ettore ne fece molti anni dopo alla conferenza tenuta al «Convegno» di Milano l’8 marzo 1927:[3] «Il Joyce è ora più che quarantenne, ma è rimasto quale arrivò a Trieste. Sottile, alto, snello, potrebbe sembrare uno sportman se non si movesse con l’abbandono di persona cui le proprie membra non importino affatto. Quelle membra sono state trascuratissime e non hanno conosciuto giammai lo sport e la ginnastica. Da vicino non apparisce dunque il combattente strenuo che l’opera sua coraggiosa farebbe pensare. Molto miope, porta degli occhiali forti che gl’ingrandiscono l’occhio, e tale occhio azzurro, di grande importanza anche senza gli occhiali, guarda con un’eterna curiosità e con una freddezza altrettanto grande. Io non so fare a meno di figurarmi che quell’occhio non sarebbe meno curioso e freddo posandosi su un avversario col quale il Joyce dovesse misurarsi».
L’ammirazione e il consenso di Joyce furono un balsamo miracoloso per la profonda ferita all’amor proprio, sempre viva e bruciante. Appena allora cessò di riguardare i suoi romanzi come degli errori giovanili. Prono sotto il verdetto negativo, il suo talento era rimasto sepolto nella «tristezza del silenzio», come soleva dire.
Ed ecco che l’amico risvegliava in lui, e questa volta per sempre, lo scrittore.
La guerra mondiale doveva staccarli. Joyce si rifugiò a Zurigo, trasferendosi poi a Parigi. Non tornò più a Trieste, ma doveva ricomparire nella vita di Svevo e assumervi un ruolo importantissimo.

* * * * *

[pp. 101-109] Ma ecco nel 1925 inatteso, improvviso, un sole di gloria sorgere e illuminare la sua vita. Aveva ormai sessantatré anni. Ricordo quel giorno di gennaio. Eravamo seduti intorno alla grande tavola che riuniva per la colazione assieme a noi anche la famiglia di Letizia con i tre bambini. Egli aprì distrattamente una lettera giunta da Parigi. Cominciò a leggerla ad alta voce e già all’intestazione restò senza fiato. Cominciava così: «Egregio signore e Maestro». Era la lettera di lode e di compiacimento di Valery Larbaud.
Non ricordo d’averlo visto mai tanto raggiante. Doveva questa grande soddisfazione a James Joyce. Lo scrittore irlandese era riapparso come un astro benefico nella sua vita. Dopo la tormenta della guerra si erano incontrati nel 1919 a Parigi e ogni volta che Ettore vi era di passaggio capitava allo Square Robiac dove veniva sempre accolto come un vecchio amico. Joyce aveva sempre una viva nostalgia di Trieste e volentieri sarebbe tornato a viverci. Nel 1921 Ettore gli portò gli appunti dell’ultimo episodio di «Ulisse», che l’autore aveva lasciato in custodia a Trieste. Consistevano in un mucchio disordinato di carte che riempiva un’intera valigia. Ecco la curiosa e originale lettera con la quale Joyce aveva richiesto a Ettore lo speciale favore:

«5 gennaio 1921
Boulevard Raspail 5 - Parigi VII
Caro signor Schmitz, l’episodio di Circe fu finito tempo fa ma quattro dattilografe rifiutarono di copiarlo. Finalmente si presentò una quinta la quale, però, lavora molto lentamente, sicché il lavoro non sarà pronto prima della fine di questo mese. Mi si dice conterrà cento settanta pagine forma commerciale. L’episodio di Enneo [sic!] il quale è quasi finito, sarà pronto anche verso la fine del mese. Secondo un piano stabilito dal mio avvocato a New York «Ulisse» uscirà colà verso il 15 giugno p. v. in un’edizione privata e limitata a 1500 esemplari dei quali 750 per l’Europa. Il prezzo sarà di sterline 12,50 risp. 6 sterline l’esemplare. Percepisco 1000 sterline come tacitazione. Contemporaneamente però si preparano articoli ed articoletti per sfondare la cittadella non so con quale risultato e poco m’importa.
Ora l’importante: non posso muovermi da qui (come credevo di poter fare) prima di maggio. Infatti da mesi e mesi non vado a letto prima delle due o le tre del mattino, lavorando senza tregua. Avrò presto esaurito gli appunti che portai qui con me per scriver questi due episodi. C’è a Trieste, nel quartiere di mio cognato, l’immobile segnato col numero politico e tavolare di via Sanità 2, e precisamente situato al terzo piano del suddetto immobile nella camera da letto attualmente occupata da mio fratello, a ridosso dell’immobile in parola e prospettante i postriboli di pubblica insicurezza, una mappa di tela cerata legata con un nastro elastico di colore addome di suora di carità, avente le dimensioni approssimative d’un 95 cm. per cm. 70. In codesta mappa riposi i segni simbolici dei languidi lampi che talvolta balenarono nell’alma mia.
Il peso lordo senza tara è stimato a kg. 4,78. Avendo bisogno urgente di questi appunti per l’ultima azione del mio lavoro letterario intitolato «Ulisse» ossia «Sua mare grega»,[4] rivolgo codesta istanza a lei, colendissimo collega, pregandola di farmi sapere se qualcuno della sua famiglia si propone di recarsi prossimamente a Parigi, nel quale caso sarei gratissimo se la persona di cui sopra volesse avere la squisitezza di portarmi la mappa indicata a tergo.
Dunque, caro signor Schmitz, se ghe xe qualchedun de sua famiglia che viaggia per ste parti la mi faria un regalo portando quel fagotto che non xe pesante gnanca per sogno parchè, la mi capissi, xe pien de carte che mi go scritto pulito cola pena e qualche volta anca col bleistiff quando no iera pena. Ma ocjo a no sbregar el lastico, parche allora nasserà confusion fra le carte. El meio saria de cior na valigia che se poi serar cola ciave che nissun poi verzer. Ne ghe xe tante di ste trappole da vender da Greinitz Neffen rente del Piccolo che paga mio fradel el professor della Berlitz Cul. Ogni modo la mi scriva un per de parole dai, come la magnemo. Revoltella me ga scrito disendo che xe muli de saminar per zinque fliche ognidun e dopo i xe dolori de revoltella e che mi vegno là per dar lori l’aufgabe par inglese a zinque fliche, ma non go risposto parche iera una monada e po la marca mi vegnaria costar cola carta tre fliche come che xe ogi coi bori e mi avanzaria do fliche per cior el treno e magnar e bever tre giorni, cossa la voi che sia.[5]
Saluti cordiali e scusi se il mio cervelletto esaurito si diverte un pochino ogni tanto. Mi scriva presto, prego.
James Joyce»


Da questa lettera si può desumere la cordialità che esisteva fra i due scrittori, da cui derivava l’intima comprensione nel momento dello sconforto. Spinto dall’idea amara dell’ostilità ch’egli credeva sorta intorno a «Zeno» e da un sentimento di ribellione, Ettore s’era appellato all’amico già glorioso, lamentandosi dell’insuccesso e inviandogli il volume. Non nutriva troppa fiducia d’essere ascoltato. Il suo temperamento pessimistico gli inibiva la speranza. In quegli anni, poi, dopo il primo cordiale incontro, le relazioni fra i due s’erano limitate a brevi visite durante i nostri passaggi per Parigi e allo scambio di affettuosi biglietti di augurio a Capodanno, ma Joyce nella sua trionfale ascesa aveva accolto il grido amaro del confratello e così aveva risposto:

«30 gennaio 1924
Caro amico, sono andato alla stazione ma nessun treno era in arrivo (nemmeno ritardato) all’ora indicatami; ne ero dispiacente. Quando ripasserà per Parigi? Non potrebbe pernottare qui?
Grazie del romanzo con la dedica. Ne ho due esemplari avendone già ordinato uno da Trieste. Sto leggendolo con molto piacere. Perché si dispera? Deve sapere che è di gran lunga il suo migliore libro. Quanto alla critica italiana non so. Ma faccia mandare degli esemplari di stampa a
M. Valery Larbaud, M. Benjamin Crémieux, Mr. T. S. Eliot, Mr. F. M. Ford.
Parlerò e scriverò in proposito con questi letterati. Potrò scrivere di più quando avrò finito. Per ora due cose m’interessano. Il tema: non avrei mai pensato che il fumo potesse dominare una persona in quel modo; secondo il trattamento del tempo nel romanzo. L’arguzia non vi manca e vedo che l’ultimo capoverso di «Senilità»; «Sì, Angiolina pensa e piange, ecc...» ha sbocciato grandemente alla chetichella.
Tanti saluti alla Signora, se si trova costì. Spero avremo il piacere di vedere loro fra breve.
Una stretta di mano
James Joyce
P.S. Mandi anche a Gil Berseldy, The Dial, Nuova York».


Seguendo il consiglio, Ettore s’era affrettato a spedire il volume a Larbaud e a Crémieux. L’esito ne era stato la lettera di plauso inaspettata:

«li 11 gennaio 1925
Egregio Signore e Maestro,
Dacché ho ricevuto e letto la Coscienza di Zeno ho fatto tutto quello che ho potuto per far conoscere in Francia questo libro ammirevole. Propaganda solamente orale, ma efficace, come Lei vedrà.
Nell’estate scorsa si fondò la rivista «Commerce», trimestrale, diretta dal più grande dei nostri poeti, Paul Valéry, da Leon Paul Fargues, conosciuto dalla élite come uno dei migliori scrittori di vanguardia, e da me; e subito questa rivista si pose al primo rango delle riviste francesi di letteratura pura. L’idea di questa pubblicazione venne dalla principessa di Bassiano, moglie del principe Roffredo Caetani, di Roma, la quale ci fornisce i fondi e ci dà anche consigli efficaci.
Prima della fondazione della rivista avevo fatto leggere alla principessa La coscienza di Zeno, e adesso che siamo in preparazione dei numeri IV e V, lei desidera che pubblichiamo alcuni brani: da 10 a 15 pagine del Suo libro. La questione della traduzione non ha difficoltà: fra i nostri migliori scrittori di vanguardia contiamo tre o quattro ottimi traduttori d’italiano, disposti a tradurre le pagine che sceglieremo. L’unica cosa che ci manca, dunque, è l’autorizzazione di Lei e dell’editore Cappelli.
Per parte mia vorrei dare in «Commerce» un breve studio sopra la di Lei opera, studio che darei, più tardi, e più completo, nella «Nouvelle Revue Française» o nella «Revue Européenne». Ma non conosco i Suoi altri libri, che ho cercati l’estate scorsa in Bologna e in Firenze senza incontrarli, e Le sarei gratissimo se Lei avesse la bontà d’inviarmeli.
Il nostro amico James Joyce, come Lei avrà saputo, ha dovuto subire un’altra operazione agli occhi, e adesso sta bene e lavora.
La prego scusare tante domande e credermi, egregio Signore e Maestro,
il Suo devoto ammiratore,
Valery Larbaud».


Trepidante, gli spedì subito «Senilità» e «Una vita». Dopo aver letto le due opere lo scrittore francese gli scriveva:

«20 febbraio 1925
Egregio Signore e Maestro,
Scrivo sotto la dettatura del Signor Valerio Larbaud. Ricevo la Sua lettera del 16. Mi scusi se non ho risposto subito alla Sua prima. Sono stato occupatissimo. La ringrazio por i due libri.
Per quel che Le avevo scritto stiamo organizzando la campagna in Suo favore. Forse cominceremo con un articolo, di uno di noi, sopra un giornale italiano questa estate.
Poi per il quinto numero di «Commerce» che uscirà nel mese di ottobre prossimo prepareremo una selezione di pagine tradotte in francese. Di «Senilità» prenderemo le pagine 162-172 che ho lette a parecchi amici e che furono ricevute con applausi e qualcheduno pronunciò il nome di Marcel Proust.
Della «Coscienza di Zeno» prenderemo le pagine 16-36 e 477-496. Di «Una vita» che un mio amico sta leggendo adesso, non so ancora se daremo un campione. Forse faremo dei cambiamenti in questa scelta, e forse anche daremo titoli (ma fra parentesi) alle pagine scelte. Il titolo «Senilità» ci sembra poco adatto al romanzo, e se si dovesse tradurre al francese per intero, credo che sarebbe meglio prendere come titolo «Emilio Brentani». Siamo impazienti di cominciare la campagna, ma abbiamo tanto da fare ognuno che le cose non possono andare con la rapidità che vorremmo, pure già c’è un rumore del nome di Lei fra i migliori scrittori giovani di qui. Il resto verrà a poco a poco.
Mi creda, egregio Signore e Maestro, Suo devotissimo ammiratore
Valery Larbaud»


[…] Intanto nella primavera del 1925, approfittando di uno dei nostri soliti viaggi d’affari a Londra, facemmo una sosta a Parigi per conoscere di persona i due illustri letterati francesi che s’erano così vivamente interessati al caso Svevo. Joyce combinò una cena in un ristorante vicino alla Gare Montparnasse. Era presente anche un giovane scrittore francese, Nino Frank. Mio marito, in genere molto socievole e con tutti di un’affabile dolcezza, s’intonò subito perfettamente ai nuovi amici, i quali gli dimostrarono un’ammirazione che ci stupiva. Preso come da una leggera ebbrezza, quella sera parlò moltissimo. Egli amava farsi ascoltare, tanto più se gli interlocutori erano suoi pari.
La sera seguente fummo invitati in uno dei salotti letterari più aristocratici, quello della principessa Bassiano Caetani, la sostenitrice di «Commerce», nella sua villa di Versailles, la «Villa Romana». Erano pure intervenuti Larbaud e Crémieux. Nella lunga e brillante conversazione mio marito accennò ad una novella a cui stava lavorando. Doveva trattarsi di quella poi intitolata «Corto viaggio sentimentale». Durante quello straordinario e felice soggiorno conoscemmo anche la moglie di Crémieux. Era una donna di squisita e profonda intelligenza. Còrsa d’origine aveva studiato a Firenze e parlava l’italiano con accento ed espressione perfetti. Ci si vedeva ogni giorno o nel suo salotto o a colazione qua e là. Si stabilì fra lei ed Ettore una viva corrente di simpatia che si tramutò ben presto in amicizia, e si allacciò fra loro una corrispondenza che fu troncata solo dalla scomparsa di lui. A lei egli confidava anche i sentimenti che amava celare agli altri e, dubitoso sempre, attingeva a quell’amabile fonte conforto e forza.

* * * * *

[pp. 121-122] Ma ecco apparire la traduzione francese di Zeno fatta da Paul Henri Michel a compensarlo delle nuove delusioni. Era stato Crémieux a proporre a mio marito questo giovane letterato, che si dedicava con tanta passione alla traduzione di opere italiane. […] Il libro apparve in Francia pubblicato dalla Librairie Gallimard. Per la traduzione tedesca Joyce aveva consigliato a mio marito di rivolgersi al Rheinverlag che stampava tutte le sue opere. Il traduttore fu un giovane fiumano, Piero Rismondo, occupato a Vienna nella redazione della «Wiener Allgemeine Zeitung». Egli si era presentato in casa nostra come ammiratore e come traduttore. Dall’editore tedesco venne a Ettore il primo compenso tangibile per la sua fatica letteraria. Egli che amava tanto far doni si affrettò ad offrirmi l’assegno in marchi accompagnandolo con un affettuoso biglietto.

* * * * *

[pp. 125-127] Anche il sentirsi chiamare il «Proust italiano» lo stupiva. Egli non aveva conosciuto le opere di questo scrittore che nel 1926. Era stata la signora Crémieux a chiedergli alla nostra prima visita a Parigi: «Connaissez-vous Proust? No? Eppure voi gli somigliate». Subito s’era informato sui libri dello scrittore francese, li aveva acquistati tutti in blocco e s’era accinto a leggerli con grande interesse. Lasciò un giudizio su Proust in un inedito: un abbozzo di parallelo fra questi e Joyce:

« ...Io non sono un critico e rivedendo questi appunti dubito di aver saputo darvi una chiara idea di questo romanzo. E ancora un tentativo faccio per chiarirlo. Mi pare importante stabilire la sua nessuna analogia con l’opera del Proust. Da noi si sente sempre citare il Joyce accanto al Proust. Vorrei separarli definitivamente. È un compito abbastanza facile. Nella vita s’incontrarono una sola volta. Una notte il Proust, già tanto sofferente, si risolse ad uscire da quella sua casa dalle finestre ingessate dei Champs-Elysées, probabilmente costrettovi dal bisogno di una inchiesta per poter finire qualche sua frase o qualche suo inciso su qualche avvenimento reale. Fece la conoscenza del Joyce e, distratto dal proprio bisogno, subito gli domandò: «Conosce lei la principessa X?». «No», rispose il Joyce, «né me ne importa affatto». Si separarono e non si rividero mai più.
Io penso che se i due grandi scrittori s’imbattessero ciascuno sul loro terreno, su quello della loro arte, ed uno di essi andasse gridando per farsi sentire, essendo tanto lontano l’uno dall’altro: «Fratello, conosci questo?». L’altro risponderebbe: «No; e non me ne importa niente affatto».
Il Proust è l’artista della grande prosa narrativa. La sua frase crea a forza di completezza; si evolve nei suoi incisi di cui ognuno è un scoperta, una sorpresa. Non gli basta mai e narra, narra spinto dal bisogno nostalgico dì ricercare il tempo che non è più. Sulla sua tela s’aggiunge tratto a tratto, colore a colore per aderire alla realtà. L’intonazione perfetta del quadro risulta dalla perfetta visione della realtà. Pare che il suo racconto manchi di piano. Che bisogno ce ne sarebbe visto che i fatti avvenuti non possono mancare di ordine?
E quella sua realtà quando diviene satira si fa tale quasi senza suo intervento. La realtà può talvolta farsi sentire con la sola precisione.
Ma il Joyce è tutto l’opposto. Egli è l’artista che ha preparato tutto il piano d’avventura da cui sorsero i personaggi. Trasse dalla realtà quelli che prediligeva e ne fece una cosa tanto intera da sostituire tutta la realtà. Non mi figuro neppure che sappia lavorare su una tela. Deve aver plasmato le sue figure prima di dipingerle e riempie il suo laboratorio di creature dalle tre dimensioni tanto vive che si crede si muovano e parlino senza l’aiuto di nessuno. L’autore rigido fa dimenticare ch’egli potrebbe soccorrerle. Lo si vede immoto perché cela la propria fatica.
Nel Proust la realtà si fa una scienza. Ognuno dei suoi personaggi è studiato nelle sue origini e nei suoi organi.
Non vi è traccia di tale studio nel Joyce. Altri (il lettore) può farlo, visto che la creatura intera gli è stata consegnata. Qui ho tentato di sezionarlo io e Dio solo sa quello che ne ho fatto. Ma non è da tale analisi (dunque neppure dalla mia) che ne derivi la gioia che da l’opera di Joyce. Quella nebbia che è soffusa sul libro suo diventa così tanti suoi scopi non detti, e dallo stesso suo destino intellettuale insolito lentamente si dirada e il lettore scopre di aver collaborato con l’aiuto di una guida incomparabile alla creazione di un mondo intero conosciuto benché misterioso come quello da cui fu copiato. Da ciò il grido di sorpresa e di ammirazione di tanti eccelsi critici. Io intendo benissimo quello che vuoi dire il grande poeta e critico T. E. Eliot quando dichiara che chi imiterà...».

* * * * *

[pp. 129-130] Dopo la comparsa della traduzione francese, qualche cosa si mosse anche in Italia. La critica italiana aveva polemizzato con quella francese, quasi rammaricandosi dell’aureola di gloria donata da questa a uno scrittore italiano. Allora l’editore Morreale fece delle proposte concrete e nel 1927 comparve la seconda edizione di «Senilità» che Ettore aveva completamente riveduto dal lato linguistico. Nella prefazione egli testimoniava pubblicamente la sua gratitudine a James Joyce che aveva saputo «rinnovare il miracolo di Lazzaro: …che uno scrittore sul quale incombe imperiosa l’opera propria abbia saputo più volte sprecare il suo tempo prezioso per favorire dei fratelli meno fortunati, è tale generosità che, secondo me, spiega l’inaudito successo ch’egli ebbe, poiché ogni altra sua parola, tutte quelle che compongono la sua vasta opera, furono espresse dallo stesso grandissimo animo». Ma a Joyce volle fare un dono, una cosa molto preziosa per lui e molto cara al suo cuore: il ritratto che il Veruda mi aveva fatto in età giovanile.

* * * * *

[pp. 141-142] Il «Convegno» gli aprì subito le porte. Nei nostri frequenti viaggi a Milano (viaggiavamo ora sempre insieme) frequentammo quelle belle sale, come pure il salotto ospitale della signora Ferrieri. Lì egli conobbe tutta l’élite intellettuale milanese. Al «Convegno» tenne la sua prima ed ultima conferenza. La sera del 26 marzo 1927 parlò su Joyce e si soffermò specialmente sull’«Ulisse». Sebbene non abituato al pubblico, quella sera era molto tranquillo. Lesse le numerose cartelle pacatamente con la sua voce limpida e calma, che anche nell’uso della lingua italiana conservava l’accento triestino. Ma un superbo festeggiamento pubblico lo ebbe a Parigi durante una riunione del Pen Club, alla quale parteciparono cinquantaquattro letterati. Benjamin Crémieux era l’organizzatore di tali cene letterarie in onore degli eminenti scrittori europei di passaggio per Parigi. Si dette una cena in onore di Italo Svevo per festeggiare l’uscita in veste francese della «Coscienza di Zeno». Assieme a lui si festeggiavano il russo Isaak Babel, l’autore de «L’Armata a cavallo», e il poeta rumeno Pilliat.
La tavola bianca a ferro di cavallo correva lungo le pareti. Ettore era seduto al centro accanto a Crémieux e a Jules Romains. Quest’ultimo presentò i festeggiati e ne fece l’elogio.
Io ero seduta accanto a Joyce che dopo la cena confidò a Comisso, l’unico scrittore italiano presente al banchetto: «Dicono che io abbia immortalato Svevo, ma io ho immortalato anche le chiome della signora Svevo. Erano chiome lunghe e bionde. Mia sorella che le vedeva sciolte me ne parlava. Vicino a Dublino vi è un fiume che attraversa la tintoria e le sue acque sono rossastre come quel tavolo; allora mi è piaciuto di parlare di queste due cose che si somigliano nel libro che sto scrivendo. Una signora avrà queste chiome, che sono le chiome della signora Svevo». Alludeva al volumetto «Anna Livia Plurabella» per cui aveva preso pure il mio nome scrivendo poi scherzosamente a mio marito: «A proposito di nomi ho dato il nome della Signora alla protagonista del libro che sto scrivendo. La prego però di non impugnare né armi bianche né quelle da fuoco giacché si tratta della Pirra irlandese (o piuttosto dublinese) la cui capigliatura è il fiume sul quale (si chiama Anna Liffey) sorge la settima città del cristianesimo. Rassicuri la sua signora in quanto riguarda la figura di Anna Livia. Di lei non tolsi che la capigliatura e quella soltanto a prestito per addobbare il rigagnolino della mia città, l’Anna Liffey, che sarebbe il più lungo fiume del mondo se non ci fosse il canale che vien da lontano per sposare il gran divo Antonio Taumaturgo e poi, cambiato parere, se ne torna com’è venuto».
Accanto a Joyce era seduta la moglie, felice di parlare di nuovo con me il dialetto triestino, e poi Ivan Goll, Paulhan, Mac Orlan, Ilja Ehrenburg, Martin Maurice e tanti altri. Ettore si dolse di non poter contraccambiare le cortesie di Romains parlandogli dei suoi libri che non conosceva ancora. Si affrettò a comperarli il giorno seguente e li lesse subito al suo ritorno a Trieste.

* * * * *

Profilo autobiografico
(1928)

[pp. 224-225] … Ma Zeno si crede un malato eccezionale di una malattia a percorso lungo. E il romanzo è la storia della sua vita e delle sue cure.
Questo romanzo fu pubblicato nel 1922, (se ne sta preparando la ristampa). Meno che a Trieste trovò una incomprensione assoluta ed un silenzio glaciale. A Trieste si occuparono di esso il Benco e il D’Orazio. Il prof. Ferdinando Pasini, in un giornale di Trento, gli dedicò subito tanta ammirazione come il romanzo non ne trovò che dopo il successo. Questo dev’essere qui detto ad onore del Pasini e della critica italiana in genere.
Lo Svevo diceva che ad onta della sua lunga esperienza tale insuccesso lo stupì e lo addolorò tanto profondamente da danneggiare la sua salute. Aveva 62 anni e scopriva che se la letteratura era nociva sempre, a quell’età era addirittura pericolosa. Scrisse ad Ettore Janni del Corriere della Sera pregandolo di leggere il libro che, seppure difettoso, doveva contenere qualche cosa che ad un critico come lui poteva rivelarsi importante. Il Janni non risposte. Nel 1924 un comune amico raccomandò lo Svevo a Giulio Caprin da cui gentilmente fu ricevuto a Milano. Il Caprin però allora dichiarò al vecchio signore che il Corriere della Sera non disponeva di abbastanza spazio per occuparsi del suo libro. Tuttavia più tardi il Caprin gli dedicò due righe fra i «Libri ricevuti» per notare che il romanzo era abbastanza interessante, ma scucito. Non era più il silenzio, ma la vera ostilità. Fu un atto di ribellione dello Svevo quello di appellarsi al Joyce. Con poca speranza. Nei lunghi anni i due vecchi amici avevano conservato una reciproca benevolenza che però non si manifestava che nello scambio di biglietti d’augurio a capo d’anno. Lo Svevo seguiva con simpatia l’inaudito successo del Joyce, ma chissà se l’artista tanto differente da lui avrebbe trovato nel proprio cuore un po’ di simpatia per il confratello meno fortunato?...
Il resto del caso Svevo è stato raccontato ad esuberanza nella prefazione alla seconda e recente edizione di Senilità.



[1] James Joyce (1882-1941). Era giovanissimo quando incontrò Italo Svevo già maturo. Visse a Trieste dal 1904 al 1914. Tutta la sua opera, eccetto le liriche e «Work in Progress», è nata in questa città. Vi abbozzò anche la trama e scrisse i primi capitoli dell’Ulisse. Sui rapporti intercorsi fra J. Joyce e I. Svevo, uno dei saggi più recenti è quello di Richard Ellmann sulla Kenyon Review (Summer 1954): «The backgrounds of Ulysses» in cui protagonista è Leopold Bloom è fatto risalire al modello reale di Italo Svevo.
[2] Stanislaus Joyce, fratello dello scrittore, in una sua conferenza all’Università di Trieste nel maggio 1955, affermò che Svevo aveva avuto qualche parte nella formazione dell’Ulisse: raccontò come il fratello James, per descrivere Bloom, interrogasse quotidianamente Svevo per essere in chiaro sui più minuti particolari caratteristici della razza ebraica, tanto che anni dopo, con Stanislaus, Svevo sbottò: «Mi dica qualcosa dell’Irlanda, qualcosa di intimo, qualcosa che non è conosciuta generalmente. Sa, suo fratello, mi ha fatto tante domande sugli Ebrei che desidero essere alla pari con lui».
[3] James Joyce in «Saggi e pagine sparse» op. cit. nota 22. Tradotta da Stanislaus Joyce, la conferenza di Italo Svevo apparve in inglese nel 1950, stampata dalle Officine Grafiche Esperia, Milano, e distribuita dalla New Direction, New York. «Un solo giornale di Milano parlò di tale lettura: Il Secolo», annota lo Svevo nel «Profilo autobiografico». Per l’esattezza ne aveva parlato anche L’Ambrosiano.
[4] Su’ mare grega; mare madre; imprecazione dialettale triestina, gergo plebeo.
[5] Versione letterale del brano dialettale della lettera di Joyce: «Dunque, caro signor Schmitz, se c’è qualcuno della sua famiglia che viaggia da queste parti mi farebbe un regalo portando quel fagotto che non è pesante neanche per sogno perché, mi capisce, è pieno di carte che io ho scritto pulito con la penna e qualchevolta anche con la matita quando non c’era la penna. Ma occhio a non strappare l’elastico, perché allora nascerà confusione fra le carte. Il meglio sarebbe di prendere una valigia che si possa chiudere con la chiave che nessuno possa aprire. Ce ne sono tante di queste trappole da vendere dai Nipoti Greinitz accanto al Piccolo che pagherà mio fratello il professore della Berlitz School. In ogni modo mi scriva un paio di parole dàgli, come la mangiamo! Revoltella (l’Istituto commerciale) mi ha scritto dicendo che ci sono ragazzi da esaminare per cinque soldi ognuno e dopo sono dottori di revoltella e che io venga là per dar loro il compito di inglese a cinque soldi, ma non ho risposto perché era una scempiaggine e poi il francobollo mi verrebbe a costare con la carta tre soldi come è oggi col denaro e mi avanzerebbero due soldi per prendere il treno e mangiare e bere per tre giorni, cosa vuole che sia».


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