Stazione Centrale di Milano. Lasciato il carcere di San Vittore, il 27 aprile 1944 parte dal binario 21 un convoglio carico di prigionieri politici destinati al campo di concentramento di Fossoli, luogo di partenza dei treni diretti ad Auschwitz. Tra gli stipati vi è Leopoldo Gasparotto, avvocato di professione, alpinista per passione, con due spedizioni sulle spalle: una nel Caucaso e l’altra in Antartide. Casualità vuole - ma non tanto - che decenni dopo toccherà a me seguire le sue tracce caucasiche…
Per saperne di più su di lui rinvio a due libri davvero importanti: Leopoldo
Gasparotto. Alpinista e partigiano è il titolo della biografia scritta da Ruggero
Meles e stampata da Hoepli nel 2011. Il secondo, Diario di Fossoli di Leopoldo Gasparotto, a cura di Mimmo
Franzinelli porta il logo di Bollati Boringhieri, 2007. Da questo
estrapolo le pagine iniziali, dove Gasparotto descrive le ultime ore passate in carcere
e il viaggio sul treno, destinazione Fossoli. Ed è qui che il 22 giugno 1944, con un’esecuzione
a freddo, Leopoldo Gasparotto trova la morte.
26 aprile 1944
La giornata si annuncia movimentatissima. Fin dal
mattino scopini, guardie, militi si mostrano affaccendatissimi. Aria ottima,
atmosfera di partenza, ripetute scene di saluto tra i compagni, che ignorano se
si troveranno vicini sul treno. Io saluto tutti perché sono certo di essere tra
i partenti. È di servizio un giovane milite, arruolato in seguito alla
delazione di un compagno di lavoro, dopo essersi sottratto all’arruolamento
nella organizzazione Todt. Ad un certo momento un tizio attraversa il cortile,
ed il milite, riconoscendolo, grida al compagno che sta di sentinella sul muro
di cinta del carcere «massel, che l’è un fascista!» Passo le ultime istruzioni
per coloro che eventualmente rimanessero a S. Vittore.
L’impareggiabile P. mi viene a chiamare; rientro in
cella per un ultimo, commovente colloquio con B., poi, di nuovo all’«aria»,
mentre questa si chiude, e saluto a tutti; calorosa stretta di mano al milite.
Mando a chiamare Cetra, per salutarlo. La sua commozione
è tale che non riesce a parlare. Viviamo in una strana atmosfera. Io con P. e
altri siamo felici, molti sono contenti, altri impressionati; coloro che
restano, invece, e soprattutto le guardie, hanno l’impressione che noi partiamo
per la Siberia. Naturalmente il Barba è il più commosso di tutti e mi invia
cotolette, pane, un sacchetto, una preziosa scatola di sardine e del formaggio:
è addirittura prodigioso. A me piange il cuore all’idea che egli resta, sono in
pena per lui e per Luigi, e questa aumenta quando apprendo che verso le 11 egli
è stato chiamato all’interrogatorio. Ma dopo mezzogiorno Luigi mi comunica che
tutto è andato bene.
Ormai siamo, sia pur per breve ora, al crollo della disciplina
dell’isolamento. «Tonorchi» e «Colombi» svolazzano nel 5° raggio, la mia cella
rimane aperta, M. R. O. si avvicendano presso di me.
Finalmente, alle 14, risuonano i passi dei tedeschi nel
corridoio. «Alles in Zelle!» è il primo ordine, allo scopo di rinchiudere anche
gli scopini; ma poco dopo, ecco il contrordine, e si fa semplicemente il
contrario; tutti, anche gli isolati, nei corridoi, presso i cancelli del «centro
raggi».
Incomincia, dal primo raggio, un appello interminabile,
condotto da Stutz, con una strana, spassosa, energica e gutturale pronuncia.
Ora è la nostra volta: i chiamati passano dall’altro
lato del corridoio; siamo tutti isolati, ma dall’appello, per ordine
alfabetico, pochissimi sono gli esclusi, tutti hanno la sensazione netta che
ben pochi rimangano tra le tetre mura del Cellulare, soltanto coloro le cui
istruttorie sono ancora in gestazione o che hanno serie probabilità di essere
scarcerati.
Ma un grave colpo è inferto al mio ottimismo quando
sento scorrere tutta la lettera «d» senza che venga chiamato Dal Pozzo.
Poco dopo odo il mio nome e mi trasferisco anch’io. Ora
ho quasi in faccia Dal Pozzo. Il suo volto rimane lungo tempo contratto. Il
rimpianto di questa esclusione non lascia dubbi. Io lo guardo lungamente, ma
poi noi veniamo avviati verso il fondo del raggio, rimango separato da lui e
travolto dalla confusione dei compagni ormai liberi di parlare tra di noi, di
riunirsi in gruppi, di ritrovarsi a piacimento. È un piccolo 26 luglio degli
isolati, una deliziosa confusione, nella quale, indebolito, non più abituato
alla conversazione prolungata, poco dopo mi sento smarrito, mentre mi coglie il
mal di testa ed il mal di gola.
In fondo al raggio continuano ad affluire i nuovi
chiamati, ed appare anche Dal Pozzo, chiamato colla lettera «P». Respiro
generale di sollievo; ormai l’atmosfera tra gli ex isolati è di netta allegria.
Finito l’appello, veniamo avviati a gruppi di 15 verso l’ingresso
del carcere; ci vengono restituiti gli oggetti sequestratici addosso, nel
carcere, dopo l’arresto, e qui, ancora una volta si ha la riconferma del
disordine.
A Coletti vengono restituiti 500 franchi svizzeri, a molti,
documenti delicati. A me, al contrario, non vengono restituite le 5000 lire che
avevo nel portafoglio caduto sotto il portone della casa di piazza Castello n.
2 al momento dell’arresto.
Al ritorno al 5° raggio abortisce un tentativo di rinchiuderci
nei cameroni al 3° piano. Si formano crocchi sui ballatoi, sulle scale, nei
«cameroni». È impossibile, anche ai tedeschi, di stabilire un ordine. Intanto
giunge la sera, suonano le otto ma non si parla neppure di partire. Viene posto
un milite a guardia al finestrone, e questi ci reca la notizia che «fuori» ci
sono assembramenti causati dalla notizia della nostra partenza. Da mezzogiorno
la truppa blocca la strada attorno al carcere
È una strana impressione quella di conoscere delle persone
e parlare di politica, senza che nessun milite intervenga a troncare il
colloquio. È piacevole conoscere …
È ormai tutto buio; evidentemente i tedeschi attendono
il coprifuoco per celare la nostra partenza. Infatti, soltanto dopo le dieci
veniamo avviati a gruppi, incolonnati per due, verso l’uscita.
Il nostro gruppo, costituito per ordine alfabetico, si
sta avviando, quando un compagno viene colto da una crisi di epilessia e viene
ricoverato all’ambulatorio.
Mentre sostiamo per un ultimo appello, presso il cancello
del «centro raggi» si avvicina ancora Cerra, ci saluta collo sguardo, ma non
riesce a proferire verbo; si allontana senza, ormai, neppur nascondere le
lagrime. Coraggio, Cerra, ci rivedremo, e presto!
Anche il milite … ci saluta con commozione, poi ci
mettiamo in marcia verso l’uscita, e ci arrestiamo dietro il penultimo
cancello, in attesa che il gruppo che ci precede salga sui camion.
L’apparato di forza è notevole. Parabellum e fucili
mitragliatori ovunque.
Ora Stutz cerca qualcuno nella colonna; la percorre due
volte, poi si ferma vicino a me, e «Anche questo passerà - mi dice - tanti
auguri». «Grazie, arrivederci, in pace» rispondo io, sorpreso perché mai ho
avuto contatto con Stutz, e neppure supponevo mi conoscesse. Egli trova ancora
un attimo per replicare «Grazie, ho memoria». Poi si allontana, senza essere
stato visto dai suoi compagni.
- Sì, Stutz, ci ricorderemo, ma ricorderemo anche e gli
altri …, un altro …
Il tuo saluto ha prodotto su tutti gli astanti l’effetto
che tu desideravi. Arrivederci in pace, quando la nostra e la tua patria
saranno libere.
Poi, avanti. Il cancello si spalanca, eccoci nell’atrio
di S. Vittore. Militi, SS, gendarmi armati fino ai denti (persino i marescialli
si degnano di portare un mitragliatore ciascuno in spalla) ci fanno ala.
La parte posteriore di un grosso e sgangherato camion è stata
infilata nella porta e noi vi saliamo, mentre i tedeschi, nervosi, irritati,
urlano «Loss loss! Fondo fondo!» e spingono 45 persone ad entrare in una gabbia
che ne potrà ricevere, normalmente, 20, finché uno dei marescialli entra egli
stesso nel camion e a calci e urtoni spinge i primi entrati a stiparsi in modo
inverosimile, bestiale, nel buio assoluto del fondo.
Compressi in posizioni inverosimili, aggrappati come si
può, sostiamo un tempo che ci pare eterno, nel buio, nel caldo soffocante; poi,
come Dio vuole, con grande fracasso, la colonna di camion si avvia e una mezz’ora
dopo, colle ossa rotte, sbarchiamo nei sotterranei della stazione centrale,
dove colla solita gentilezza veniamo introdotti e subito rinchiusi - sempre in
45 - in un vagone merci dove, anche se non fossimo al buio, non è possibile trovare
né un fiasco d’acqua né un bugliolo o alcunché di simile. Ci accoccoliamo, si
può ben dire, gli uni sugli altri e, nel calore soffocante, e nel tanfo,
attendiamo.
Le ore non passano mai, in compenso passa un ferroviere
e audacemente apre tre finestrini, protetti da grate, sulle testate del vagone.
Dopo complicate manovre, spostandosi sui binari lateralmente, anche il nostro
vagone raggiunge il grande ascensore, e viene issato alla stazione centrale,
dove i tedeschi si accorgono dell’apertura dei finestrini e li richiudono.
Siamo desolati, il senso di soffocazione aumenta. Ma una mezz’ora dopo troviamo
il modo di riaprirne uno. Finalmente, alle 5 del mattino il treno si muove,
e... riusciamo ad aprire un secondo finestrino.
Dire delle «gioie del viaggio»? È un po’ difficile. Siamo
come i pesci che friggono: non troviamo mai la posizione giusta. Anche alzarsi
in piedi è un’impresa notevole. Malagodi e Martello litigano tra di loro per
una questione di piedi collocati in faccia; qualcuno riesce a dormire. Manzi,
conosciuto in montagna e ritrovato qui, mi comunica che l’avv. May, a Bergamo,
è stato condannato a morte. Martinelli mi fa bere del caffè e latte, ho perduto
il soprabito, l’aria si è rinfrescata, ho un caldo terribile, mi fa male la
gola, non mi abituo a tanto movimento. Così passa la notte, poi un chiarore
tenue froda i tedeschi e si insinua nel vagone.
Passano infinite stazioni; è giorno. Passa Parma, effetti
disastrosi dei bombardamenti. Passa Reggio: «Qui erano le Officine Reggiane»,
si potrebbe dire. Siamo a Modena, Carpi. Siamo fermi su un binario morto, nel
caldo e nel puzzo, perché abbiamo tutti un corpo, e qualcuno ha dovuto
ingegnarsi senza un bugliolo.
L’allenamento della cella ci dà la forza di attendere;
viene il momento in cui si apre il vagone. Abbacinati dalla luce ci proiettiamo
sul marciapiede, raggiungiamo un bell’autobus nel quale ci stipiamo, ma in modo
sopportabile. Notiamo l’assenza di fucili mitragliatori; tedeschi anziani, dall’aspetto
più trattabile di quelli fin qui incontrati.
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