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mercoledì 1 luglio 2020

MANI. Viaggi nel Peloponneso (Porto Kagio e il Tenaro o Capo Matapan)


Porto Kagio è una baia molto bella ma un po’ triste, una profonda insenatura scavata nella pendice orientale della penisola, in corrispondenza di Marmari sulla sponda opposta, e la ripida sella tra i due forma l’istmo che collega Capo Matapan al Mani. Sulle alte rupi tra qui e il Capo sorgeva una volta il tempio di Poseidone, sul sito di un tempio di Apollo di età micenea. Era il santuario centrale degli spartani, asilo inviolabile di chi vi si rifugiava e sede di un oracolo. Era anche un grande luogo d’incontro dei notabili delle città laconiche, e uno dei vari templi di Grecia dove le anime dei morti potevano essere evocate dai loro uccisori e placate con sacrifici. Lapidi di marmo trovate fra le rovine dimostrano che i sacrifici umani non erano ignoti. Pausania - non lo storico e geografo ma il vincitore di Platea - fu rinchiuso e fatto morire di fame in questo tempio quando gli spartani scoprirono le sue intese segrete con Serse.
Nelle vicinanze, al margine del golfo, sorge una scogliera dalla quale Petrobey ordinò fosse gettato un prete delinquente. Legato mani e piedi, questi fu lasciato perire sulle rocce dove si era schiantato. Entrambi i fatti hanno lasciato una maledizione sulle rispettive località.
Come abbiamo visto, il tempio fu probabilmente distrutto dai pirati della Cilicia. Poco ne resta, e molti frammenti di lapidi commemorative di qui e del Kiparissos sono sparse nei villaggi vicini. Sul ripido fianco settentrionale si stendono i ruderi di una gigantesca fortezza turca, costruita al culmine negativo delle fortune maniote, contemporaneamente a quella di Kelefa. Il luogo fu teatro di dure battaglie vittoriose dei manioti contro i turchi durante il regno di Zanetbey: azioni comandate dal grande Lambros Katsonis e dal padre di quell’Odisseo Androutzos che più tardi condivise una grotta vicino a Delfi con Trelawny, mentre a Missolungi, sulla costa, Byron giaceva in agonia.
Il nome Porto Kagio deriva o dal veneziano Porto Quaglio o dal francese Port aux Cailles, perché le rupi circostanti sono l’ultimo luogo dove le quaglie, migranti a sud a migliaia, sostano prima di spiccare il volo per Creta e l’Africa.









Sulla mappa la parte meridionale del Peloponneso sembra un dente deforme appena strappato dalla gengiva, con tre penisole protese a sud come scheggiate e cariate radici. Il rebbio centrale è formato dalla catena del Taigeto, che, dalle colline pedemontane a nord nel cuore della Morea alla punta di Capo Matapan battuta dalle tempeste a sud, si allunga per un centinaio di miglia. Per circa metà della sua lunghezza - settantacinque miglia sul lato occidentale e quarantacinque sull’orientale, per una larghezza di cinquanta miglia - il Taigeto si spinge affusolandosi in mare. Questo è il Mani. Dato che la catena supera i 2400 metri nella parte centrale, calando a nord e a sud di balza in balza, queste distanze a volo d’uccello si possono tranquillamente raddoppiare e triplicare, e a volte, calcolando via terra, decuplicare. Come il Taigeto dell’entroterra divide la pianura messenica dalla laconica, il suo proseguimento, il Mani immerso nel mare, divide l’Egeo dallo Ionio, e il suo capo selvaggio, il Tenaro, l’ingresso nell’Ade degli antichi, è il punto più meridionale della Grecia continentale. Nulla se non il vuoto Mediterraneo, che s’inabissa a profondità enormi, giace tra questo sperone di roccia e le sabbie africane, e da questo punto l’immensa muraglia del Taigeto, le cui cime più alte sbarrano i confini settentrionali del Mani, innalza un nudo e arido inferno di roccia.





I resti del tempio di Poseidone







Pozzo romano


Pavimento di abitazione


Il Tenaro o Capo Matapan








«Eccola» disse. «L’entrata dell’Ade».
Temeva di arrestare il motore, dichiarò, perché riavviarlo era un’impresa, ma avrebbe girato in cerchio finché fossi tornato. Così mi tuffai e mi diressi alla grotta che sbadigliava come la sbilenca mascella superiore di una balena (quella inferiore è sott’acqua) per una diecina di metri sopra il mare. Mentre entravo a nuoto ne uscì uno stormo di rondini, e vidi i loro piccoli nidi attaccati alle pareti della grotta e ai fianchi delle stalattiti. La grotta diventava molto più buia penetrando nella montagna, e un paio di pipistrelli che probabilmente stavano appesi al soffitto svolazzarono squittendo verso la luce. Il soffitto si abbassava, e nuotando lungo le pareti viscide trovai una diramazione a destra e la seguii per un breve tratto; ma cessava quasi subito. Girai tutt’intorno e nuotai sott’acqua per vedere se ci fosse un ingresso sommerso a un’altra grotta marina; ma non c’era niente. Adesso avevo il soffitto a meno di mezzo metro sopra la testa, e potevo toccarlo con la mano. L’aria era buia ma sotto la superficie l’acqua brillava di un magico azzurro luminoso, e con una sola botta della mano o del piede si suscitavano sciami di bolle fosforescenti. Stranamente, il luogo non era affatto sinistro, ma, a parte la freddezza dell’acqua mai raggiunta dal sole, silenzioso, calmo e bellissimo. La luce sottomarina proveniente dalla lontana imboccatura della grotta fa sì che all’intruso, quando si immerge infiorato di fosforo nelle gelide profondità, sembra di nuotare nel cuore di un colossale zaffiro.
Non avevo immaginato che tutto il pavimento della grotta stesse sott’acqua. Nessuna leggenda ne parla, sebbene non vi sia ombra di dubbio che questa è la grotta usata per quelle famose discese agli Inferi. Quando Afrodite, adirata, mandò qui la povera Psiche perché le riportasse il misterioso scrigno della bellezza, la fanciulla fu così consigliata da una torre benevola (divenuta capace di parola alla vista di lei che stava per gettarsi dalla sua sommità): «Non lontano da qui sorge la famosa città greca di Lacedemone. Va’ subito là e chiedi che ti indichino la via per il Tenaro. È un luogo fuori mano non facile a trovarsi, situato in una penisola a sud. Quando vi giungerai troverai uno dei ventilatoi degli Inferi. Infilaci la testa e vedrai una strada in discesa, dove non passa nessuno. Imboccala subito, e ti porterà direttamente al palazzo di Plutone. Ma non dimenticare di portare con te due focacce d’orzo inzuppate in acqua di miele, una in ciascuna mano, e due monete in bocca».
Che qui la terra si sia ribaltata? Che abbia immerso sott’acqua una di quelle smisurate caverne tanto comuni nelle montagne greche, che si addentrano serpeggiando scivolose nel buio minerale per lunghi e lunghi tratti, nelle quali, con improvvise e strane correnti d’aria che ti spengono il moccolo, si passa carponi accanto a canne d’organo, a baratri, a favi di pietra, e tra stalattiti e stalagmiti simili a molari e a denti del giudizio di un mostro tremendo sul punto di serrarli, per arrivare infine, nel cuore profondo senz’aria del monte e grondando sudore come nel più caldo dei calidaria, al soffocante santuario di un qualche santo locale, trogloditico e semiselvaggio (come quello di san Giovanni Cacciatore sull’Akrotiri a Creta), installato per neutralizzare gli antichi demoni ctonii che ivi dimoravano prima dell’avvento del cristianesimo? Una grotta sterminata dalla quale i lacedemoni, sapendo dove conduceva, si ritraevano terrorizzati? La sua bocca poteva trovarsi sommersa e allagata nel diafano abisso sotto i miei piedi che pestavano l’acqua; forse l’aveva obliterata una frana o sigillata un macigno. Le umide pareti circostanti erano massicce e compatte. Fortunatamente la mitologia è di rado così letterale, e il fatto che Caronte potesse non essere il primo barcaiolo che Psiche dovette pagare il giorno della sua discesa è senza importanza. Laggiù era la via per il fiume popolato di spettri e l’orribile cane a tre teste (le due focacce per lui, come le due monete per il traghettatore, erano un biglietto di andata e ritorno), per i campi oscuri e le lunghe tristi sale di Persefone; il grigio mondo dove il fantasma della madre svanì più volte tra le braccia di Odisseo come l’ombra di un sogno. Fu sotto questa stessa grotta che il misero Orfeo, nel terribile viaggio alla ricerca della perduta Euridice, addormentò l’odioso Cerbero con la dolcezza della sua lira; e fu qui che Eracle trascinò su all’aria superna il cane infernale schiumante e ringhiarne (e, a me pare, bagnato fino al midollo), tenendolo per la triplice collottola.
C’è sempre qualcosa che incute una timorosa reverenza in queste terrestri identificazioni con l’Ade. Il Lete, dicono, fluisce con le sue acque d’oblio vicino alle Sirti in Africa. La sorgente dello Stige manda la sua cascatella giù per le rupi del monte Chelmos in Arcadia, e io ho seguito le funeste sinuosità di Cocito attraverso le pianure tesproziane in Epiro, non lontano dalla profonda forra sotto l’indomabile Sufi dove l’Acheronte cade con rombo di tuono. (Per ragioni letterarie io l’ho attraversato vittoriosamente a nuoto tre volte). È da queste parti che Odisseo, per ordine di Circe, scese tra le ombre. Più sinistra di tutti, a poche miglia da Napoli, accanto al cupo laghetto d’Averno, è la galleria scavata nel tufo vulcanico dove abitava la Sibilla Cumana, e dove alla luce tremolante delle fiaccole si può vedere, tanto lontano dalla sua sorgente achea, un affluente dello Stige. Qui Enea compì la sua facile discesa. Nei prati vicino a Enna i contadini siciliani indicano ancora la sorgente di Ciane, dove Plutone aprì la terra con un colpo di tridente per portare Persefone giù nel suo tetro regno.
Con poche bracciate girai l’angolo di roccia, il soffitto si alzò e l’imboccatura assolata della grotta si aprì in un semicerchio luminoso dove ancora roteavano e cinguettavano le rondini. Fuori, nel sole sfolgorante, il caicco, sebbene vicino, sembrava molto piccolo e distante. Viaggiava ancora in cerchio, solcando e risolcando la sua scia circolare. Joan sedeva al timone, Panagioti, appoggiato all’albero, si accendeva una sigaretta. Com’era chiara la luce del giorno, e splendenti i colori! Mi attaccai all’ancora al giro seguente della barca, e afferrata l’asta e messo un piede sull’unica marra rugginosa presi la mano tesami da Pangioti e salii a bordo. Joan tirò a sé la barra del timone e la scia si spiegò in una linea diritta verso sud. Panagioti mi offrì una sigaretta e l’accese col suo mozzicone.




domenica 21 giugno 2020

MANI. Viaggi nel Peloponneso (Areopolis, la città di Marte)


LA CITTÀ DI MARTE (AREOPOLIS)

La via per il mondo superno era una stradicciola sassosa traversata da lame di roccia, per dar presa ai piedi dei muli che portano carichi su ad Areopolis dal torrido porticciolo di Limeni. Ogni pianta d’olivo, immobile nell’aria immota, era trasformata dagli insetti in un gigantesco sonaglio, un vorticoso asilo di limatura di ferro. Ma quando di curva in curva sassosa salimmo più in alto il fragore si smorzò e la strada, spazzata da un fresco venticello, si appianò per due miglia di un nudo altopiano, che a ovest cadeva precipite al mare e a est tornava a salire a prosecuzione del Taigeto; e là davanti a noi, mezzo fortificata e con i tetti sormontati da un paio di torri e da cupola e campanile di un piccolo duomo, ecco la capitale dell’Alto Mani. Le viuzze di Areopolis ci attorniarono.








Come tutte le città d’altopiano aveva un che di arioso, e verso il golfo di Messenia le stradine finivano nel cielo come trampolini. Nell’entroterra l’anfiteatro incombente si ingentiliva dall’asprezza pomeridiana in una serie di coni ombrosi color malva. In questo ambiente solenne la piccola capitale aveva un’aura di solitudine e di lontananza. Ma le vie acciottolate, in pendenza, traboccavano di vita sociale, come se i manioti si adunassero là fuggendo dal vuoto di fuori infestato dai cactus.





















In fondo alla via principale una cattedrale primitiva, più piccola di una piccola chiesa parrocchiale inglese, stava in mezzo a un grappolo di gelsi. Tutta imbiancata a calce, aveva una cupola bizantina di laterizio sorretta da un tamburo ad archi e pilastri ed era affiancata da un candido campanile a punta. Una modanatura dipinta di giallo chiaro cingeva l’abside a coste. Guarnita alternativamente di rosette rosa e di foglie verde vivo, avrebbe potuto essere la decorazione di una chiesa maya barocca sulle montagne del Guatemala. Nella parte alta dei muri lesene color malva sostenevano colonnette racchiudenti riquadri color albicocca, e goffi serafini con sei ali spiegavano le piume in un rilievo bitorzoluto. Due puerili dischi solari avevano una corona di petali puntuti adorni di occhi simili a uva passa e di larghi sorrisi, e i segni dello Zodiaco, eteroclito e amabile serraglio, ruzzavano attraverso il bianco calce. La decorazione sopra la porta principale era un vero rompicapo: un grande riquadro con lo stesso rilievo bitorzoluto era dipinto di giallo, nero e verde. Rose Tudor e foglie e rosette e soli da filastrocca infantile facevano da sfondo a due angeli, uno in vesti scanalate, l’altro in armatura e coturni; e tra loro, sorretta da due piccoli e rudimentali leoni rampanti, un’aquila bicipite ad ali spiegate recava sul petto un complicato stemma con strani emblemi talmente dipinti e ridipinti che anche stando in piedi su una seggiola di caffè era difficile decifrarli. Le due teste dell’aquila erano aureolate, e lo stemma era sormontato da una sorta di corona, mentre sopra le teste del rapace una corona imperiale, simile a quella dell’Austria-Ungheria o dell’Impero russo, spiegava i suoi due nastri come una mitra. Un cartiglio sottostante recava la data 1798.







L’aquila a due teste, emblema di Bisanzio e in certo modo della Chiesa ortodossa, è un simbolo che ricorre di frequente nella decorazione ecclesiastica; la formula della sua rappresentazione sui muri e sul pavimento delle chiese è poco mutata da quando all’aquila imperiale di Roma crebbe una seconda testa con la fondazione costantiniana dell’Impero d’Oriente nel 330. Ma l’elaborazione araldica del rapace di stucco sopra la porta non le somigliava affatto. Nonostante la grossolanità, il disegno - le aureole, l’assetto di ali, artigli e coda - echeggiava la sofisticatezza e il formalismo della moderna araldica occidentale. Mi chiesi se non fosse stato copiato, arbitrariamente e a puro scopo decorativo, dal blasone di un tallero di Maria Teresa; ma tranne le fasce (o strisce) nel capo destro, vagamente simili a una parte dello stemma ungherese, la somiglianza è nulla. Che fosse stato ispirato dallo stemma della Russia? Improbabile, a causa della data, posteriore di un ventennio alla fallita campagna di Orlov nel Peloponneso, che di fatto screditò la Russia come protettrice dell’Ortodossia. L’unico fatto importante della storia locale nel 1798 è l’avvento di Panagioti Koumoundouros come quarto bey del Mani. Ma per quanto i bey fossero grandi potentati locali, non mi risulta che si fregiassero di un blasone. Questi emblemi, con data annessa, sembravano (e sembrano tuttora) problematici come una statua dell’Isola di Pasqua nelle Ebridi. Accludo una copia fedele di questo stemma semiobliterato, caso mai qualcuno riuscisse a identificarlo e forse a disseppellire un capitolo perduto di storia maniota.



Dopo la conquista franca della Grecia il Mani era stato una tempestosa oligarchia feudale di potenti famiglie. Il clan di gran lunga più forte, ricco e numeroso era quello dei Mavromichalis, ai quali sono state attribuite varie origini. Una tradizione li dice famiglia originariamente tracia di nome Gregorianos, fuggita qui quando i turchi varcarono per la prima volta l’Ellesponto nel 1340. È certo che nel XVI secolo essi erano ormai stanziati nella parte occidentale dell’Alto Mani. Nelle cronache dei secoli successivi il nome ricorre di frequente. Secondo una leggenda ben radicata la loro grande bellezza fisica derivava dallo sposalizio di un Giorgio Mavromichalis con una sirena; allo stesso modo, nel folklore celtico chiunque si chiami Connolly discende da una foca. Pari alla bellezza era il loro coraggio e intraprendenza, e Skiloianni Mavromichalis - Giovanni il Cane - fu nel XVIII secolo uno dei grandi paladini contro i turchi. Suo figlio Petro fu capo di questa vasta famiglia a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, quando i Mavromichalis erano all’apice della loro prosperità e potenza, dovute principalmente all’importanza commerciale e strategica della loro roccaforte ereditaria nella fortezza naturale di Tzimòva con il porto annesso di Limeni. Questa controlla il solo valico che attraverso il Taigeto porta a Githion e al resto della Laconia; ed è anche l’ingresso all’Alto Mani. Molto prima della sua nomina a bey l’autorità e influenza territoriale di Petro superava d’assai quella dei predecessori, e il conferimento nel 1808 della carica fu la ratifica di un potere già assoluto. La figura bella e dignitosa e la cortesia dei modi erano i segni esteriori di un’indole retta e onorevole, di alta intelligenza, abilità diplomatica, generosità, patriottismo, coraggio e forza di volontà incrollabili: qualità convenientemente intensificate dall’ambizione e dall’orgoglio di famiglia e deturpate talvolta dalla crudeltà. Anche lui negoziò con Napoleone (ma senza gran frutto, essendo quest’ultimo troppo occupato altrove) e riconciliò i clan guerreggianti, imponendo una tregua alle faide. Pacificò in particolare i clan Troupakis e Grigorakis, i quali, aizzati dai turchi nella speranza che i dissidi interni facilitassero l’invasione del Mani o almeno lo neutralizzassero nella lotta imminente per la liberazione della Grecia, erano aspiranti rivali al rango di bey.
Fu il Mani a colpire per primo. Petrobey e tremila manioti insieme a Kolokotronis e a una schiera di grandi clefti di Morea mossero contro la guarnigione turca di Kalamata. Dopo la resa di questa, egli diramò alle corti d’Europa una dichiarazione delle aspirazioni greche firmata «Petrobey Mavromichalis, Principe e Comandante in capo». I vessilli della libertà si alzavano intanto in tutta la Grecia, e l’intera penisola divampò in un incendio che dopo quattro secoli di schiavitù abbatté per sempre il potere turco nel paese e fece rinascere la splendente fenice della Grecia moderna. Petrobey, alla testa dei suoi manioti, combatté battaglie e battaglie in quegli anni feroci, e fu uno dei giganti della lotta. La sua figura si staglia ben al di là dei limiti rocciosi di queste pagine, in quelle della storia moderna europea. Non meno di quarantanove suoi familiari perirono nel conflitto e la sua capitale Tzimòva fu ribattezzata in suo onore Areopolis: la città di Ares, dio della guerra. Nell’intrico di contrasti ideologici che seguì la liberazione Mavromichalis venne in urto con il nuovo capo dello Stato, Giovanni Antonio conte di Capodistria, e fu imprigionato nella nuova capitale Nauplia. Il Mani insorse; Petrobey fuggì ma fu ripreso e rimesso in carcere, e due suoi turbolenti nipoti, infuriati per l’ingiuria, uccisero in un agguato Capodistria. Durante il regno del re Ottone, Mavromichalis ebbe alti onori, e morì, circonfuso di gloria, nel 1848. In seguito i suoi discendenti hanno avuto sempre una parte di rilievo nei vari governi e gabinetti di guerra, anche se nessuno di loro - e come sarebbe stato possibile, nel mondo ateniese della politica di partito? - ha eguagliato la statura del grande avo.