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martedì 23 aprile 2024

Gli impiccati di via Ghega - Trieste, 23 aprile 1944




Nel febbraio 1944 il generale Ludwig Kübler, comandante della Wehrmacht nel «Litorale», territorio amministrato direttamente dal Reich, riscontrato il grave pericolo costituito dai partigiani, impartì l’ordine «terrore contro terrore, occhio per occhio, dente per dente», perché «è giusto e necessario tutto ciò che conduce al successo». Kübler assicurò i suoi sottoposti: «Coprirò personalmente ogni misura che sia conforme a questo principio». Nelle province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume, Lubiana, costituenti la Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona d’operazioni Litorale Adriatico) l’incremento della violenza in quell’anno non ebbe sosta.
A Trieste la resistenza organizzata nella rete clandestina delle fabbriche, nei GAP (Gruppi di azione partigiana), nel CLN (Comitato di liberazione nazionale), fu esposta ai gravi rischi derivanti dall’apparato repressivo nazista (Gestapo), da quello del collaborazionismo locale (Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia), dall’attività degli infiltrati e da una speciale milizia, la Guardia civica, istituita dal podestà Cesare Pagnini in accordo col prefetto Bruno Coceani, in base ad un’ordinanza del Gauleiter Friedrich Rainer sulla costituzione di unità antipartigiane.
La strage di via Ghega rientrò in questo clima di violenza generalizzata ed avvenne appena venti giorni dopo la fucilazione di 71 antifascisti ad Opicina.
Sull’altipiano carsico, il 3 aprile, nel Poligono di tiro di Opicina, in seguito ad un attentato compiuto il giorno precedente dai partigiani presso il cinema del luogo in cui 7 soldati tedeschi avevano perso la vita, furono qui fucilati per rappresaglia 71 ostaggi, i cui corpi vennero bruciati il giorno successivo nel forno crematorio della Risiera di San Sabba.
Con l’istituzione della Zona di operazioni Litorale Adriatico, palazzo Rittmeyer, proprietà comunale dal 1914, fu trasformato dalle autorità germaniche in Soldatenheim (Casa del soldato), ritrovo e mensa per soldati ed ufficiali della Wehrmacht. L’edificio rimase tristemente famoso per la rappresaglia compiutavi dai nazisti il 23 aprile 1944. Il giorno precedente, il 22 aprile, nella sala mensa affollata di soldati ed ufficiali in attesa del pranzo, esplose una bomba, lasciata in una borsa sotto un tavolo, da due partigiani d’origine azerbaigiana, Mechti Husein Zade (Mihajlo) e Mirdamat Seidov (Ivan Ruskij), prigionieri sovietici inquadrati nella Wehrmacht, ma operanti come sabotatori per il Fronte di Liberazione Sloveno (Osvobodilna Fronta). Nell’attentato perirono cinque soldati tedeschi.
La reazione nazista fu immediata: nella notte tra il 22 ed il 23 aprile, dalle carceri del Coroneo e dei Gesuiti, vennero prelevati 51 ostaggi civili, partigiani e politici italiani, sloveni e croati. Fatti scendere da un camion e scortati all’interno furono impiccati ad uno ad uno, chi alla balaustra delle scale, chi alle finestre, ed esposti, per due giorni, a monito per la popolazione.
Tra gli ostaggi vi furono ragazze e ragazzi in giovanissima età: Carlo Krizai di 16 anni, Giuseppe Turk di 17, come Giulio della Gala di GL e della Gioventù Antifascista Italiana (GAI), Luciano Soldat di 18. Tra le donne Laura Petracco Negrelli, Zora Germec, Maria Turk. Laura Petracco fu arrestata assieme allo studente universitario Marco Eftimiadi, cui toccò la stessa sorte.
Militi della Guardia civica furono obbligati, dai comandi germanici, a svolgere servizio di vigilanza alle salme esposte.
Il fratello di Laura Petracco, Silvano di 18 anni, fu tratto dalle carceri ed impiccato nei pressi della stazione ferroviaria di Prosecco con altri 10 suoi compagni il 29 maggio 1944. Prosecco svolse un ruolo importante sia nella lotta antifascista d’anteguerra che nella successiva lotta di liberazione; nel 1941 vi era sorto il primo nucleo dell’Osvobodilna Fronta e l’intera area ebbe un ruolo strategico di collegamento tra la rete clandestina della città di Trieste, l’altipiano ovest e l’entroterra sloveno. Alla forza del movimento partigiano corrispose una violenza repressiva inaudita al punto che, dopo l’eccidio del 29 maggio, suscitarono molto allarme i lavori per la costruzione di un forno crematorio nei pressi dell’attuale monumento ai caduti, progetto interrotto dalla liberazione.
La sera del 27 marzo 1945 un gruppo di gappisti portarono a termine un’azione di sabotaggio incendiando i fusti di benzina depositati all’interno di un’autorimessa tedesca sita in via Massimo d’Azeglio, senza causare vittime. Durante la fuga, due degli attentatori furono fermati da una pattuglia della Guardia civica: uno riuscì a scappare, l’altro, Giorgio De Rosa, fu consegnato ai tedeschi. L’indomani le SS arrestarono altri tre del gruppo partecipante all’azione.
Bastonati crudelmente nella sede dell’Ispettorato Speciale e riconsegnati alle SS, Giorgio De Rosa, Sergio Cebroni, Remigio Visini, Livio Stocchi, d’età tra i 17 ed i 21 anni, furono pubblicamente impiccati la mattina del 28 marzo, sul luogo dell’attentato, a ganci rudimentali.

* * *

DOVE SI TROVA. Al numero civico n. 12 della centralissima via Ghega, l’arteria che delimita il borgo Teresiano e collega la Stazione centrale (ex Ferrovia Meridionale) al centro città, l’edificio ottocentesco, ereditato dal Comune dalla famiglia de Rittmeyer nel 1914, è sede dal 1954 del Conservatorio di musica «Giuseppe Tartini». Una lapide, posta sulla facciata nel 1947, ricorda l’eccidio.
La via d’Azeglio, ubicata nei pressi dell’Ospedale Maggiore, parte da piazza dell’Ospitale, facilmente raggiungibile da piazza Goldoni, e finisce a largo Niccolini. Al numero civico 13, sulla facciata di un’autorimessa, una lapide con i nomi ricorda le 4 vittime.



















giovedì 28 aprile 2022

27-28 aprile 1945. La cattura e la fucilazione di Roberto Farinacci


La «resistenza» nel vimercatese, una raccolta di scritti edita nel 1975 dal Comitato Unitario Antifascista - Città di Vimercate, propone una doppia lettura politica dei fatti storici (e già scrivere «resistenza» tra virgolette porta a più di una riflessione, allora come oggi): le pagine da 5 a 34 (testo redazionale) e da 37 a 49 (Testimonianze) sono compilate da persone “di sinistra”, così come le pagine da 53 a 77 riportano ad una mano clericale. Comunque sia, ecco le due versioni della cattura e la fucilazione del gerarca Farinacci:

[p. 30]
Dal rapporto della 104a Brigata S.A.P. «Citterio», stralciamo:
«…Verso le ore 7 di venerdì 27 aprile una colonna composta da una sessantina di automezzi fra automobili, autocarri e motocarrozzette, transitava sulla strada provinciale al posto di blocco di Calco, proveniente dalla direzione di Bergamo. Arrivata l’autocolonna all’altezza di Rovagnate, dove era appostato il distaccamento forte di una cinquantina di uomini con mitragliatrici bene appostate, avveniva l’attacco.
Data la forza dell’autocolonna, se ne lasciava sfilare circa i 2/3, e si attaccava la coda con fuoco ben aggiustato, che colpiva l’obiettivo in pieno, provocando perdite notevoli e scompiglio nelle file nemiche.
Alcuni automezzi venivano catturati, altri fuggivano verso Como, mentre le due ultime macchine giravano e ritornavano velocemente nella direzione di Brivio. Al posto di blocco di Calco interveniva la sezione di distaccamento che riusciva a colpire e ad arrestare una grossa vettura Bianchi coi passeggeri, mentre l’altra vettura, una Aprilia, riusciva a proseguire inseguita da una nostra macchina montata da 5 uomini. L’Aprilia, crivellata di colpi, veniva costretta ad arrestarsi all’altezza di Beverate. Su di essa era il gerarca Roberto Farinacci, incolume, la sua accompagnatrice marchesa Medici del Vascello gravemente ferita alla testa, e un maresciallo della G.N.R. già morto. La mattina seguente Farinacci veniva trasferito al comando di Divisione di Vimercate».

[pp. 69-73]
Fra i numerosi atti che si potrebbero ricordare, il fatto più saliente fu la cattura e l’esecuzione sulla piazza Unità d’Italia di Vimercate, di uno dei maggiori responsabili della dittatura fascista: Roberto Farinacci.
Qui l’unica versione documentata sull’arresto del gerarca cremonese, dopo quanto si è scritto e pubblicato in quei giorni e successivamente sull’argomento, rimane quella di chi compì l’arresto della piccola colonna Farinacci a Beverate e ne lasciò una dichiarazione che qui si trascrive:
«Per il grosso comando tedesco di Merate avevamo precedentemente agganciato il comandante delle truppe mongole aggregate ai tedeschi ottenendo l’assicurazione che in caso di combattimento esse si sarebbero senz’altro schierate con noi. Fortunatamente non fu necessario perchè con i tedeschi venne concordato che non sarebbero intervenuti, purché non molestati sino al sopraggiungere delle truppe alleate. Anzi ci furono molto utili perchè furono loro a convincere le colonne dei loro camerati in transito nella nostra zona e arrendersi anziché proseguire per la Germania.
Era curioso assistere allo spettacolo di armatissimi reparti, arrendersi al nostro primo cenno mentre sarebbe bastato poco tempo per loro, grazie alla loro superiorità per annientarci.
Fu invece contro i reparti fascisti in fuga verso Como e provenienti da altre zone, che ci scontrammo più volte subendo, purtroppo, notevoli perdite al bivio di Rovagnate, Brivio, Bulciago ed altrove.
È stato appunto durante l’attacco contro una di queste colonne provenienti dalla provinciale di Bergamo e diretta a Como che venne catturato Roberto Farinacci. La colonna riuscì a forzare a Brivio ed a Calco, trovando notevole resistenza a Rovagnate, Farinacci seguito da una vettura dei più fedeli tentò la fuga in direzione di Lecco abbandonando la colonna.
Mi trovavo in quel momento al bivio di Calco e con vari compagni mi accingevo a dare battaglia alle retroguardie quando, notando le due macchine in fuga, decidemmo di inseguire con una vettura la prima macchina mentre per la seconda sarebbe stato compito di altri miei compagni.
Sparammo alcuni colpi in aria per costringere la macchina, che a forte andatura ci precedeva, a fermarsi; questi aumentarono la velocità e cominciarono a sparare contro di noi. Fu allora che con alcune raffiche costringemmo la vettura con le gomme sfaciate a fermarsi davanti allo stabilimetno Rivetti di Beverate. Sulla vettura oltre che Farinacci alla guida e illeso, trovammo la Marchesa Carla Medici del Vascello, segretaria dei fasci femminili gravemente ferita ed un milite morto. Su una macchina di nostri compagni, sopraggiunta in quel momento, inviammo la Marchesa Medici all’Ospedale di Merate dove, senza riprendere conoscenza, spirò alcuni giorni dopo.
Farinacci fu caricato sulla nostra macchina; arrivati al posto di blocco di Cicognola in Merate si riuscì a telefonare al comando di divisione di Vimercate dove fu ordinato di consegnare il prigioniero.
Non fu possibile consegnare il Farinacci al comando perchè su quelle strade eravamo impegnati con altre formazioni nemiche ed il prigioniero fu trattenuto tutta la notte presso la villa Prinetti di Merate, guardato a vista da me e dal mio Commissario Politico.
Il mattino dopo, sotto buona scorta, venne inviato con un autocarro, al Comando di Vimercate».
La testimonianza di Angelo Gerosa, già Comandante del distaccamento di Merate (104a Brigata Garibaldi-Citterio) permette di chiarire definitivamente le illazioni comparse sui giornali e pubblicate in alcuni libri sulla cattura e le ultime ore di Farinacci.
Nelle prime ore del 27 aprile venne portato dal Comando Partigiano in Comune, con una grande folla che si accalcava nel cortile del Municipio e nell’anticamera del Sindaco.
Qui immediatamente, Sindaco, C.L.N. e Comandanti Partigiani discussero sulla modalità del processo al gerarca fascista. Il Sindaco, appoggiato dal rappresentante della D.C. nel C.L.N., insistette affinchè Farinacci fosse portato a Milano per essere giudicato dal Tribunale Speciale secondo le direttive delle autorità politiche e militari colà costituite, e le norme da tempo emanate dal C.L.N.A.I. (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia).
A tali direttive si oppose il rappresentante P.C. nel C.L.N. Achille Frigerio, appoggiato dal rappresentante del P.S.I., sostenendo che il popolo esigeva giustizia sommaria con un tribunale composto dalle famiglie dei sei caduti Vimercatesi ad Arcore, dai membri del C.L.N. e presieduto dal Sindaco. Il capo dell’amministrazione comunale, che si rifiutò, considerava suo dovere inviare il Farinacci al Tribunale Speciale non per eludere la responsabilità politica e morale di tale presidenza, ma per il rispetto democratico e militare che si dovevano agli ordini ricevuti tassativamente dalle autorità del Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia.
Qui avvenne uno scontro verbale violento fra il Sindaco Sirtori ed un Comandante della Divisione «Fiume-Adda», il quale non conoscendo la provenienza del Sindaco dalle file partigiane, credette di poterlo accusare di pusillanimità. Ma avvertito delle attività di Sirtori quale Comandante delle Brigate del Popolo, chiese allora un breve colloquio privato con il Sindaco stesso.
Il Comandante giustificava il processo sommario con il timore che altre colonne nazi-fasciste, ancora attorno a Vimercate, riuscissero a liberare Farinacci, ed il Sindaco allora si offrì, di fronte ai Membri del C.L.N. di portare sotto la sua personale responsabilità, il gerarca fino a Milano o vivo o morto purché mettessero a sua disposizione un automezzo ed un autista.
Prevalse la tesi del giudizio sommario e si istituì un tribunale nella Sala Consigliare, composto dai membri del C.L.N., alcuni rappresentanti delle famiglie dei giovani Vimercatesi caduti, e presieduto da Frigerio Achille.
Parlò il Comandante partigiano accusando il Farinacci di vari reati e di tradimento della Patria.
Rispose Farinacci ricordando i suoi atti eroici compiuti in guerra e la sua fede non mai spenta per l’Italia; dopo di che seguì la sentenza di morte emessa dal Tribunale del Popolo.
Il Sindaco, intervenendo in quel momento nella sala, chiese al Farinacci se, come cattolico, desiderava l’assistenza spirituale di un prete prima dell’esecuzione della sentenza. Ebbe risposta affermativa; non tutti però erano d’accordo di concedere tale assistenza al condannato. Una voce tra la folla gridò: «mandate quell’assassino immediatamente alla fucilazione perchè ai nostri partigiani i fascisti non concedevano il sollievo della presenza del prete».
Don Attilio Bassi, già imprigionato dai fascisti appoggiò vivacemente la richiesta del Sirtori e fendendo con lui la folla nella sala, prese Farinacci e lo spinse nello studio del Sindaco, mentre sulla porta, il Sindaco stesso garantiva ai partigiani che Farinacci sarebbe stato riconsegnato appena terminato il colloquio con il sacerdote.
Farinacci uscì con Don Bassi, al quale si affiancò Don Anselmo Radaelli del Collegio Tommaseo e lo accompagnarono fino alla piazza, scortati dai partigiani che proteggevano Farinacci dalla folla. Qui avvenne la fucilazione.
Questo fatto ebbe vasta risonanza non solo in Vimercate, ma in tutta Italia; giornalisti e cronisti si sbizzarrirono in seguito offrendo diverse versioni che poi qualche scrittore fece proprie. Per queste ragioni ci corre l’obbligo di narrare l’accaduto come testimoni oculari.

* * *

Dal 2012 è in rete un ricordo di don Enrico Assi, vescovo di Cremona dal 1983 al 1992, dove sotto il titolo La cattura e la fucilazione di Farinacci. Testimonianza del vescovo E. Assi, vengono riportate tutte le parole, con integrazioni postume, pubblicate a Vimercate nel 1955 e poi inserite nel libro Cattolici e Resistenza. Testimonianza inedita di un episodio della Brianza (emblematico per l’Alta Italia), scritto dallo stesso Assi e pubblicato da Piemme nel 1985.


Seguendo l’ordine cronologico di edizione, al secondo posto vi è Vimercate nella storia contemporanea 1918-1945, un volume di 212 pagine fatto stampare nel 1985 dal Comune di Vimercate. Anche qui tante le firme redazionali e le collaborazioni, come le firme in calce dimostrano. Restando sul tema della cattura e la fucilazione di Roberto Farinacci, queste le testimonianze riportate:

[198-200]
“(...) il 27 aprile del 1945 è stata una giornata particolarmente dura per i partigiani della provincia di Como, ma anche degna di essere ricordata. Erano circa le ore 15 quando al ponte di Brivio sull’Adda (passaggio obbligato per le colonne dei fascisti provenienti da Cremona, Bergamo e Brescia diretti a Como) il presidio disarmò una colonna fascista facendo un enorme bottino di armi. Poco dopo, un’altra colonna giunse allo stesso punto: era formata da circa 60 automezzi. Il comandante scese da una macchina del seguito e chiese di parlamentare con il comandante partigiano del presidio per ottenere il permesso di transito, esprimendo il suo desiderio di arrendersi ai partigiani di Como qualora tale città fosse caduta sotto il dominio di quest’ultimi. Il comandante partigiano con i suoi diretti collaboratori non avevano nulla di contrario, però la situazione si presentava alquanto difficile in quanto sarebbe stato necessario avvisare i distaccamenti lungo la zona, per non spargere dell’ulteriore sangue. Ottenute le necessarie garanzie, la colonna si avviò. Vi erano automobili di ogni specie, torpedoni carichi di ausiliarie e di militi fascisti, diverse specialità militari del regime, tutti con l’arma in mano e inoltre camion che trainavano cannoncini anticarro. Fra tutto questo materiale rotabile si notavano pure delle lussuose macchine con a bordo alti “papaveri” della repubblichetta, quasi tutti accompagnati da donne non in divisa fascista. In coda l’auto di Farinacci. Ma nessuno di noi, in quel momento se ne accorse, anche perchè non lo conoscevamo.
La colonna fascista giunta a Calco aveva abbandonato la strada statale 36 ed aveva preso la provinciale che porta direttamente a Como. Ma a 5 km Farinacci, a causa di una foratura ad una gomma della sua auto, scendeva e immediatamente requisiva per sè e per i suoi due compagni di viaggio un’altra automobile del seguito. Durante il trasbordo dei passeggeri e delle voluminose valigie, Farinacci fu visto recarsi in un vicino prato ed appiccare fuoco a dei documenti. Proprio in quel momento le auto di coda venivano fatti segno a colpi d’arma, per cui Farinacci, rimontato in auto per l’intuito pericolo, si staccava dalla colonna e ritornava indietro. Nel frattempo fu inviato un gruppo di partigiani, dal comando di Merate al distaccamento di Calco per arrestare quattro fascisti, essi pure fuggiti da una colonna precedente. Proprio nel momento in cui si stava eseguendo l’arresto, notammo una Aprilia mimetizzata che ci sembrò alquanto sospetta. Intimammo l’alt, ma questa, anziché arrestarsi, aumentò la velocità. Ci mettemmo all’inseguimento sparando qualche colpo in aria a scopo intimidatorio, ma l’auto continuò la sua pazza corsa. Visto l’impossibilità di fermarla indirizzammo qualche scarica di mitra alle gomme e poi anche all’interno. L’auto sbandò e si arrestò a pochi metri dalla portineria dello Stabilimento di tessitura Rivetti nella frazione di Beverate. Frazione di secondi ci separò dal suo arresto al nostro arrivo. In quel momento si aprì la porta della portineria dello Stabilimento ma si richiuse subito, forse spaventati dalla presenza di uomini armati.
Con discrezione ci avvicinammo all’auto occupata da ignoti, ma nessuno si fece vivo. Poi ad un tratto scese un uomo e venne verso di noi sempre tenendo una mano in tasca. Ciò ci insospettì: l’arrestato poteva da un momento all’altro estrarre un’arma e spararci addosso, dato che non aveva più scampo. Ad un certo momento l’uomo, visibilmente spaventato, si rassegnò a quella che sembrava essere ormai la sua sorte: estrasse la mano di tasca, era di legno, si presentò gravemente, come se quello che doveva rivelare gli pesasse enormemente sulla coscienza e disse: sono Farinacci. Nessuno di noi lo conosceva, ma da un documento preso dalla sua auto confermò quanto quell’uomo valeva per la nostra Brigata.
Nell’Aprilia del gerarca vi era uno sconosciuto privo di qualsiasi documento il quale era morto nello scontro a fuoco.
Nel sedile posteriore giaceva una donna gravemente ferita da due pallottole di mitra alla testa: era la Marchesa Carla Medici del Vascello, amante di Farinacci, segretaria dei fasci femminili. Essa morì dopo 18 giorni di agonia all’ospedale di Merate. Dopo un accordo preventivo con il conte Prinetti di Merate fu deciso di nascondere il prigioniero nella sua villa. Colà giunto, il conte lo ricevette come un ospite di riguardo, cosa che riempì noi partigiani di meraviglia ma più che altro di sdegno: ancor più ci stupimmo quando il conte ci raccomandò di usare il maggior riguardo per il gerarca fascista. Si ebbe la risposta che si meritava senza usare termini villaneschi ma duri. Lasciato il prigioniero in buone mani, con la presenza del commissario politico, il quale saputo dell’arresto giunse poco dopo, ci recammo presso il nostro comando per assumere altri impegni che ci attendevano.
Farinacci fu interrogato per tutta la notte dal Chiessi, commissario di Brigata.
Egli disse che era, da diverso tempo, in contrasto con la politica del Duce e per tanto si sarebbe commesso un grave errore uccidendo uno dei promotori della caduta del fascismo. La mattina del giorno seguente, 28 aprile 1945, Farinacci fu condotto al Comando di Divisione di Vimercate”. (Orfeo Gagliardini)

Il Comando Generale del C.L.N.A.I. aveva da tempo stabilito che i gerarchi fascisti, colpevoli di aver condotto l’Italia alla guerra e alla rovina, erano stati condannati, con voto unanime, alla pena capitale.
I criminali fascisti dovevano essere portati alla sede regionale del C.L.N.A.I., procedura da considerarsi nulla qualora sorgessero gravi problemi per il trasporto del colpevole. In tal caso si dava ampia facoltà decisionale ai Comandi divisionali partigiani. “(...) secondo quanto stabilito Farinacci andava condotto a Milano; mentre si esaminavano le modalità del trasporto, giunse notizia che le vie d’accesso al capoluogo erano percorse da colonne tedesche in ritirata. Per tale motivo il C.L.N. locale stabilì di procedere all’esecuzione del gerarca, in base alla condanna a morte già emessa, dopo averlo processato di fronte ad una giuria popolare”. (Orfeo Gagliardini)

Il processo durò circa un’ora; alle accuse delle atrocità da lui commesse e perpetrate in suo nome, dal 1925 in poi quando cioè ricopriva la carica di Segretario del P.N.F., Farinacci rispose sostenendo che da quel momento era uscito dai quadri dirigenti del regime ed esaltando i suoi presunti atti eroici compiuti nella guerra d’Africa. Terminato il dibattimento, venne data lettura della sentenza emessa dal tribunale del popolo:

Vimercate, 28 aprile 1945
Dopo aver consultato la Giuria, sentita l’accusa e la difesa del teste viene decretata la pena di morte mediante fucilazione alla schiena immediata del famigerato Roberto Farinacci.
IL PRESIDENTE DEL TRIBUNALE DEL POPOLO
Achille Frigerio

“(...) dopo aver ascoltato la sentenza emessa dal Tribunale, Farinacci chiese di poter scrivere una lettera alla figlia: facoltà che gli venne accordata. La sua paura era tanta da non riuscire a tenere la penna tra le dita. Ricevuti i conforti religiosi da Don Attilio Bassi, Farinacci uscì dal Municipio accompagnato dallo stesso sacerdote e da Don Anselmo Radaelli, del Collegio Tommaseo. Mentre i partigiani faticosamente mantenevano l’ordine nella piazza gremita di folla, Farinacci fu condotto di fronte al muro della attuale CARIPLO e alle 9,20 venne dato luogo alla sentenza. Un attimo prima gridò: - Viva l’Italia! -”. (Pasquale Mondonico)


Il terzo volume, Ribelli per Amore della Libertà, porta la firma di Carlo Levati, “il partigiano Tom del 1° distaccamento della 103a Brigata Garibaldi, unico sopravvissuto tra i condannati a morte dal regime per l’attacco al campo di aviazione di Arcore.” A lui cedo la parola:

[99-100]
Il 27 aprile la 104a Brigata catturava una colonna fascista in fuga verso la Svizzera, con al seguito nientemeno che il numero due del fascismo, il fascistissimo Roberto Farinacci. Il gerarca viaggiava assieme alla marchesa Carla Medici del Vascello (segretaria dei fasci femminili e sua intima), su una Aprilia mimetizzata: auto che venne fermata da una sventagliata di mitra, presso Beverate (Como).
Farinacci venne portato a Merate, dove trascorse la notte nella villa del Conte Prinetti; il mattino seguente, il 28 aprile, fu condotto al comando di divisione di Vimercate.
A questo punto va ricordato che il CLN Alta Italia aveva da tempo stabilito la pena di morte per i maggiori responsabili del fascismo. I criminali fascisti dovevano essere portati alla sede regionale del CLNAI, procedura da considerarsi nulla qualora sorgessero gravi problemi per il trasporto del colpevole; in tal caso si dava ampia facoltà decisionale ai Comandi Divisionali Partigiani.
Così, siccome le vie d’accesso a Milano erano percorse da numerose colonne tedesche in ritirata, si decise di procedere all’esecuzione del gerarca, dopo averlo processato di fronte a una giuria popolare.
Il processo avvenne nella sala del Consiglio Comunale. Il pubblico accusatore era Achille Frigerio, del CLN locale.
I giurati erano i familiari dei partigiani fucilati ad Arcore, presidente del Tribunale era l’avvocato Carlo Tolla di Vimercate. Il Farinacci tentò di difendersi dicendo che lui era dal 1926 che non aveva più niente a che fare col fascismo.
Il condannato venne condotto in piazza Unità d’Italia accompagnato da don Attilio Bassi e da don Anselmo Radaelli del Collegio Tommaseo; dopo il conforto religioso venne passato per le armi. Tale era l’esasperazione della popolazione, così duramente provata dalla guerra e dalle violenze dei nazifascisti, che inveì anche contro il cadavere e a stento la si poteva trattenere. Appena fu possibile, gli uomini del servizio d’ordine scortarono il corteo funebre al Cimitero, onde evitare inconvenienti.

* * *

Chiudo questa mia carrellata - volutamente basata su testi scritti da testimoni dei fatti narrati - con una puntualizzazione: sebbene la condanna a morte prevedesse la fucilazione alla schiera (un dettaglio che rinvia alla fucilazione dei giovani partigiani vimercatesi al campo d’aviazione di Arcore), una fotografia mostra l’esatto contrario. Voci non confermate dai testi qui sopra proposti vogliono che due volte Farinacci venne messo col volto rivolto al muro e due volte il gerarca si voltò mostrando il petto. La stessa narrazione vuole che, intuito il gesto, la prima volta il plotone sparò in aria, la seconda al condannato.

Alle immagini d’epoca aggiungo alcuni miei scatti, dove si può vedere la porta al piano terra di Palazzo Trotti da cui fu fatto uscire Farinacci diretto al luogo dell’esecuzione. Quel muro, ben presente nella mia memoria, fu poi abbattuto alla fine degli anni ’50 per far posto ad una filiale della CARIPLO, una banca a suo tempo considerata un ricco “feudo della Democrazia cristiana”.













lunedì 25 aprile 2022

25 aprile, Festa della Liberazione






Partigiano LUIGI RONCHI
Nome di battaglia NABO (anni 24)
Nasce a Vimercate il 10 gennaio 1921 in via Crispi 7. Figlio di operai, ex bersagliere del 10° Reggimento. Antifascista, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 entra nella Squadra d’Azione Patriottica della 103a Brigata Garibaldi. Partecipa a diverse azioni partigiane insieme al suo gruppo di compagni. Sarà protagonista del secondo e sfortunato assalto al campo di aviazione di Arcore la notte del 29 dicembre 1944. Per la soffiata di una spia fascista viene catturato e rinchiuso nel carcere di Monza. Il 29 gennaio 1945 viene condannato alla pena di morte dal Tribunale fascista di Milano. Portato sul campo di Arcore la mattina del 2 febbraio 1945, Luigi Ronchi ed i suoi compagni furono freddati con un colpo di fucile alla schiena.


Comandante Partigiano IGINIO ROTA
Nome di battaglia ACCIAIO (anni 23)
Nasce a Villa D’Almè il 6 ottobre 1921. Presta servizio militare presso l’8° Reggimento Autieri di Bologna con il grado di Sergente. Militante del PCI, nel 1944 entra a far parte del Nucleo di Resistenza. A lui fu affidato il comando e, con il suo ingresso, si costituì ufficialmente il 1° distaccamento della 103a Brigata Garibaldi S.A.P. “Vincenzo Gabellini”. Il 29 dicembre 1944 coordina il secondo attacco notturno al campo di aviazione di Arcore, che purtroppo si conclude in modo tragico. Il mitra del comandante si inceppa e i fascisti gli sono addosso. Iginio, colpito mortalmente, cade sul campo.


Patriota SALVATORE PRINCIPATO
Nasce a Piazza Amerina (Enna) il 29 aprile 1892. Insegnante, si trasferisce a Vimercate e, tra il 1913 e il 1915, esercita la professione prima nel Collegio privato “Tommaseo” e poi nelle scuole comunali. Combatte sul Carso come soldato semplice ottenendo una Medaglia d’argento. Rientrato alla vita civile, riprende l’insegnamento, prima a Vimercate, poi a Milano. Si unisce ai socialisti e, con l’appellativo di “Socrate”, contrasta da subito il nascente fascismo. Viene arrestato per la prima volta nel 1933. Fece parte della 33a Brigata Matteotti e del CNL Scuola. L’8 luglio 1944 è arrestato e imprigionato nel carcere di Monza. Ai primi di agosto viene trasferito a Milano, a San Vittore. All’alba del 10 agosto, viene condotto in Piazzale Loreto e fucilato insieme ad altri 14 partigiani. All’indomani della Liberazione, Vimercate gli dedica questa via, precedentemente denominata Via del Littorio.

NB: La vita di Salvatore Principato è raccontata da Massimo Castoldi in Piazzale Loreto. Milano, l’eccidio e il «contrappasso», Donzelli Editore, 2020.


Partigiano ALDO MOTTA
Nome di battaglia MIRCO (anni 23)
Nasce a Vimercate il 16 agosto 1921, in via Cesare Battisti 8. Figlio di un commerciante e artigiano, è uno dei fondatori del nucleo di resistenza antifascista nella Brianza orientale. Caporal maggiore, ex geniere radiotelegrafista in Croazia, ritorna a casa il 10 settembre 1943. Renitente alla chiamata fascista, dovette rifugiarsi in montagna ad Imberido (LC). Ritornato clandestinamente in città, è il primo componente munito di un moschetto militare e due caricatori. Parteciperà il 29 dicembre ’44 al secondo attacco al campo di aviazione di Arcore nel quale cadde il comandante Iginio Rota. Le delazioni di due spie portarono presto all’individuazione dei responsabili dell’attacco. Viene arrestato e condannato alla fucilazione insieme agli altri partigiani vimercatesi che avevano preso parte all’azione: Emilio Cereda, Pierino Colombo, Renato Pellegatta, Luigi Ronchi. L’esecuzione ebbe luogo la mattina del 2 febbraio 1945 sul campo di Arcore.


Partigiano PIERINO COLOMBO
Nome di battaglia RABO (anni 24)
Nasce a Vimercate il 5 gennaio 1921 in via Palestro 1. Ha fatto parte del 54° Reggimento Fanteria. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la dissoluzione dell’esercito italiano, rientra a Vimercate ed assieme ad alcuni amici antifascisti aderisce al primo nucleo di resistenza attiva. Entra a far parte della 103a Brigata Garibaldi. Partecipa a varie azioni di guerriglia e sabotaggio contro i nazifascisti, tra cui i due attacchi al campo di aviazione di Arcore. Nel primo vengono distrutti cinque aerosiluranti. Il 29 dicembre, a seguito del secondo attacco, Pierino Colombo verrà arrestato per la soffiata di una spia fascista, rinchiuso nel carcere di Monza e, successivamente, trasferito a San Vittore. Viene condannato a morte il 29 gennaio 1945 dal Tribunale fascista di Milano e fucilato alla schiena insieme ai suoi compagni la mattina del 2 febbraio 1945 al campo di aviazione di Arcore.


Partigiano RENATO PELLEGATTA
Nome di battaglia RENA (anni 21)
Nasce a Vimercate il 25 ottobre 1923 in via Rossino 5. Figlio di operai, ex paracadutista, convinto antifascista si unì immediatamente al gruppo di partigiani che si era andato formando a Vimercate dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Per scuotere l’opinione pubblica mise a disposizione la sua vecchia macchina da scrivere per redigere dei volantini che attaccavano il sistema fascista. Aderisce alla 103a Brigata Garibaldi. Il 29 dicembre 1944 fu uno dei protagonisti della sfortunata azione contro il campo di aviazione di Arcore: la precipitosa ritirata dei giovani partigiani non fu sufficiente ad evitare la loro identificazione. Arrestati e portati nelle carceri di Monza furono sottoposti a maltrattamenti e torture di cui proprio Renato Pellegatta fu particolarmente vittima. Fu fucilato insieme ai suoi compagni la mattina del 2 febbraio 1945 al campo di aviazione di Arcore.


Partigiano CARLO GALBUSSERA
Caduto in combattimento (anni 22)
Nasce il 26 giugno 1922 a Vimercate, nella cascina Gargantini dove lavorava come contadino. Appartenente al 4° distaccamento della 103a Brigata Garibaldi, nei giorni dell’insurrezione, il 27 aprile 1945 riceve ai suoi compagni l’ordine di portarsi a Vaprio d’Adda per eliminare un centro di resistenza nazifascista. Il giorno seguente partecipa a un duro combattimento con altri partigiani contro un gruppo di nazisti asseragliati presso una cabina elettrica della Falck lungo il fiume Adda nella zona di Capriate San Gervasio (BG). I tedeschi alzarono bandiera bianca per la resa, i partigiani cessarono il fuoco, ma era una trappola. Si scatena nuovamente un aspro combattimento nel corso del quale Carlo Galbussera viene colpito a morte. Con lui moriranno altri 8 partigiani.


Partigiano EMILIO CEREDA
Nome di battaglia CID (anni 24)
Nasce il 14 agosto 1920 in via Vittorio Emanuele 11 a Vimercate. Dopo aver prestato servizio militare nell’Arma del Genio, torna a vivere a Vimercate lavorando come impiegato. Ritrova il suo amico Pierino Colombo che gli propone di entrare a far parte del nucleo di resistenza antifascista attiva operante nel vimercatese. Emilio Cereda si unisce con entusiasmo ai partigiani portando in dote una rivoltella trattenuta dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Con i compagni compie innumerevoli operazioni di sabotaggio e di guerriglia. La sera del 20 ottobre vengono incendiati 5 aerosiluranti pronti per il decollo nell’hangar di Arcore. Un secondo attacco al campo fallisce e successivamente, per la soffiata di una spia, viene arrestato e processato. Condannato a morte dal Tribunale fascista di Milano viene fucilato il 2 febbraio 1945 sul campo di Arcore insieme ad altri “Martiri vimercatesi”.

ADDENDA

La spia numero uno (che aveva permesso la cattura dei miei compagni), venne presa da partigiani milanesi in un abbaino della città di Milano, dove si era nascosta. Quando venne consegnata al Comando di divisione di Vimercate si è dovuto faticare molto per evitare un linciaggio da parte della popolazione, che voleva fare giustizia sommaria. Vista la situazione creatasi, la spia venne subito portata in un altro luogo e fucilata. La seconda spia non venne mai catturata. 
L’8 maggio finalmente venne dichiarata la fine della Seconda guerra mondiale.
(Da: Ribelli per Amore della Libertà, di Carlo Levati. ANPI Vimercate, 2005, p. 101).


sabato 23 aprile 2022

Gli scioperi del ’43


Gli storicizzati scioperi del marzo 1943 hanno un precedente, così descritto in un documento della Fondazione Isec reperibile in rete:

Le prime a muoversi in molti paesi della provincia di Milano furono le donne. A Sesto San Giovanni il 26 maggio 1942, 300 donne diedero vita a una manifestazione per chiedere la distribuzione di patate; per lamentare la scarsità di pane, latte e generi alimentari; per denunciare i prezzi troppo alti.
Il Commissario Prefettizio del Comune segnalava che le donne provenivano dalle vie Cavallotti e Puricelli Guerra (situate nell’agglomerato cosiddetto di “Sesto Vecchia”) e “conosciute fra le più ribelli”. In diversi rapporti i carabinieri scrivevano che si trattava di 200-400 manifestanti, di una manifestazione durata 3 ore, dell’arresto dell’organizzatrice e del fermo di 6 o 7 “caporione” poi tradotte nelle carceri di Milano. Anche nelle settimane precedenti si erano avute manifestazioni: ma se inizialmente la polizia si era limitata alla sola “diffida” delle manifestanti, in questo caso la manifestazione venne ritenuta “molto pericolosa e contagiosa”. Un promemoria non firmato della Federazione fascista di Milano segnalava al Prefetto “che gli operai reggono con difficoltà la fatica di 10 ore di lavoro con la malnutrizione determinata dal razionamento”. La richiesta di miglioramenti alimentari sarà infatti uno dei punti fondamentali che, quasi un anno dopo con gli scioperi del marzo 1943, affiancherà le richieste di aumenti salariali, della riduzione d’orario e della gestione di mense e mutue aziendali.

Qui una nota a piè di pagina rinvia ad uno scritto reperibile in rete: Fronte interno 1942. Manifestazione di protesta delle donne a Milano e provincia, di Lucia Realini, a cui rimando.
Le retate alle case operaie di Sesto SG, Milano, Cinisello e paesi limitrofi sono state portate in scena da Renato Sarti con Matilde, Piccolo Teatro di Milano, gennaio 2018.

Sempre dallo stesso fascicolo estraggo due annotazioni e una testimonianza (leggermente ridotta):

- Nei primi giorni del marzo 1943 alla Falk Unione, alla Breda Aeronautica e alla Pirelli vi furono agitazioni contro il caro vita. Alla Pirelli vi furono una ventina di arrestati; fra loro Umberto Chionna, già condannato dal Tribunale speciale. Nuovamente arrestato per lo sciopero generale del marzo 1944 morirà nel lager di Mauthausen.

- Il 23 novembre 1944 in conseguenza di uno sciopero generale solo parzialmente riuscito, le SS guidate dal capitano Saewecke catturarono 183 lavoratori. Alberto Pirelli chiese la liberazione di tutti gli arrestati. 156 operai vennero deportati in Germania, 14 caddero.

- ADELE BOCCALARI, nata nel 1916, alla FACE dal 1939 al 1948
La Resistenza alla FACE incominciò nel ’40, ’41 tra gli antifascisti d’ogni tendenza e colore. Ci conoscevamo tutti e ci consolavamo a vicenda, cercando in un lavoro capillare di avvicinare il più possibile i lavoratori che come noi erano assillati giornalmente da tutti quei problemi che erano la guerra, la fame, lo sfruttamento.
Nel 1942 incominciammo un lavoro sistematico con manifestini, scritte murali, fino al fatidico marzo 1943: il grande sciopero generale.
Giorni d’entusiasmo, di speranza e di timore che si univano con la serena consapevolezza della lotta. Purtroppo durò poco l’euforia e la gioia nell’aver trovato il coraggio nella lotta. Incominciarono gli arresti e dal reparto «Aggiustaggio» ben 15 compagni tra i nostri migliori: Angelini, Simone, la Cortivo, la «Primula Rossa», il capo reparto ed altri subirono circa quattro mesi di carcere. Io me la cavai con otto giorni di allontanamento dalla fabbrica e la destituzione dal mio posto di lavoro.
Arrivò il 26 luglio, tutti rientrarono in fabbrica con tutti gli onori, abbracci e felicitazioni da parte di ognuno di noi. Nei quarantacinque giorni successivi, in fabbrica vi furono le prime riunioni a cui parteciparono operai ed impiegati. Purtroppo i bombardamenti dell’agosto accelerarono il decentramento di una gran parte della fabbrica a Meda, a Galliate ed a Busto Garolfo.
Venne l’8 settembre: la clandestinità. Il lavoro capillare si fece più assiduo: scioperi, scritte murali, manifestini, erano sempre all’ordine del giorno. Qualcuno partì per la montagna come Pippo, Aldo Pozzoni, ed Angelini (quest’ultimo poi ritornò in fabbrica per organizzare assieme alla Coltivo e a tanti altri la raccolta di denaro e vestiario da inviare alle Brigate Garibaldi dell’Ossola). Vi fu anche un grosso movimento di GAP a cui parteciparono molti nostri uomini e ragazzi, come i fratelli Montana, Maggi, Fabiani, i fratelli Gusella, Pareschi, Antonini, Giorgietti, Biagini e tanti altri. Nelle zone decentrate a Meda e Treviglio si crearono dei gruppi attivi per la lotta partigiana con alla testa Cravedi, Beccaluga, Fantoli, Cutta e tanti altri.
Voglio ricordare anche le donne della FACE che diedero un contributo determinante agli scioperi ed alla vittoria finale; l’infermiera Rina, Severina e Gina, le altre dei reparti di produzione, ispezione e montaggio, la cara Giulia che ci guidò con entusiasmo e coraggio in tutti quei mesi. Molti furono anche i lavoratori arrestati ed inviati nei campi di concentramento in Germania (Bianchi, Brusatori, l’ing. Gatta) o rinchiusi nelle carceri (Tamburini che restò per nove mesi rinchiuso nel carcere San Donino di Como e riportò la cecità completa per le percosse subite).
Dopo la strage di Piazzale Loreto nell’agosto 1944, io partii per la Valtellina, partecipando direttamente al movimento di Liberazione quale staffetta collegatrice tra i diversi gruppi che operavano in montagna. Il 2 febbraio 1945 fui arrestata a Varenna sul Lario mentre mi recavo a casa di un’altra staffetta partigiana che fu a sua volta arrestata il giorno dopo. Mi portarono a Lecco e mi torturarono conciandomi da buttar via. Mi portarono poi a Como nel carcere di San Donino dove mi raggiunsero qualche giorno dopo altre due staffette con il comandante della nostra formazione.
Il 24 aprile, dopo un accordo tra il C.N.L. di Como e le S.S. di Cernobbio, ci portarono fuori dal carcere lasciandoci libere. Prendemmo l’ultimo treno per Milano dove arrivammo verso mezzanotte. La mattina presto del 25 aprile, l’Anita che era stata in carcere con me, si recò ad un recapito partigiano portando la notizia della nostra liberazione e della situazione nel comasco. Alle nove suonarono le sirene e si diede il via all’insurrezione. Il 25 aprile coronò tutti i nostri sforzi, le nostre lotte ed i nostri dolori in cui molti avevano lasciato la propria vita.
La Resistenza ha però insegnato ai giovani a lottare, cioè a migliorare le proprie condizioni e conquistare quei diritti che allora erano addirittura irraggiungibili. Terminata la guerra si dovette affrontare tutto il problema della ricostruzione della fabbrica-che durò sei, sette mesi. I problemi erano immensi, C’era tutto da rimettere in piedi. I lavoratori tutti, uomini, donne, operai, impiegati, diedero il proprio contributo alla ricostruzione, organizzandosi in squadre di lavoro. Si procedette alle elezioni della Commissione Interna e del Consiglio di Gestione e nel marzo 1947 venne inaugurato il Cippo ai Caduti nel cortile della fabbrica con la presenza del compagno Umberto Terracini.


Il cippo ai Caduti

Passando con l’automobile difficilmente lo vedi e anche a piedi, seguendo la pista ciclabile, non è cosa facile: è in alto, in un angolo, nascosto da cespugli. Ma c’è, ed è lì da quando lo hanno spostato, perché prima stava da tutt’altra parte, di fronte all’ingresso di quella che un tempo era la Telettra ormai passata di mano. Questa nuova locazione è nel recinto dell’Energy Park, giusto a pochi metri dalla linea di confine tra i comuni di Vimercate e Concorezzo, in provincia di Monza e della Brianza.
È un piccolo bronzo - un uomo che regge una fiaccola appoggiandosi al fusto di un cannone - alto sopra un rossiccio basamento. Ai suoi piedi vi è una lastra e dai fori rimasti si comprende che un tempo vi erano delle lettere, dei nomi. Ad essere sinceri, fino a non molto tempo fa alcuni nomi erano ancora leggibili. Oggi non più. Tutto è scomparso.





 A lato, su lastra metallica si legge:


Ed è stata questa scritta a scatenare la mia curiosità: cos’è successo in viale Bodio il 25 aprile 1945 e perché questo munumento e questa illeggibile lapide sono finite qui?
Faccio ricerche ma non cavo un ragno dal buco (oggi ho capito il perché: era la data 25 aprile 1945 a fuorviarmi).
Cerco aiuto. Una domenica mattina telefono all’ottimo Gigi - in tempi recenti abbiamo scoperto di essere anche parenti: suo nonno paterno, lo zio Fortuna che avevo conosciuto in gioventù, era fratello di mia nonna materna; davvero piccolo il mondo - e a lui chiedo se conosce il mistero nascosto dietro questo monumento. Da persona seria qual’è, Gigi mi risponde: no, non ne so niente però mi informo. Poco dopo mi richiama per dirmi che ha contattato l’attuale presidente dell’Anpi di Vimercate e che lui lo ha autorizzato a fornirmi il suo numero di cellulare per un colloquio diretto, cosa che subito faccio. Al momento, neppure Savino riesce ad essermi d’aiuto, ma di certo la colpa è tutta mia: ero per strada e “le salve del dottor Alzheimer” (una battuta presa a prestito dall’amico Patrick Leigh Fermor) non mi hanno aiutato nel descrivere cosa esattamente andavo cercando.
Il giorno dopo Gigi mi invia un link e sul monitor si apre un fascicolo che porta il titolo Antifascismo e Resistenza alla Face-Standard, Milano, 1945-1985. Lo scarico, lo stampo, lo leggo… e il mistero è risolto, ma quel cippo continua ad essere nei miei interessi.











19 aprile 2022. Ad una mia richiesta Savino risponde con un breve messaggio: domani alle ore 15. Ed io il giorno dopo, alle 14 e 30 sono all’ingresso del palazzo della Nokia, Energy Park. Qui imparo che per evitare complicazioni (leggi green pass e altre invenzioni scaturite dalle fervide menti dei nostri conducator ...e chissà per quali contorte ragioni mi passa per la mente la fulminante battuta di Marinetti rivolta a D'Annunzio: un cretino con lampi d’imbecillità!) tutto si svolgerà all’esterno. E così è stato fatto - e per l’occasione sopra all’ormai illeggibile lapide all’origine delle mie ricerche è stata posta una lastra con i nomi dei dipendenti dell’ex Face Standard morti durante la seconda guerra mondiale, che qui ricordo:

Fante BARLASSINA Pietro, nato l’1.8.1915, caduto sul fronte Greco-albanese il 31.10.1940
Marin. BEROZZI Edgardo, nato il 17.10.1921, morto il 31.8.1943
Part. BONINI Otello, nato a Milano il 30.9.1924, caduto in combattimento a Lodi il 27.4.1945
Fante CASSINA Pietro, nato il 20.2.1922, morto il 14.12.1942
Part. CLERICI Attilio, di Luigi e Valentini Giuseppina, nato a Quinto Romano il 26.10.1921, caduto in combattimento il 20.9.1944, Brigata Oltrepò Pavese
Aviere DELL’ACQUA Domenico, nato il 2.1.1921, morto il 28.4.1942
Aviere FERZETTI Vittorio, nato il 30.4.1921, morto il 16.6.1943
Fante FINI Pietro, 52.mo Regg., 81.mo Battagl., III Comp., nato il 30.6.1922, morto il 4.12.1942
Marin. FINO Luigi, nato il 14.1.1921, morto il 9.8.1943
Part. FRANCHI Carlo, nato il 12.12.1923, morto il 20.2.1945
Part. GATTA ing. Enzo, di Dino e Sacchetti Cesarina, nato a Milano il 4.8.1912, morto a Gusen (Mauthausen) il 28.3.1945
Part. GHIELMI Alberto, nato il 23.10.1916, morto il 29.4.1945
Art. GRASSO Elio, nato il 12.11.1918, morto l’11.1.1942
Fante LEONCAVALLO Carlo, nato il 6.11.1914, morto il 21.8.1942
Marin. MARCHESI Giuseppe, nato a Castelleone (CR) il 5.10.1920, morto nel Mar Mediterraneo il 14.4.1941
Marin. OLIVA Carlo, nato l’1.3.1923, morto il 25.2.1943
Aviere PANIGADA Luciano, nato l’8.3.1910, morto 3.10.1941
Marin. POLLINI Franco, nato il 15.8.1923, morto il 3.2.1943
Part. POZZONI Aldo, di Primo e di Mauri Maria, nato a Milano il 15.5.1909, caduto a Milano il 5.12.1944, appartenente alla 15.ma Brigata Garibaldi, II Divisione Moscatelli
Bers. SANTAMBROGIO Mario, nato il 10.12.1919, morto il 23.11.1940
Part. UGAGLIA Adolfo, nato a Rocca Grimalda il 4.2.1922, fucilato a Bandita Cassinelli (AL) il 27.3.1945, appartenente alle Brigate Giustizia e Libertà, VIII div. Gasparotto
Part. COMI Mario, nato il 30.10.1919, morto l’11.10.1940