Jean COCTEAU. Diario (1942-1945)
A cura di Jean Touzot
Traduzione dal francese di Giovanna
Parodi
Note redazionali a cura di Fernanda
Littardi
Mursia
1993, pp.
358-363
Titolo
originale: Journal 1942-1945
1989
Éditions Gallimard
25 agosto 1944 - Liberazione di Parigi
Mi ero ripromesso di
non scrivere niente prima del grande giorno che abbiamo appena vissuto.
C’era
stata l’attesa. C’era stato il panico dei collaborazionisti preceduto da segni
di morte. Quella di Fernandez[1]
(arresto cardiaco), il suicidio di Drieu La Rochelle (viene salvato),[2] la
morte di Saint-Exupéry[3]
(aviazione inglese) e la notizia ancora dubbia su Malraux, fucilato dalla
Milizia.[4] La
fuga di Bonnard, di Brinon, di «Je suis partout», battezzato «Je suis parti», il treno con la
famiglia Luchaire, le mogli e le figlie dell’ambiente filotedesco. (Il treno
era partito per la Germania con quarant’otto ore di ritardo. Doveva essere
convogliato da Fontenoy. È stato convogliato da gangster di Marsiglia,
Costantini,[5] se non sbaglio.)
C’era
stato il segreto formarsi dei gruppi delle F.F.I.[6] che
occupavano i teatri ufficiali, l’Union des artistes, il C.O.I.C., ecc., dato
che i comunisti avevano occupato tutti i posti ufficiali e tutti i monumenti
pubblici dopo battaglie rapide e decisive. C’era stato lo spettacolo delle
bandiere alle finestre e i giornali nuovi che escono durante le operazioni
militari tedesche. (I tedeschi occupavano gli Invalides, l’École militaire, la
Concorde, il Senato, il Luxembourg, dieci nuclei di resistenza zeppi di
munizioni, di truppe S.S. e di esplosivi.) C’era stata l’apertura delle porte
di Drancy, di Fresnes, e della Santé, grazie all’incessante mediazione del
ministro di Svezia.
C’era
stato il cambiamento di stile alla radio, le buone e le false notizie, l’America
e l’Inghilterra che festeggiavano la nostra completa liberazione, mentre Parigi
si batteva ancora. C’erano state le barricate, le raffiche di mitragliatrice, i
miliziani nascosti che sparavano dalle finestre o dai tetti. L’altro ieri,
andando a pranzo alla Concorde da Sert nel bel mezzo della difesa tedesca,
attraversavamo, Marais, io e Moulouk, una avenue de l’Opéra completamente
deserta e assai sospetta. All’angolo con rue des Petits-champs, una raffica di
fucile-mitragliatore ci fa voltare. A un metro da noi, l’unico passante
visibile incespica e un enorme fiotto di sangue schizza dalla sua schiena. Cade.
Perché lui e non noi? È impressionante sapere che forse eravamo presi di mira
da un occhio misterioso e che l’abbiamo scampata bella. Il capitano Delrue[7] dirà
poi: «Eravate proprio voi ad essere presi di mira. A cento metri, un fucile
mitragliatore è sbandato. Avete sentito fischiare la pallottola? No. Vuol dire
che sparavano su di voi». I parigini non danno segno di paura. Nonostante il
pericolo dei cecchini e delle macchine che sbucano e spazzano la strada, le
donne passeggiano come al 14 luglio. Splendida idea di questa folla libera che
partecipa al dramma, rischiando di ostacolare le operazioni. (I primi carri
armati di Leclerc sparavano in boulevard des Invalides, carichi di donne e
bambini che vi si aggrappavano.) C’erano state le visite e le telefonate degli
uni e degli altri (come va dalle vostre parti?), ecc. Il telefono non ha mai
smesso di suonare. C’era stato perfino l’imbarazzo dei piccoli comitati dei
teatri che volevano fare la parte del tribunale rivoluzionario e mettevano le
crocette davanti ai nomi delle vedette.
Finalmente
l’altro ieri, a mezzogiorno, c’è stata la telefonata di Jacques Fano, l’addetto
stampa del generale Leclerc, che annunciava che il generale sarebbe arrivato in
giornata. Abbiamo saputo poi che il cerimoniale tra francesi e americani (i
francesi diffidano del metodo americano di demolire tutto) aveva fatto
ritardare le truppe. I francesi sapevano soltanto che la città si difendeva
ancora molto e sarebbe stata a corto di munizioni. Furono informati con
esattezza da due gendarmi che andarono in bicicletta ad Antony. La Resistenza
non aveva avuto ordini. I comunisti hanno scatenato la sommossa senza aspettare
gli ordini. La Resistenza di destra non ha partecipato. Da ciò il ritardo delle
truppe che aspettavano. Le truppe hanno fatto duecento chilometri per andare in
soccorso delle F.F.I.
Non
appena abbiamo saputo che i primi americani arrivavano a Notre-Dame, corsi a
dirlo ai Puget.[8] Avevo appena dato la
notizia che le campane di Notre-Dame e di Notre-Dame-des-Victoires cominciarono
a diffonderla ovunque. Spettacolo sublime: il Palais-Royal illuminato dalle
finestre spalancate. Campane, risate, canti. La radio, ancora male organizzata,
di nascosto, sotto l’occhio dei tedeschi, trasmette testimonianze di giovani
sfiniti, che balbettano per la stanchezza e l’emozione. Il servizio è
interrotto continuamente da porte che sbattono. Sono gli inviati delle ultime
novità della strada che entrano ed escono, e le voci si confondono con quelle
dei reporter ufficiali.
Il
giorno dopo, aiutata dai carri armati, l’insurrezione diventa decisiva. In
tutti i quartieri ci si batte sulle barricate. Il primo giorno avevo lasciato
Roger Stéphane[9] davanti al Municipio, dopo
aver visto issare la bandiera francese sulle torri di Notre-Dame, tra una folla
che vendeva e comprava distintivi tricolori. Stéphane, in tre giorni, ha
combattuto al Municipio, è stato ferito al braccio e nominato capitano della
Resistenza (comandante del Municipio). Io non finisco di correre a destra e a
sinistra. Cercando di arrivare dai Labourdette, arrivo in place Notre-Dame,
dove è difficile muoversi. La folla vuol vedere i prigionieri che vengono
condotti in questura. Purtroppo li insultano e i soldati non possono impedire
che la collera del popolo si scateni alla cieca. Mi allontano da questo
spettacolo che non mi piace e mi rimprovero di non essere abbastanza semplice
da trovarlo legittimo. Sul selciato di Notre-Dame scorgo improvvisamente
Moulouk, solo, seduto, abbandonato come nelle Due orfanelle. Paul forse l’aveva perso al Municipio. Per lui è
molto naturale ritrovarmi e lo porto dai Labourdette.[10]
Vado
a vedere De Gaulle che arriva al Municipio. Arriva su una piccola macchina scoperta,
con grande semplicità. Compare alla finestra sull’estrema destra, perché il
Municipio non ha balconi né finestre tra le colonne. La folla lo distingue
male. Sale sul parapetto della finestra e fa dei grandi gesti familiari con le
braccia. Applausi. Lo stile è perfetto, antidittatoriale e mi fa pensare alla
frase che mi ha detto una volta Lyautey: «Non sono un militare. Sono un
soldato». Difficoltà di non essere né legittimato né dittatore, né nominato dal
suffragio universale. Difficoltà di arrivare da fuori, solo, sostenuto soltanto
da un sogno.
De
Gaulle è altissimo, molto magro, in lui tutto si vede: il naso, gli occhi, le orecchie, i gesti. È un divo. Un
pezzo grosso. Non c’è dubbio. Porta la divisa kaki con due stelle.
Nulla
di più strano di questa città in festa e che si batte. A Parigi, le cose vanno
a fasi, a mode: la guerra dei tetti. Le donne rasate, ecc... Fantomas, Belfagor
e i film hanno educato una generazione violenta. I nostri amici vanno in giro
con fucili o mitra. Ci si separa, ci si ritrova, ci si riperde. Paul, il mio
segretario, che rifiuta di portare bracciali e armi, si intrufola in tutti gli
attacchi ai monumenti ed entra per primo all’hôtel Crillon e all’Ambasciata
americana. Il Crillon, crivellato dalle granate, resta in piedi, tranne una colonna
(la gente la chiama la quinta colonna).
La
guerra dei tetti si fa sempre più subdola. Sparano ovunque. (Era una di quelle
cicogne funeste[11] che l’altro giorno ci
aveva presi di mira in avenue de l’Opera.) Sparano dai tetti del Palais-Royal.
Quelli che rispondono sparano a caso nei vetri.
Il
giorno dopo,[12] mattinata di sole e di
bandiere. L’aria leggera, la folla leggera. Si rivedono dei volti. Non se ne
vedevano più. Andiamo da Maxim’s a mettere le bandiere e a prenderne per la
casa. Nel pomeriggio assistiamo a una sfilata da una finestra dell’hôtel
Crillon. De Gaulle cammina tra i carri armati e i ragazzi del popolo che si
tengono per mano. E il simbolo del suo programma. Una folla immensa (quasi
tutte le donne vestite di bianco, blu e rosso) brulica in piace de la Concorde
fin sulle statue.
Improvvisamente
si scatena il dramma. I tiratori dei tetti cominciano. I carri armati allineati
davanti all’hotel rispondono e bombardano. La mia sigaretta è spezzata a metà
in bocca. Jeannot e Paul rifiutano di andare via dalla camera sulla facciata.
Si buttano a terra, si rialzano e lasciano spuntare la testa dal balcone.
Vengono scambiati per cecchini e i carri armati rispondono. Nello stesso
momento, a Notre-Dame sparavano sul generale De Gaulle e su alcuni punti del
corteo.
Come
mai non erano state ispezionate le torri di Notre-Dame da cui i misteriosi
cecchini sparavano da tre giorni? Il custode delle torri, interrogato,
risponderà: «Le torri sono delle catacombe» (sic). Parigi è attraversata da macchine F.F.I. con la croce di
Lorena; sono state più o meno requisite e sono cariche di giovani con bracciali
e rivoltelle. E così vedo sbarcare a casa Goddet (capitano) e il figlio dei
Capgras.
Le
false notizie circolano in fretta come queste automobili pericolose: le teste
di tutte le attrici sono state rasate a zero. Hanno arrestato tutti gli scrittori,
ecc. Arresto di Sacha Guitry,[13]
condotto al municipio della VII circoscrizione parigina, poi alla polizia
giudiziaria, poi alla prigione della Santé!
Le
donne rasate, tutte nude, trascinate con una catena al collo, insultate,
picchiate da altre donne che di certo hanno fatto di peggio. Spettacolo vergognoso.
Donne
innocenti e rasate vengono condotte al Municipio. Non hanno il coraggio di
rimetterle fuori. Le ospita Roger. Vi resteranno sino a quando i capelli
saranno ricresciuti.
Immagino
un prigioniero che ritorna con i capelli lunghi e trova la moglie con i capelli
a spazzola.
Parigi
ribolle, fermenta, prepara gli esplosivi. Lo slancio viene meno e lascia il
posto ai piccoli rancori, ai garbugli, ai numerosissimi asti individuali.
Prima
ondata. I nostri compagni, tanto liberi nell’oppressione, si trovano oppressi
in libertà. La loro resistenza segreta diventa un regime sottomesso a leggi,
bolli sui manifesti. Tra poco si metteranno di nuovo a lavorare segretamente
contro un ordine che li paralizza. Verrà un’altra ondata e li sommergerà.
Éluard - perfetto nella sua nobiltà, ma con una gioia infantile per il trionfo
della sua causa - mi dice: «Hemingway ha mandato una macchina e lei è stato a
fargli visita al Ritz. Non doveva andarci. Ha scritto contro la Spagna. Se i
comunisti sapessero che è andato a trovarlo, se la prenderebbero con lei».[16] Non
ho quindi tanto torto a temere un rimprovero di «collaborazione americana».
Dai
miei conciliaboli con gli uni e con gli altri, risulta che l’unica posizione
nobile è l’estremo riserbo, il silenzio, le vecchie e fedeli amicizie.
Da
Picasso. È il re, e giustissimo. Dopo la tempesta, lo trovo nei suoi magnifici
antri da leone. Sta finendo una testa di donna sul libro che gli scrittori
della Resistenza offrono al generale De Gaulle. «Le cose non cambiano mai»
mormora strizzando un occhio, «il nostro regno non è di questo mondo.» Parla
sottovoce, perché la minima cosa detta viene ripresa, ripetuta, volta a nostro
danno. «Dare un colpo di spugna» fra tutte le frasi è quella che viene
perdonata più difficilmente. Ed è giusto. Troppi hanno sofferto, troppi hanno
subito le torture tedesche.
La
Milizia sparava dai tetti. Le F.F.I. sparano alle gambe. Ieri, trentuno agosto,
Fargue mi telefona che è appena uscito un omaggio di fedeltà al regime, firmato
dai sette membri rimasti francesi
dell’Académie Mallarmé. I nostri nomi non ci sono.[17]
Mondor,
Charpentier cedono. Dicono che non è colpa loro, e accusano il giornale di aver
travisato il testo. Suppongo che, improvvisamente imbarazzati dall’enormità di
questo gesto criminale che equivale, in negativo, a una denuncia, tentino di
circondare questo verdetto di un ridicolo mistero. Il giorno dopo[18]
hanno aggiunto il mio nome e quello di Fargue.
Ho
preso una decisione. Ho detto a Jacques Fano, venuto a cena con me ieri, e ad Éluard, stamattina, che non farò mai neanche un passo, non farò neppure una
telefonata e metterò tra le mani di Éluard e di Sartre il mio nome, che stanno
cercando di disonorare.
Cosa
mi viene rimproverato? Di essere amico di Arno Breker. Certo, conosco Breker da
molto tempo. Ha continuamente messo a disposizione di Hitler il suo potere, a
servizio della Francia. Ha salvato moltissimi prigionieri, perorato la nostra
causa, ha impedito che ci trattassero come la Polonia. Non mi aspettavo niente
da quell’articolo su Breker, perché ho sempre rifiutato che intervenisse per
interrompere la campagna stampa che mi ha infangato. Giraudoux doveva il
silenzio a Ribbentrop. Spesso mi consigliava di imporre il silenzio stampa
mediante Breker. Breker si era offerto di farlo. Avevo rifiutato rispondendo
che la fierezza me l’impediva e che mi rallegravo di essere infangato dalla
stampa collaborazionista.
Per
di più trovavo nobile parlare di un amico nemico come di un amico alleato.
Attualmente l’articolo sovrasta tutto. Nessuno tiene conto degli insulti, della
rovina dei Parents terribles e delle
bombe lacrimogene in sala, della censura della Machine à écrire, del mio rifiuto di salutare la bandiera della
L.V.F. e dell’aggressione che per poco non mi ha reso cieco. Conta solo Breker,
l’articolo su Breker, l’amicizia con Breker, il solo atto che riuscirà a farmi
impiccare.
Meraviglia
di un’amicizia nata da un lungo odio. Éluard si accanisce a difendere la mia
causa e, nonostante la lettera così dura dopo l’articolo su Breker, pensa che
pochi dei nostri amici avrebbero avuto il coraggio di non togliersi il cappello
in mezzo ai membri del P.P.F. Ecco a che punto siamo. La coerenza profonda di
un individuo non lo discolpa, importa solo mettere dei fatti sulla bilancia.
Perché
dovrebbe cambiare il destino di un poeta? Il mio regno non è di questo mondo e
il mondo ce l’ha con me perché seguo male le regole. Soffrirò sempre per la
stessa ingiustizia. Scateneranno sempre gli scandali, che detesto, accusandomi
di desiderarli ed esserne l’istigatore. Di certo il mio angelo mi protegge
facendomi commettere degli sbagli che mi salvano dall’azione diretta e dalla
vertigine dell’attualità![19]
Ed
eccoci al 31 agosto. Le piccole Gip[20]
degli americani trasportano le donne, come le carrozze delle giostre. I nostri
amici organizzano dei cocktail. Al Ritz liberato, gli ufficiali americani
pranzano con donne da marciapiede. Una grande gioia che si doveva provare non
riesce a superare, dentro di me, strati di imbarazzo e tristezza. Hanno
guastato la gioia. I parigini credono che la guerra sia finita. Incomincia.
Sarà feroce. Due notti fa, i tedeschi hanno bombardato Parigi con le bombe al
fosforo e hanno incendiato la Halle aux vins.[21] Ce
lo ha raccontato Picasso, più vicino di noi al disastro.[22]
Bruciava tutto, alberi, pietre, acqua, in un incredibile silenzio. Tutta la città
era illuminata da una luce d’alba, e il calore minerale, sconosciuto, del
fosforo accompagnava questo grande bagliore immobile, piatto, color rosa tea.
Nel
Palais-Royal c’era l’ombra degli alberi immobili e questo bagliore al suolo. E
durava. Non cambiava intensità. Durava tutta la notte. Il disordine organizzato
degli americani si oppone allo stile della disciplina tedesca, la sconvolge, la
disorienta. I combattimenti terminano nello sbandamento, ma le perdite, ancora
ieri, alle porte di Parigi sono state pesantissime.
[1] Ramon Fernandez (1894-1944), romanziere
(Le Pari, 1932), saggista (Marcel Proust, 1943, e Balzac, 1944), membro influente della
«N.R.F.» e delle edizioni Gallimard. Apparteneva al Comitato politico del
P.P.F. doriotista e collaborava al «Cri du Peuple».
[2] Riproverà, con esito positivo, il 15
marzo 1945.
[3] Il 31 luglio, durante un volo di
ricognizione tra la Corsica e le Alpi.
[4] Ferito e fatto prigioniero il 22
luglio, viene imprigionato a Tolosa.
[5] A proposito di Pierre Costantini (nato
nel 1899), cfr. Pascale Ory, Les
Collaborateurs, 1940-1945, Parigi, Ed. du Seuil, collana «Points», 1976,
pp. 96-98. Fondò la Lega francese di epurazione (nel 1941), un piccolo gruppo
che si alleò con il P.P.F.
[6] Le F.F.I.
sono le «Forces francaises de l’Intérieur». (N.d.T.)
[7] Ufficiale della divisione Leclerc,
Jacques Delrue determinò l’arruolamento di Jean Marais nella seconda divisione
blindata.
[8] Vicinissimi: abitavano in rue de
Montpensier.
[9] Pseudonimo di Roger Woorms, nato nel
1919. R. Stéphane, che conosceva Jean Cocteau già da qualche anno, non ha
ancora pubblicato nulla. Giornalista e produttore televisivo, realizzerà nel
1963 un eccellente Portrait-Souvenir
dedicato a Cocteau.
[10] I genitori di Elina Labourdette (nata
nel 1919; fu protagonista della Dames du
Bois de Boulogne); abitava in rue Chanoinesse.
[11] La cicogna era una specie di aeroplano
da ricognizione. (N.d.R.)
[12] II 26 agosto.
[13] Il 23 agosto.
[14] Romanziere (La Japonaise, 1931) e giornalista; Jean Cocteau l’aveva incontrato
alla fine del suo giro del mondo (Mon
premier voyage, p. 366). Scriveva sui giornali collaborazionisti tra cui
«La France au travail».
[15] «Desmarets liberato questa sera» (nota
di Jean Cocteau).
[16] Giunto a Parigi il 25 agosto, con
l’avanguardia della 2a Divisione blindata, nonostante la proibizione del generale Leclerc fattagli a Rambouillet,
Ernest Hemingway (1899-1961), corrispondente di guerra, si stabilisce al Ritz
e riprende contatto con i suoi amici. Sul «rapimento» di Cocteau, possiamo
citare la testimonianza di R. Lannes: «Quando arriviamo da Cocteau, vediamo la
polizia che irrompe e lo stesso Cocteau sequestrato dentro una macchina assai
misteriosa. Abbiamo un momento di grande emozione, ma, una volta tornato a
casa, Marie-Laure de Noailles mi telefona dicendo che ha incontrato Jean che
giocava al soldatino su un carro americano in compagnia dei divi del cinema»
(frammento del 27 agosto 1944).
[17] In un foglio del diario, datato 31
agosto, Lannes designa quali responsabili di questa «manovra perfettamente
ignobile, gli elementi più ridicoli dell’Académie Mallarmé: gli Charpentier e i
Fontainas che hanno fatto firmare a Valéry e a Mondor un manifesto detto dei
“cinque rimasti francesi”».
[18] Questa frase sembra un’aggiunta, messa
di traverso sulla pagina di sinistra. Ne «Le Figaro» del 2 settembre, il
comunicato dell’Académie Mallarmé porta infatti i nomi di Jean Cocteau e di
L.-P. Fargue. Il testo è riportato nella biografia di J.-J. Khim, E. Sprigge e
H.C. Béhar, p. 290.
[19] Nel manoscritto è stata cancellata una
riga: «Mauriac nelle lettere, Salacrou nel teatro, mi perseguitano».
[20] Oltre a testimoniare uno sforzo
immediato di assimilazione, questa grafia - meglio di Jeep - permette di conoscere la sigla originale «G.P.», iniziali di
general purpose, cioè «macchina
tuttofare».
[21] Nella notte tra il 26 e il 27, la
Luftwaffe aveva bombardato Parigi. Oltre alla Halle aux vins, era stato
duramente colpito l’ospedale Bichat.
[22] Nelle ultime settimane
dell’Occupazione, Picasso, per prudenza, aveva lasciato l’atelier della rue des
Grands-Augustins, per sistemarsi da Marie-Thérèse Walter, sua ex amante e madre
di Maïa, che abitava in
boulevard Henri IV.
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