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giovedì 5 gennaio 2017

Elio Vittorini, Ginetta Varisco e Gregor von Rezzori




Il tempo passa e “le salve del dottor Alzhaimer” - per usare le parole di Patrick Leigh Fermor, che così definiva “i colpi di amnesia” - sono sempre più frequenti.
Sono giorni che vago fra gli scaffali di casa alla ricerca del libro in cui si racconta delle italiche vacanze estive del suo autore in compagnia di Elio Vittorini e della sua compagna Ginetta Varisco. Chissà perché, l’istinto mi conduce alla voluminosa raccolta delle Cronache mediorientali di Robert Fisk. Ricerca inutile.
Ho ripreso Edgar Morin, ma anche qui niente di niente.
Poi …forse Gregor von Rezzori? Riapro Sulle mie tracce, un libro a suo tempo raccattato “a nuovo” su di una bancarella e da me letto più volte: l’autore parla di molti suoi amici italiani, ma di Vittorini non trovo traccia.
Che dire? Me ne faccio una ragione: in fin dei conti in giro c’è gente che ha problemi ben più grandi del mio (l’amnesia, ovviamente). NOTA aggiunta il 15.12.2020: eureka! ho trovato.


Il perché di tutto questo accanimento è subito detto: Vittorini condivise parte della sua vita con Ginetta Varisco, figlia di un uomo che fu sindaco di Concorezzo e in questo paese, in gran segreto, Elio Vittorini trovò nuova sepoltura nella tomba di famiglia di Gio. Battista Varisco, il padre di Ginetta.
Ecco: mi sarebbe piaciuto trovare quelle pagine dove una terza persona racconta del tempo passato in loro compagnia, anche se ho la certezza che questo mio momentaneo insuccesso avrà un riscatto: prima o poi quelle pagine arriveranno “di loro spontanea volontà” sotto ai miei occhi. Già tante volte è successo… e mi consola [far di necessità virtù] leggere quanto scrive von Rezzori nel già citato buon libro, edito da Ugo Guanda nel 2008:

Essere sulle tracce di se stessi è un’impresa rischiosa, si mettono a nudo cose che si nasconderebbero volentieri a se stessi, e figuriamoci poi agli altri. Confessare qualcosa dinanzi a se stessi è già abbastanza imbarazzante; il decoro vieta di farlo dinanzi agli altri. Ricordo un episodio molto istruttivo che sta in un libro di Dostoevskij, non so più in quale. Dostoevskij è uno degli autori che ho letto in un’epoca in cui, tormentosamente conscio della mia ignoranza, cercavo di colmare le mie lacune leggendo a man bassa «I Cento Grandi Libri della Letteratura Universale che ognuno deve conoscere». Il compagno Fédor Michajlovič, che è uno dei più importanti della compagnia, lo consumai integralmente in un’unica seduta, e mi si perdonerà se oggi non riesco a estrarre dall’insalata russa che mi è rimasta nella memoria i singoli bocconi con tanto di denominazione d’origine.

Il libro di von Rezzori finisce con delle riflessioni che in parte si ricollegano a momenti della mia vita: Bruce Chatwin e l’India, terra da me amata e percorsa in lungo e in largo. Da solo il più delle volte, o meglio ancora: da solo, sì ...ma in compagnia di un miliardo di persone.

Scrivo queste ultime pagine il 13 maggio 1997, nel giorno del mio ottantaquattresimo compleanno. Dopo una primavera freddissima finalmente è arrivato il sole. Grazie alla severa educazione venatoria impartitami dalla buonanima di mio padre, per tutta la vita non mi sono mai curato delle condizioni climatiche: né freddo polare, né caldo tropicale mi hanno mai disturbato - neanche la scarsità del cibo degli anni durante e dopo la guerra; piuttosto la cattiva cucina delle madri di famiglia tedesche, Priska compresa. Adesso invece le mie vecchie ossa stanno bene al calduccio: il mio ideale è un sonnellino pomeridiano - in italiano un pisolino - avvolto in morbide coperte e con il mio carlino più anziano sulla pancia. Saranno abitudini dell’età. E poi ci sono i malanni della vecchiaia: da un po’ registro una difficoltà a leggere e a scrivere. Ce l’avevo avuta anche durante la mia trascurata giovinezza, ma l’avevo superata con l’esercizio. Adesso si è ripresentata, ed è una difficoltà non più psichica, cioè dovuta alla pigrizia, bensì eminentemente meccanica: nel mio campo visivo si è insinuato qualcosa che ricorda nella forma il coccodrillo delle magliette Lacoste e che precede il mio sguardo divorando le righe prima che io arrivi a decifrarle fino in fondo. Quando scrivo, non è così grave; ma io leggo volentieri, sono il migliore lettore dei miei colleghi. Così mi sono risolto ad andare dall’oculista, a Firenze. «Niente di grave» mi ha detto. «Un fenomeno dell’età.» Ma che si crede? Ernst Junger e Zsa Zsa Gabor sono molto più vecchi di me e sicuramente non sono importunati dal piccolo coccodrillo di Monsieur Lacoste. Sia opera dello «Spirito del mondo» di mia zia Hermine o della «Provvidenza» di Adolf Hitler, è un fatto che i beni della vita sono distribuiti in modo nient’affatto equo.
Non voglio certo ribellarmi, ma nemmeno farmi imporre senza protestare ciò che questo grandissimo stronzo, l’onnisciente, l’onniprevedente, l’onnigiusto rifugio di tutti i creduloni, ha deciso per me. So fino a che punto sono stato vissuto al di sopra e al di là di me - destino che, con mio grande scorno, condivido con tutti i miei contemporanei. Ma so anche quale tonalità ho dato, a questa vita vissuta, con il diapason del mio io (ma questo io era davvero io-determinato o già da subito nelle grinfie dell’onnipotente? Piccolo contributo al tema del libero arbitrio). Purtroppo, in quanto corresponsabile del mio destino, non posso accollare a quella potenza tanto citata tutto ciò che ha impedito alla mia vita di evolversi all’insegna dell’armonia (anche se avrei a disposizione ottime scuse per farlo). Comunque sia, gli acciacchi fisici non vanno certo addebitati sul mio conto personale: è il Creatore, nella sua insondabile saggezza, che me li ha attribuiti. Se fossi un uomo pio direi: «Affinché io non goda troppo le delizie della tarda età».
Io sono, come si dice, un robusto vegliardo. Tutti quelli che mi vengono a trovare si stupiscono di quanto sia ancora vivace intellettualmente. Partecipo attivamente a quanto accade intorno a me, leggo il giornale con una certa regolarità. Ogni tanto, nelle dolci ore del mattino, capita che, per rispetto della mia tarda età, invece di precipitarmi giù dal letto per mettermi subito al lavoro, io rubi al vortice degli impegni quotidiani un po’ d’ozio e mi dedichi a un gioco che richiede una concentrazione pari a quella necessaria a risolvere un dilemma scacchistico: la decifrazione della politica italiana. Di giorno in giorno cresce in me l’ammirazione per l’abilità dei politici che, fingendosi drammaticamente impegnati a lottare per la res publica, tessono in realtà tutta una trama di lotte per il potere che non ha nulla a che fare con il bene dello stato o del popolo, ma serve ad accrescere proporzionalmente la partecipazione dei singoli partiti alla spartizione del bene pubblico. Così facendo, il potere diventa una sorta di astrazione che se da un lato non favorisce certo il benessere del popolo, dall’altro non lo danneggia più di tanto. È uno straordinario esempio di democrazia che mi fa ben sperare nel futuro che non vedrò. I rieducandi di Wilton Park sarebbero dovuti venire a scuola qui. Quanto a me, non ho più bisogno di sognare utopie. Comunque non serve a molto che io mi attacchi al giornale come a un’ancora per non andare alla deriva nell’apatia della vecchiaia. Non posso più farmi carico del destino del mondo, è troppo il peso del passato che mi trascino dietro, per quanti sforzi faccia di liberarmene. Invece non mi libero della mia ironia, al contrario. L’invecchiamento è un processo pieno di seduzioni, la benedetta distanza dagli eventi, che vado conquistando, comprende anche me stesso. Con lo stesso ghigno sarcastico con cui accolgo i fatti del giorno in tutta la loro grottesca contraddittorietà, guardo anche al progressivo calo del mio interesse per queste cose. Non diventerò mai un buon lettore di giornali. Come potrei non meravigliarmi del fatto che l’Unione europea, pur essendo nient’altro che una costruzione burocratica, diventi una realtà, quando vedo sempre più chiaramente come le nazioni, una dopo l’altra, si spacchino nelle loro diverse componenti etniche, ciascuna delle quali reclama a gran voce la propria autonomia? Bossi proclama la Padania libera, la Serenissima vuole che Venezia si autoamministri, i gallesi si sciolgono dall’Inghilterra dopo che gli scozzesi lo hanno fatto già da tempo. Intanto Waigel mette a repentaglio l’economia tedesca pur di introdurre la moneta unica. Mon cul. Non dovrei scuotere il capo desolato vedendo la nazione americana che davanti al suo presidente intento, come un borghesuccio qualsiasi, a fare affari con le lobbies, compresa quella cinese, non batte ciglio, ma poi freme di sdegno se quello stesso presidente tocca il culo a una segretaria? No, l’unica cosa da prendere sul serio è la sezione del Pitaval intitolata Morte e distruzione, che interessa un numero sempre crescente di giovani. Evviva i giovani! Le piccole tragedie quotidiane: giovane disoccupato uccide per disperazione moglie e figli. Quanto è più reale questo rispetto all’angosciosa domanda se un tribunale riuscirà mai a dimostrare ciò che da cinquant’anni chiunque ritiene di sapere sul conto di Andreotti!
La distanza tra me e il presente diventa ogni giorno più grande: davanti a un computer sono come l’asino in mezzo ai suoni. Il compagno Kasparov è stato battuto agli scacchi da una macchina, una macchina che in un secondo è in grado di elaborare non so quanti calcoli. Evviva! Sarà più facile calcolare la potenza esplosiva della bomba al cobalto, o la possibilità di clonare soldati (come il mio amatissimo «fratello tedesco» con la coccarda nera, bianca e rossa sul chepì), o cose del genere. Quello che, personalmente, potrebbe riguardarmi un po’ di più è il tramonto della civiltà orientale nel gorgo del progresso occidentale. Mi dispiace. Lo so: al cospetto della televisione la giovane lepre di Dürer si allontana a balzelloni, rassegnata. Non piangerò per lei, di cultura mi sono occupato fin troppo. J’en ai soupé.
Con Beatrice questa mia moderna barbarie devo nasconderla: lei appartiene alla schiera abbastanza nutrita di quelli che mi agitano sotto il naso l’insegna dell’arte, e dunque, discorsi di questo genere è bene che io li eviti. L’importante è che io sia avveduto e obbediente sotto altri riguardi: per esempio, scorpacciate di India. È naturale che, in qualità di contemporaneo, abbia dato anch’io il mio contributo al turismo mondiale. Bruce Chatwin era nostro amico; non abbiamo mai fatto un viaggio con lui, ma in compenso abbiamo introiettato scrupolosamente le avventure di viaggio di tutti i suoi illustri predecessori, da Richard Burton a Robert Byron. Ne sono venuti fuori giri turistici dall’Etiopia all’Alaska, dal Giappone al Kashmir, prima che anche laggiù cominciassero a sparare. Il mondo era più romantico senza le piramidi di teschi della Cambogia e le sparatorie dell’Afghanistan e con minore traffico di autobus a Katmandu. Più variopinto e più folkloristico. Ormai non è più quasi da nessuna parte quello che era stato prima di me. Le mandrie di zebre della pianura del Serengeti erano state cento volte più numerose, il cielo di Kyoto non era stato livido di smog. Per questo è diverso il senso di colpa collettivo che porto in me.
Non amo la mia razza, la razza bianca che più di tutte ha colpa se il nostro tempo è diventato un non tempo. Dappertutto progresso, e la giovane lepre di Dürer ne è morta soffocata. Eppure, l’odio mi ha abbandonato. Vedo i miei poveri contemporanei più giovani piegati sotto una grandine di informazioni che ha il solo scopo di ricordare loro che la fine è vicina. Meritata, immeritata, provocata... Che vuol dire? Noi veniamo vissuti. Il Dio degli eserciti saprà quello che fa. Quanto a me, sono un Epochenverschlepper, pratico il «differimento epocale» e mi accontento di una piccola vita biedermeier. Amo questa casa in Toscana, amo la mia Beatrice. Insieme guardiamo pieni di fiducia e di speranza al futuro, e al mio prossimo libro: finalmente una vera biografia.

 LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI

Ortigia (Siracusa)
la casa natale di Elio Vittorini






Concorezzo (MB)
La tomba di Elio Vittorini e di Ginetta Varisco






sabato 31 maggio 2014

Il Mani, Patrick Leigh Fermor e Bruce Chatwin


IL MANI. Per la gente del Peloponneso Mani è il nome dello stretto dito di terra che separa Kalamata e Gythio da Capo Tenaron. Alta sul mare domina la catena montuosa del Taygetos; per secoli, le sue impervie forre hanno offerto ai manioti riparo dai barbari arrivati dal mare. È terra arida, da capre, e il poco spazio disponibile ha costretto a vivere in stretta coabitazione, un’ottima ragione per scatenare feroci lotte tra clan, a turno assediati all’interno delle case-torri che affratellano queste terre alla caucasica Svanezia.
I primitivi abitati del Mani si sono sviluppati in collina e Kardamyli - località tanto vecchia da essere citata da Omero - non fa eccezione. Oggi l’antica cittadella è rappresentata dal complesso eretto a cavallo tra il 17° e il 18° secolo dal kapitanios Panayotis Troupakis: un palazzo, la chiesa di Agios Spiridon e la piazza fortificata. Poco lontano due tombe - di cui una con ossa umane in vista - e la fonte dell’acqua.
Estremo sud del Mani “interno” - nonché seconda punta continentale più meridionale d’Europa - Capo Tenaron (Capo Matapan, per gli italiani) propone le sue gemme: il minuscolo tempio di Poseidone e un mitico ingresso all’oltretomba.

PATRICK LEIGH FERMOR. La carriera di “viaggiatore” di Patrick Leigh Fermor comincia il 9 dicembre 1933, quando lui - nato l’11 febbraio 1915 - è ancora nel diciottesimo anno d’età. Messo in spalla lo zaino che fu di Mark Ogilvie-Grant - compagno di viaggio di Robert Byron nel viaggio sul Monte Athos - e vestito un vecchio cappotto militare, dal Corno d’Olanda (Hoek van Holland) s’incammina verso Costantinopoli (come si chiamava allora) per “cambiare scenario, lasciare Londra e l’Inghilterra e attraversare l’Europa come un vagabondo - o, come dissi tra me e me, come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante, un cavaliere povero o leroe di L’amore e il chiostro!”.
Se la prende comoda. A casa ritorna nel gennaio del 1937, dopo aver attraversato l’Olanda, la Germania che iniziava a innamorarsi di Hitler, la pianura ungherese, la Moldavia, i Carpazi, calpestato le strade della capitale turca e frequentato i monasteri del Monte Athos (gennaio-febbraio 1935).
Nel ’39 è tempo di guerra. Avendo studiato greco antico, l’Intelligence britannica arruola Leigh Fermor col grado di ufficiale di collegamento dislocato presso il quartier generale greco. Paracadutato a Creta, con l’aiuto di William Stanley Moss e di alcuni partigiani di Anogia, il maggiore Fermor (Michalis per i suoi amici greci) organizza un colpo di mano che ha dell’incredibile: vestito da soldato tedesco si mette in mezzo alla strada e poco prima di Knossòs blocca l’auto del Generalmajor Kreipe, il comandante tedesco della divisione Sebastopol. Con questa coraggiosa e incruenta cattura, Leigh Fermor entra nel cuore dei greci, popolo che a guerra conclusa non esita a conferirgli importanti onorificenze. Londra gli riserva il titolo di baronetto.
A suo modo, anche Hollywood decide di ricordare le gesta di Fermor a Creta: nel 1957 esce sugli schermi Night Ambush (Colpo di mano a Creta in Italia), con Dirk Bogarde nella parte di PLF, un film tratto da Ill Met By Moonlight, libro scritto dal citato Moss e pubblicato nel 1950 da George G. Harrap. Per la sua prima edizione italiana si deve aspettare il 2018, quando esce da Adelphi col titolo Brutti incontri al chiaro di luna, sottotitolo: Il rapimento del generale Kreipe.
Nel dopoguerra, Leigh Fermor riprende a vagabondare, stavolta in compagnia di sua moglie Joan. Sono di questo periodo le sue escursioni nel Mani - in parte a piedi e in parte su caicchi - e fra le isole dei Caraibi.
Tra un viaggio e l’altro trova il tempo di raccontare le sue esperienze in libri ormai considerati dei classici della letteratura. Al pubblico italiano Fermor arriva col contagocce: da Garzanti esce nel 1957 L’albero del viaggiatore (orrendamente tradotto) e poi basta fino al 2004, anno in cui Adelphi pubblica Mani. Viaggi nel Peloponneso (uscito in lingua originale nel 1958), riepilogo di una serie di viaggi fra terra e mare, realtà e storia, miti e leggende.
Cinque anni dopo da Adelphi esce Tempo di regali. A piedi fino a Costantinopoli. Da Hoek van Holland al medio Danubio, traduzione di A Time of Gifts (1977). Il continuo di questo viaggio, Between the Woods and the Water (1986) Adelphi lo pubblica nel 2013 col titolo: Tra i boschi e l’acqua. A piedi fino a Costantinopoli. Dal medio Danubio alle Porte di ferro. La trilogia si conclude nell’aprile del 2015, quando Adelphi pubblica La strada interrotta. Dalle Porte di ferro al Monte Athos (titolo originale: The Broken Road. From the Iron Gates to Mount Athos), con una interessante Introduzione di Colin Thubron e Artemis Cooper datata primavera 2013.
Buon ultimo, nel giugno 2021 da Adelphi esce Rumelia. Viaggi nella Grecia del Nord, traduzione italiana di Roumeli. Travels in Northern Greece del 1966.

BRUCE CHATWIN. A Nizza, il 18 gennaio 1989 la morte ci ha privato della stringata prosa di Bruce Chatwin. L’accattivante descrizione di alcuni dei suoi viaggi - con grande utilizzo della fantasia e tanto, tanto lavoro in sede editoriale, come raccontato dal suo editor Susannah Clapp in Con Chatwin, Adelphi 1998 (da leggere) - l’ha fatto diventare, suo malgrado, l’icona dell’homo viator dedito alla ricerca e conoscenza, vagante per il mondo con zaino, scarponi, penna e moleskine da riempire con appunti e disegni.
Scrive: “la vera casa dell’uomo non è la casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi”. Si sposta attraverso i continenti “con irrequieta erranza e con l’orrore del domicilio”. Per Chatwin i viaggi “non arricchiscono la mente, ma la creano”. Poi, nel privato, si riempie di debiti per acquistare case in campagna e appartamenti in città.
Diventa famoso col libro In Patagonia, uscito in Inghilterra il 14 ottobre 1977. Il libro successivo, Il viceré di Ouidah, appare il 23 ottobre 1980, anno orribile per Chatwin: stancatasi del ménage omosessuale del marito, Elizabeth, la moglie americana, lo caccia di casa, rifiutandogli, perché cattolica, il divorzio. Si aggiunga: le mani bucate di Bruce rendono necessaria la vendita di Holwell Farm, la casa acquistata nel 1966 grazie all’aiuto dei genitori di lui, di lei e di tanti debiti con le banche. Ci riescono nel 1981, in cambio di 170 mila sterline: Diedi a Bruce 50.000 dollari ricavati dalla vendita per comperare il suo appartamento di Eaton Place (Londra) dice Elizabeth. Lei opta per una nuova casa di campagna - Homer End, Ipdsen, Oxford - dove andare vivere con le sue amate pecore mentre lui, staccato un grosso assegno al suo architetto John Pawson perché gli sistemi l’appartamento londinese, vola in Kenya con Donald Richards, il suo compagno.
Sulla collina nera, il libro successivo, esce nell’autunno del 1982 e a novembre vince il premio Withbread per la categoria romanzo d’esordio. Decisione discutibile: i giudici non avevano considerato In Patagonia e Il viceré d’Ouidah opere narrative. Subito dopo Chatwin entra al St. Thomas’s Hospital per un intervento chirurgico, dovuto forse alle emorroidi o connesso al suo “orrendo disturbo di pancia” che da tempo l’affligge. Ne esce fortemente debilitato e per recuperare le forze il più lontano possibile dall’odiata Inghilterra il 19 dicembre raduna i fogli di Alternativa nomade e parte per l’Australia.
Sempre alla ricerca di un luogo tranquillo dove continuare la stesura del libro australiano, nel mese di gennaio del 1984 sverna nel sud, in Grecia. L’appartamento che Charles Haldeman, un amico americano, aveva a La Canea non è più disponibile (mentre Charles era ad Atene, a La Canea il suo ragazzo, un bellissimo giovane cretese, presa un’accetta aveva spaccato la testa ad Allen Bole, un omosessuale americano amico di Chatwin) quindi è necessario spostarsi altrove. Non molto distante, nel Peloponneso, abitano Patrick e Joan Leigh Fermor, ed è da loro che Bruce cerca e trova gratuita ospitalità.
In verità, nell’84 a Kardamyli Bruce ci rimane per poche settimane - a febbraio è già in Sud Africa, a Pretoria, ospite di Bob Brain. Ben più lunga è la sua permanenza nell’anno successivo. Come sempre arriva verso la fine di gennaio e per due mesi è ospite nella casa dei Fermor. Buoni sì, ma non coglioni recita un vecchio adagio - o per meglio dire, come sbottò un nobile spagnolo, amante di Bruce: ha la fama di grande viaggiatore, ma quando ti si piazza in casa poi non lo mandi più via - nel mese di aprile Chatwin trasloca all’Hotel Theano, una struttura distante alcune centinaia di metri da casa Fermor. Nella sua stanza circondata da ulivi e cipressi e da cui sente la risacca del mare ogni giorno scrive fino alle 14, quando depone la penna per incamminarsi sulle pendici del Taygetos in compagnia di Paddy. Di norma Bruce evita di camminare con persone incapaci di tenere il suo passo veloce, ma non è così con Fermor, di cui vuole sempre restare al fianco perché da lui desidera imparare, scrivendo sui taccuini ogni citazione uscita dalla bocca del collega scrittore - e una di queste, salvitur ambulando (lo si risolve camminando), diventa un suo dogma. Di queste lezioni ambulanti ne farà buon uso in Le Vie dei Canti, il titolo del libro australiano uscito il 25 giugno 1987.
Ed è durante una di queste gite che i due, esplorando delle gole calcaree, s’imbattono in una sghimbescia chiesa bizantina costruita su di uno sperone roccioso. Tutt’intorno vecchi ulivi non lesinano l’ombra. Bruce se ne innamora - “il più bel posto che si possa immaginare” scrive - e decide di farlo suo. Ci è rimasto per sempre.

EPILOGO. Positivo all’HIV, Bruce trascorre gli anni successivi tra ricoveri ospedalieri e cure a domicilio, costretto su di una sedia a rotelle e amorevolmente assistito da Elizabeth, con cui si era riappacificato complice un trekking nel Khumbu. Siamo alla fine. Scrive Nicholas Shakespeare, il biografo di Bruce: Chatwin peggiorò rapidamente. Domenica 15 gennaio, ultimo giorno in cui rimase cosciente, trascorse la maggior parte del tempo disteso sulla terrazza. … A notte fonda iniziò a emettere un terribile suono. Gli dissi: “Bruce, Bruce, gira la testa”, ma non era più cosciente. Era entrato in coma. Non riprese più conoscenza. Fu trasportato in ambulanza in un ospedale pubblico di Nizza (i Chatwin alloggiavano nello Château de Seillans, un forte dell’XI secolo di proprietà della scrittrice Shirley Conran, amica di Bruce), dove morì all’1:30 di mercoledì 18 gennaio, quattro mesi prima di compiere 49 anni.
Il 20 gennaio Elizabeth lo fece cremare a Nizza. Feci dire una messa greca al forno crematorio, una messa nella mia chiesa di Watlington e una messa commemorativa nella cattedrale greca ortodossa di Santa Sofia, a Bayswater, cui parteciparono tutti.

Tempo dopo Elizabeth ritorna dai Fermor portandosi appresso l’urna delle ceneri, chiedendo a Patrick il favore di andarle a seppellire in quell’angolo del Peloponneso da lui tanto amato. L’amico scava con una pala e versa le ceneri ai piedi di un ulivo. Poi ricopre il tutto con la terra. Nessun segno esterno disturba l’eterno riposo di Bruce. Sono poche le persone che conoscono l’albero-monumento di Chatwin e a loro compete eseguire una volontà del defunto: venire qui per un allegro picnic e versare un bicchiere di retsina sopra le sue ceneri.

NEL MANI, 50 ANNI DOPO I FERMOR
di Daniella Forestan

2005. Dopo aver letto Mani. Viaggi nel Peloponneso, Giancarlo decide di andare a ripercorrere gli itinerari dei Fermor. E così, mentre io vago solitaria in Spagna sul Camino Francés, lui parte alla volta del Peloponneso dove, libro alla mano, segue passo dopo passo le vicende narrate.
In quegli stessi giorni Fermor si trova nella sua casa maniota. Ben sapendo che Leigh Fermor è nato nel 1915 - dunque novantenne - e informato che è suo desiderio non venire disturbato dagli idioti che per il solo fatto d’aver comprato un suo libro si ritengono autorizzati a piombargli in casa senza chiedere il permesso, un tardo pomeriggio Giancarlo bussa con discrezione alla porta. Ne esce la governante che subito chiarisce: “In questo momento Fermor sta leggendo, e quando lui legge non riceve nessuno”. Scusandosi ancora per l’irruzione, Giancarlo trova lo spazio per presentare il motivo che l’ha spinto nel Mani: seguire le tracce dei Fermor per trarne una delle sue seguitissime conferenze. La signora, burbera ma intelligente, risponde: “Aspetti qui che informo Fermor”. Ritorna sorridente: “Fermor l’aspetta nel suo studio”. Inizia così una loro bella amicizia.

2007. Stavolta a Kardamyli ci sono anch’io. Alloggiamo in una casa presa in affitto, base di partenza per nuove escursioni sul Taygetos.
Leigh Fermor, informato della nostra presenza nel Mani, non manca di chiamarmi sul cellulare per invitarci a pranzo nella sua casa sepolta dal verde e affacciata sul mare: “Quando io e Joan decidemmo di costruire questa casa, qui vi erano solo sterpaglie, tutte strappate con le nostre mani”, m’informa.
Dopo gli aperitivi - e finito il rosso di Breganze - è il momento del dialogo. Gentile e premuroso, Paddy non smette di regalarmi precisi dettagli della sua vita avventurosa, con soste per cantare vecchie canzoni italiane da lui imparate in tempo di guerra. Pezzo forte resta Il capitan della compagnia, da noi eseguito con alcolica maestria. Prima di lasciarci, chiede se siamo già stati da Bruce. No, non l’abbiamo ancora fatto, ma ora abbiamo un motivo in più.

Scarponi ai piedi, di buon mattino attraversiamo Kardamyli seguendo antiche strade in mezzo agli orti e tra alberi di limoni profumati. Il temporale della notte ha lasciato nell’aria un aroma speciale.
Prima di Pano Kardamyli abbiamo salutato un pescatore intento a stendere i polpi da poco pescati: sembrano enormi ragni appesi ai fili. Una donna vestita di nero con in testa il tradizionale cappello di paglia a larghe tese appare e scompare tra cascate di clematis viola. Usciti dal folto della vegetazione scorgiamo le torri fortificate della cittadella, raggruppate intorno alla chiesa di Agios Spiridon e al suo campanile.
La nostra mèta è di certo entusiasmante: stiamo andando a salutare Chatwin, nel posto che Paddy ha rivelato a Giancarlo. La bottiglia di vino è nello zaino.
Per raggiungerlo bisogna innalzarsi non poco su ripidi pendii, in mezzo ad una lussureggiante vegetazione e avvolti da profumi dimenticati di erbe aromatiche.
Lasciata alle spalle la vecchia Kardamyli, il sentiero lambisce quelle che la leggenda vuole siano state le tombe di Castore e Polluce, i fratelli di Elena di Troia.
Mentre saliamo il silenzio e la solitudine ci portano a recuperare una dimensione di vita perduta. In questo paesaggio affacciato sul Mediterraneo i contrasti geografici sono impressionanti. Siamo sulle pendici del Taygetos, montagna che srotola verso l’azzurro mare tappeti di flora dalle svariate sfumature di colori.
Da Agia Sofia la vista spazia sul mare blu cobalto e sui crinali del monte, dove i cipressi, leggeri punti esclamativi - “matitine” le chiamava Chatwin - disegnano profili verde scuro dietro cui si nascondono i radi abitati di queste valli remote. Una sorgente d’acqua ci disseta e i frutti dei gelsi, dolci e succosi, ci ridanno forza.
Dopo un breve pianoro il sentiero si perde, ma l’intuito alpinistico di Giancarlo trova subito una “direttissima”. Una traccia s’inerpica verticale tra erbe odorose ma sempre più pungenti; più sopra, a loro subentra una foresta di odiose ortiche. Il mio spirito romantico vacilla non poco.
Sembra di non arrivare mai, ma ecco spuntare il tetto di una casa, poi un’altra... Isolata sul suo sperone roccioso appare la chiesetta attorniata dagli ulivi: come già detto, sotto uno di questi, senza lapide né segno alcuno, sono state sparse le ceneri di Bruce Chatwin.
Ci sediamo a ridosso della sghimbescia struttura bizantina. Mangiamo pane e frutta e beviamo retsina, condividendola con Bruce, che sentiamo presente in questo luogo da lui tanto amato.
Non molto lontano una donna raccoglie erbe che definisce miracolose. Non ci va di dubitarne. Ammiriamo il volo di un rapace, il cui grido rompe il silenzio.
Torniamo al mare per un’altra via, non dimenticando di passare da Paddy per informarlo della missione compiuta.


Patrick Leigh Fermor ci ha lasciati il 10 giugno 2010, all’età di 96 anni. Sulla lapide tombale di Joan aveva fatto incidere il desiderata d’origine greca: Ti sia lieve la terra. Sulla sua, lettere in greco antico affermano che lui, Patrick Leigh Fermor, Era più greco di un greco.

© testo e foto di Giancarlo Mauri
Nota: per ovvie ragioni nessuna fotografia è associabile
al reale luogo di sepoltura delle ceneri
di Bruce Chatwin

Kardamyli

Kardamyli

Kardamyli

Kardamyli

Pano Kardamyli

Pano Kardamyli

Pano Kardamyli

Pano Kardamyli

La casa di Patrick Leigh Fermor

Patrick Leigh Fermor nel suo studio


Patrick Leigh Fermor e Giancarlo Mauri

Patrick Leigh Fermor e Giancarlo Mauri

Patrick Leigh Fermor

Patrick Leigh Fermor e Daniella Forestan


Le inventate tombe di Castore e Polluce



Agia Sofia






Nel Mani interno

Capo Tenaron