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© Fotografia di Giancarlo Mauri |
Cerca e ricerca, in questi ultimi tempi sono finiti nelle mie
mani tutti i fascicoli elettronicamente digitalizzati di The Little Review - dal numero
1, marzo 1914 in poi - e di The Egoist
- dal numero 1, gennaio 1914 in poi, due periodici storicamente importanti perché tra le loro pagine i raffinati lettori dell’epoca
hanno potuto seguire l’evolversi letterario di James Joyce.
È infatti a partire dal numero di marzo 1918 di The Little Review - 22x14,5 cm il suo
formato; Margaret C. Anderson publishers
e sede stabilitasi a New York - che inizia la pubblicazione rateale dell’Ulysses, la cui sequenza avrà termine
col volume settembre-dicembre 1920, dopo 23 discontinue puntate tormentate da
continui sequestri e da un processo per trivialità, processo commentato dalla
stessa Margaret C. Anderson in “Ulysses”
in Court, sul numero gennaio-marzo 1921 della rivista stessa.
In Europa, sempre nel 1914, a partire dal numero 3 datato 2
febbraio, The Egoist - Dora Marsden editor, con sede in Bloomsbury Street,
London W.C. - iniziava la pubblicazione di Portrait
of the Artist as a Young Man di James Joyce, saga terminata dopo 24 puntate
nel settembre 1915.
Anni dopo, a partire dal numero di gennaio-febbraio 1919, la
stessa rivista riprende e pubblica alcuni sparsi episodi dell’Ulysses: sei puntate, terminate col
numero di dicembre dello stesso anno.
Ed è sempre di questi giorni l’arrivo sulla mia scrivania di
un altro importante tassello per gli studi joyciani: Ricordi di Joyce, lo scritto che Silvio Enea Benco aveva pubblicato
in lingua madre sul periodico fiorentino Pegaso,
agosto 1930, e poi in lingua inglese ma con titolo diverso: James Joyce in Trieste su The Bookman, New York, n. 4, December
1930. Ho entrambi i fascicoli, ma ho dato la precedenza al testo originale, di non facile reperibilità e qui da me integralmente trascritto.
Buona lettura.
Silvio BENCO. Ricordi
di Joyce. [in] Pegaso, anno II, numero
8, agosto. Felice Le Monnier, Firenze, 1930, pp. 150-165.
RICORDI DI JOYCE
- Abbastanza mutato, Joyce, - mi
dice mia moglie, che ha visitato di recente lo scrittore e la sua signora a
Parigi: - È ringiovanito, e s’è fatto in tutto un uomo elegante. Nella sua casa
regna, come sempre, la musica: la signorina danza, e s’è anche presentata al
pubblico; il giovane figlio esercita la sua voce baritonale; tutta la famiglia
è sempre pronta a seguire nell’una e nell’altra città le peregrinazioni di un
illustre artista polacco, che Joyce ammira sopra ogni altro cantante. Per amor
dei contrari, anche il dialetto triestino ha in quella casa tutti gli onori: è
la lingua abituale della famiglia. (Irlandese la signora e il marito; i due
figliuoli nati e cresciti a Trieste). Parlano tutti il nostro dialetto con la
voluttà di conservargli la rudezza dell’accento locale. Bizzarra cosa, quel
signorile appartamento parigino tutto pieno della parlata dei quartieri
popolari di Trieste. Aver dimenticato l’indirizzo di Joyce e dover trovare
l’uomo, è una disgrazia. Le celebrità forestiere non sono conosciute da molti,
a Parigi. Trovai tuttavia, in una delle librerie principali, l’uomo che sapeva
l’indirizzo. «Non è un dovere della
nostra professione il saperlo; è una mia erudizione del tutto personale», egli
ci tenne a chiarirmi con un particolare sussiego. E così mi fu dato vedere
Joyce nel suo nuovo aspetto d’eleganza e di ritorno alla giovinezza; ma anche,
purtroppo, troppo aggravato agli occhi da non vederci più a scrivere, da dover
dettare ogni cosa. Sette volte, dagli anni di Zurigo in poi, quegli occhi sono
stati operati senza alcun sensibile miglioramento, ed ora si sta per
intraprendere un trattamento decisivo, dal quale si spera molto. Intanto, a
tutte le ore, in tutte le stanze, ci sono ammiratori e discepoli del maestro,
giovani inglesi, che leggono per lui, raccolgono il suo dettato, fanno per lui
martellare le macchine da scrivere. Il lavoro di Joyce invade letteralmente
tutta la casa. Quel suo nuovo lavoro che prenderà sette anni della sua vita,
come Ulysses, e del quale sono state
pubblicate in America la prima e qualche cosa dell’ultima parte: i capitoli
centrali rimangono tuttora in gestazione. All’infermità degli occhi egli non
permette di vincerlo; ne domina bravamente l’amarezza; appare solo un po’
astratto e lontano, nella sua parlantina sempre arguta e sarcastica. Egli
ricorda ad uno ad uno i tanti triestini ai quali ha insegnato l’inglese;
ricorda certe vie cittadine, le sue care vie di Città Vecchia, con le osterie e
le friggerie che forse non esistono più; al nome di Svevo, si commuove, e
s’indigna che un uomo di tal valore abbia potuto morir così presto. Passa da un
argomento all’altro; v’intromette aneddoti, nella sua favorita forma
dell’apologo. Si rallegra della prima traduzione giapponese d’un suo libro, non
ricordo più quale. La sola cosa, - egli dice, - che non lo interessi più per
nulla è la politica. «Nessuno se ne occupa del resto, soggiunge; non è più di
moda».
Ora alle impressioni di ieri, di mia moglie, mi sostituisco io coi
miei ricordi più o meno lontani. Quasi alla giovinezza devo tornare: quando
s’incominciò a parlare, a Trieste, d’un nuovo professore che era un portento
nell’insegnare l’inglese. Ed erano pur freschi nella città i ricordi di Pietro
Jones, l’altro uomo singolare, altra celebrità in questo insegnamento. Joyce,
quando giunse a Trieste, aveva poco più di vent’anni, ed era stata Pola la
prima tappa di un viaggio di nozze, che era anche un viaggio di necessità per
trovar da vivere a questo mondo. Un giovane irlandese, affinato e piegato dalla
scuola dei Gesuiti fino a saltarne fuori di scatto rompendo tutto, e una
giovanissima sposa che aveva molto amore e molto coraggio dietro il visetto
attonito, non possono nemmeno essi vivere d’aria. A Pola trovano un giovane
fiorentino, il professor Alessandro Francini-Bruni, e un’altra giovane signora,
che erano ancor essi dinanzi allo stesso problema. La Berlitz-School li aveva
chiamati, e per il momento li salvò tutti e quattro. Joyce insegnava l’inglese,
e Francini il pretto toscano. Un po’ diverso dall’italiano in cui Joyce
incominciava a lanciarsi. «Parlava allora uno strano italiano, - Racconta il
Francini, - stracco convien dire meglio che strano, un italiano ciompo pieno di
trafitte e di scrofole. Era, in ogni caso, una lingua morta che veniva ad
unirsi alla babele delle lingue vive». Dopo un anno, vennero i due nuovi amici
a Trieste, ancora alla Berlitz-School. Bolletta nera. Ma ben presto l’Accademia
di Commercio rapì Joyce a quell’umile cattedra; e incominciò la fama di lui.
Fama di professore d’inglese, intendiamoci. Giacché le poesie che a
quando a quando egli mandava a riviste di Dublino, erano una sua faccenda
privata e lontana, né i triestini avevano a sapere del suo libretto di versi Chamber Music, del quale i maestri
irlandesi musicavano tutte le pagine. Joyce era già qualcuno nella sua patria
abbandonata; ma a Trieste non s’atteggiò mai a letterato; permise a tutti
d’ignorarlo; forse ci trovava piacere, e difatti in lui la già vissuta, se non
ancora rivissuta, esistenza di Stefano Dedalus. Meglio il professore
coscienzioso e probo, che accettava l’esilio come l’esilio. Così alto, smilzo,
slanciato, imberbe (un esemplare della giraffa, diceva egli), misurante le vie
con due gambe di compasso irreprensibilmente rigide, sarebbe potuto sembrare, e
con pieno diritto per la sua età, un ragazzone che avesse avuto il crescere
diseguale e lo sviluppo tutto osseo dell’adolescenza. Senonché nessuno avrebbe
preso James Joyce per un ragazzone, tanta era nella risolutezza della sua
andatura d’automa l’espressione di una vita già matura, già decisa, e che
traesse autorità dalla propria sodezza. Passava volentieri le notti a bere,
dice Franchini; io di queste faccende della notte non ne so nulla. Doveva
essere ancora, dentro di sé, un discreto ribelle; ma questi sentimenti tumultuosi,
riservati all’Irlanda, anche annegati forse talvolta ne whisky e nel vino, non erano decifrabili per noi, che ammiravamo in
quel suo slancio ginnastico la perfetta rispondenza della macchina alle
esigenze ambulatorie della sua professione. Correva a dare la loro ora
d’inglese, di casa in casa, a tutti i triestini. In verità, il nocciolo
dell’uomo sodo c’era. Strenuo e puntuale lavoratore, ottimo padre di famiglia,
stretto alla moglie, ai figli, alla casa. Ma dentro aveva il tormento poetico,
le acute discriminazioni critiche, la diavoleria paradossale di Joyce. Il suo
amico Francini, con cui c’era la confidenza dei casi comuni, fu forse il solo
nei primi tempi a saperlo: e dopo la guerra lo ricordò in un libriccino
vivacissimo, oggi alquanto raro, che ha tratti biografici preziosi. Il titolo è
brutto: Joyce intimo spogliato in piazza.
Ma è la sola cosa brutta. Se non fosse in parte una caricatura, ce ne fideremmo
molto più largamente.
Pure un momento vi fu, nel quale poco mancò non si scoprisse il
letterato Joyce anche a Trieste. Il dottor Roberto Prezioso, allora mio
direttore al Piccolo, uno dei pochi
che si fossero stretti in amicizia con l’irlandese, mi pregò di voler rivedere
la forma italiana di alcuni articoli su l’Irlanda che questi gli avrebbe
portato. Debbo a ciò la conoscenza personale di Joyce. Egli voleva che la
revisione avvenisse sotto i suoi occhi; e non credo fosse diffidenza, ma
volontà d’imparare. Per vero, negli articoli c’era da mutare ben poco;
l’italiano vi si sentiva un po’ duro e prudente; ma non mancava né di
correttezza né di tono espressivo, quand’anche la scelta del vocabolo
appropriato non fosse sempre quella del purismo linguistico. - Lei scrive in
inglese e poi traduce? - gli chiesi. - No, scrivo direttamente in italiano. -
Erano ormai tre anni da quando aveva incominciato a impararlo: e rimase la
lingua nostra uno degli strumenti più perfetti tra le diciotto lingue antiche e
moderne delle quali egli costituì a poco a poco il suo tesoro di glottologo e
di filologo. Parlava il greco antico e l’odierno, il sanscrito, l’arabo, tutte
le lingue maggiori d’Europa; successivamente vi aggiunse, come ricercatezze e
rarità, anche le minori.
La mia collaborazione durò poco. Il giorno che disputammo sopra un
vocabolo, ed ebbe ragione lui, vocabolario alla mano, mi fu chiaro che i suoi
manoscritti non avevano bisogno dei miei freghi di penna. D’altronde, gli
articoli furono pochi. Tre in quell’anno, 1907, e poi, un paio d’altri, a
intervalli lunghissimi.
Joyce non si rallegrava ancora
che la politica fosse fuori di moda. Dall’Irlanda ne portava ancora in sé il
fremito: vi fossero pure in lui l’amarezza del disinganno, l’insofferenza
dell’uomo fastidito e la bravata dello scettico. (- Le monarchie costituzionali
e non costituzionali mi fanno schifo, - disse un giorno a Francini: - Le
Repubbliche, borghesi o democratiche, mi fanno schifo. Possiamo desiderare la
Monarchia per diritto divino? Ci credi tu al Sole dell’avvenire? -). Tuttavia,
l’evocazione della cara patria, colpevole di averlo disamorato, non avveniva in
lui senza accento di dolore, sembra quasi una rabbia di pianto. Il primo di
quegli articoli L’ultimo feniano,
parlava di un certo John O’Leary, morto a Dublino il giorno di San Patrizio.
Spiegava che nel fenianismo era da vedere una duplice lotta: la nazione
irlandese contro il Governo inglese; ma anche il partito «della forza fisica» contro il partito
moderato. Ora il fenianismo era invecchiato o morto. I suoi momenti psicologici
erano passati. «In Irlanda, al momento psicologico, si presenta sempre il
delatore». (Rampogna che si riproduce in Ulysses:
gli Irlandesi tradiscono sempre i loro uomini migliori).
Il secondo degli accennati articoli del Piccolo della Sera era intitolato Home Rule maggiorenne. Ricordava gli evviva a Gladstone, nel 1886,
quando il vecchio statista aveva dichiarato che il partito liberale inglese si
sarebbe rifiutato di far leggi per l’Inghilterra finché essa non avesse
concesso una misura d’autonomia all’Irlanda. Dopo sette anni e mezzo,
Gladstone, «avendo nel frattempo, con l’aiuto dei vescovi irlandesi, compiuto
l’assassinio di Parnell», presentava per la terza volta il suo disegno di legge
alla Camera. Ora, dopo ventun anno, l’Home Rule sarebbe dovuto essere
maggiorenne. Invece Gladstone era morto, il parlamentarismo irlandese fallito,
e tutto dormiva. Gladstone aveva fatto maggior danno all’Irlanda che Disraeli.
L’aveva, sempre con l’aiuto dei vescovi, impaludata.
Pochi mesi dopo, un terzo sfogo di pessimismo, L’Irlanda alla sbarra. Vogliamo leggerne l’inizio, come saggio
dell’italiano di Joyce, e anche per l’accenno che contiene all’antica schiatta,
donde proviene l’autore:
Parecchi anni or sono si tenne in Irlanda
un processo sensazionale. Nella provincia occidentale, in un luogo romito che
si chiama Maamtrasma, era stato commesso un eccidio. Furono arrestati quattro o
cinque villici del paese appartenenti alla tribù di Joyce. Il più anziano di
loro, tale Milesio Joyce, vecchio di sessant’anni, era particolarmente sospetto
alla gendarmeria. La opinione pubblica lo giudicava allora innocente, ed ora lo
stima un martire. Tanto il vecchio quanto gli altri accusati ignoravano
l’inglese. La Corte dovette ricorrere a un interprete. L’interrogatorio
svoltosi col tramite di costui ebbe a volte del comico e a volte del tragico.
Dall’un lato vi era l’interprete formalista, e dall’altro il patriarca della
misera tribù, il quale, poco avvezzo alle usanze civili, sembrava istupidito da
tutta quella cerimonia giudiziaria.
La figura di questo vecchio inebetito, «avanzo di una civiltà non
nostra, sordomuto dinanzi al suo giudice», sembrava al Joyce simboleggiare
l’Irlanda alla sbarra dell’opinione pubblica. «Essa non riesce a farsi capire;
non ha modo di comunicare con l’opinione pubblica dell’Inghilterra e
dell’estero. Gli irlandesi sono supposti malandrini. Il vero sovrano
dell’Irlanda, il Papa, li capisce come gli inglesi».
Riuscirono poi anch’essi a farsi capire: ma Joyce non era obbligato a
essere profeta.
Diciamo pure: grandi articoli non erano i suoi; né potevano suscitare
molto interesse a Trieste. Ma spunti di passione, là dentro, non mancavano:
l’innocenza del patriarca Milesio Joyce era quasi veneranda; Parnell, l’uomo
intelligente sacrificato dall’ipocrisia e dalla furbizia, era senz’altro un
personaggio tragico; L’Irlanda insulare, anacronistica, incompresa, era quasi
un naufragio. L’uomo n’era saltato fuori; aveva scelto l’esilio; pensava
freddamente col suo cervello: ma il cuore gli doleva.
Non poteva dolergli egualmente
per lo sforzo di liberazione nazionale che sentiva, faticoso e accanito, a
Trieste. Ma appunto perché gli mancavano i motivi di passione e di cruccio, lo
considerava con una simpatia ragionevole. Molto viva era in lui la simpatia per
l’Italia; ma certamente molto incompleta la sua conoscenza della letteratura
italiana. Al Francini confidava questi giudizi sommari: «La letteratura italiana incomincia da Dante e finisce in Dante. Non è
poco. In Dante c’è tutto lo spirito della Rinascenza. Adoro Dante quasi quanto
la Bibbia. Il resto è zavorra». Egli aveva trovato per istinto il suo punto di
affinità, ed era giusto; ma il suo giudizio trinciato sul resto poteva mettersi
con quelli che si sogliono udire, su tutte le letterature, da intelletti
sbrigativi. Nemmeno Roma gli piaceva. Solo la Chiesa romana gli pareva grande:
ma quella specie di mescolata grandezza nel bene e nel male che molti stranieri
ricavano dalla concezione eccessivamente romanzesca che essi si fanno del
Papato nel Rinascimento. In conclusione, giudizi più beffardi che meditati: e
sull’Italia non abbiamo nulla da imparare da Joyce. Se non forse l’avvertimento
che gli stranieri prendono come pugni certe nostre imposizioni polemiche dei
nomi dei nostri grandi, di Michelangelo, di Leonardo, di Galileo: li ammettono,
ma non vogliono pigiare dei pugni.
Si capisce che egli tenesse le sue opinioni di letterato un po’ alla
larga da quella che era allora la letteratura triestina. Frequentava molto i
nostri teatri, e reputava gli italiani i primi attori e primi cantanti del
mondo; leggeva sul Corriere le
critiche drammatiche di Giovanni Pozza, e le trovava lucide e acute (più tardi
egli mi lodò anche quelle di Renato Simoni). Mostrava interesse per parecchi
musicisti di Trieste; ma dei propri lavori letterari non parlava se non con
Svevo, molto più vecchio di lui e già da parecchi anni «autore locale
dimenticato», e col dottor Prezioso, a cui aveva fatto leggere, manoscritte, le
novelle che poi composero il volume Dubliners.
Quest’ultimo me ne parlò con molto calore, e mi preannunciò una grande sorpresa
quando sarebbero state pubblicate. Correva l’ultimo anno prima della guerra: le
novelle Dubliners uscirono proprio
quando scoppiava la guerra mondiale. Io allora non le lessi; non seppi nemmeno
dell’avvenuta pubblicazione; a Trieste non poterono arrivare.
Avevo l’impressione - tanto è difficile penetrare la vernice di
freddezza esteriore che copre gli spiriti nordici - di non aver saputo lasciare
in Joyce alcuna traccia a mio vantaggio. Sapevo che nei miei romanzi giovanili
egli aveva trovato molto da ridere, benché purtroppo fossero scritti sul serio:
di ciò non gli facevo torto: ma pensavo che gliene fosse rimasta, più che
indifferenza, diffidenza verso l’autore. Più tardi, ebbi prova che questo non
era vero, e Joyce, che è veramente un’anima fedele, mi tratto sempre da amico.
Egli stesso, forse, immaginava che io non avessi intravveduto in lui l’uomo
d’ingegno. E in tal caso si sarebbe ingannato. Benché fossi ben lontano dal supporre
contenuta nella sua testa la gigantesca equazione fra enciclopedia e vita,
dell’autore di Ulysses.
Scoppiata la guerra, ecco Joyce a Trieste prigioniero a piede libero,
cittadino di Stato nemico nelle mani dell’Austria. Aveva dovuto smettere
l’insegnamento all’Accademia di Commercio. Anche le lezioni private si erano
probabilmente diradate. Già da tempo diceva egli di aver insegnato l’inglese
ormai a tutti i triestini e di dover accingersi a cambiare città: ma tante cose
si dicono, ed egli era a Trieste profondamente attaccato. La guerra dovette in
su le prime scombussolarlo, darli quel senso di crollo degli orizzonti che
n’ebbero tanti uomini di pensiero. Lo si incontrava per le vie, camminante col
suo passo rapido; ma tutto assorto in se stesso, le labbra inchiodate da una
linea dura a perpendicolo, scoramento negli occhi e perplessità. Salutava con
un lungo sguardo, ed evitava di trattenersi, di scambiar parole. La posizione
ufficiale di quell’irlandese in guerra con l’Inghilterra era adesso quella del
cittadino britannico in guerra con l’Austria. Accettarla non era bello, e tanto
meno rinnegarla.
E la guerra: sentiva egli quel gran problema che pesava su tutte le
coscienze? Aveva egli già scritto, nell’incominciato Ulysses, la famosa frase: «La storia è un incubo, da quale tento di
risvegliarmi»?
Dopo breve tempo, Joyce scomparve dalla città. Aveva ottenuto di
potersi recare in Isvizzera. A Trieste, avvicinandosi il conflitto con
l’Italia, le autorità imperiali non amavano custodire cittadini di Stati nemici.
Joyce andò a Zurigo: e da quell’uomo ch’egli fu sempre, o tale almeno lo
giudico, inflessibile nella propria rotta interiore, tenne fermo alle sue
costruzioni d’arte, e non badò ad altro. Gli stavano avvenendo cose
meravigliose. Il successo di Dubliners,
lui lontano; il prezzo principesco pagato in America per il manoscritto, e
perfino per la bozza di stampa, del Portrait
of the artist as a young man; la piena tranquillità materiale per l’oggi e
per il domani; l’indipendenza guadagnata allo spirito. Era di buon umore (mi
dice il mio amico Antonio Battara, che fu suo compagno nell’esilio elvetico) e
si passavano ore deliziose ad ascoltare i suoi aforismi e i suoi paradossi.
Parecchio tempo passava a letto, scrivendo Ulysses;
spesso si mescolava con gli altri esuli irlandesi, e li aiutava a fondare una
compagnia di «Irish players», che, improvvisato un teatro, vi recitavano la sua
commedia del tormento, Exiles. Anche
la signora dello scrittore recitava talvolta, e molto bene. Come diversivo,
egli ebbe qualche scenata burrascosa col console britannico. Forse si trattava
di quell’episodio di Ulysses che,
mandato manoscritto in Inghilterra, riuscì tanto incomprensibile alla censura
da farglielo giudicare un documento cifrato; e si persuasero solo da ultimo di
aver a fare con «un genere di letteratura ancora sconosciuto». Lievi cose. La
più grave fu la malattia agli occhi, della quale Joyce incominciò a soffrire
molto seriamente.
A me qualche eco giungeva di tutto ciò nel mio luogo d’esilio,
mediante i giornali di Zurigi e di Monaco. Joyce era divenuto decisamente un
uomo celebre. Un giorno ebbi la visita inattesa del fratello di lui, Stan
Joyce. Relegato io a Linz, sul Danubio, egli chiuso nel vicino accampamento di
Katzenau, un giorno d’uscita mi portò i saluti dello scrittore. Ebbi dunque
sulla favolosa avventura della sua celebrità più precise notizie; Stan Joyce
anche mi disse che gli inglesi erano stati colpiti da una specie di classica
nitidezza nella prosa di suo fratello, e da una costruzione musicale dei
periodi insolita nei loro autori. Egli era un uomo intelligente, non un
letterato, e tutto l’opposto di uno «snob»: e queste sue notizie mi furono preziose.
Alla seconda sua visita, mi portò Dubliners.
E conobbi Joyce dei giovani anni: ritrattista d’uomini veri, conscio vigilatore
del suo stile, non meno realista e non meno analitico di quello che fosse la
maggior parte dei narratori della sua generazione, osservatore acuto e, meglio
che spassionato, capace di mettere la distanza di un tono freddo alla propria
commozione.
Tornato a Trieste nella primavera del 1918, vi trovai Exiles, e poco dopo mi giunse da Zurigo
il Portrait of the artist. Nella
commedia riconobbi tosto la radice ibseniana (Ibsen, grande amore di tutta la
giovinezza di Joyce), ma troncata al punto dell’innesto retorico, e sviluppata
crudelmente, un po’ alla Strindberg, secondo la legge naturale di distruzione
dell’anima, quando s’è esposta al fuoco. Forse Strindberg avrebbe finito col
prorompere; Joyce guardava la distruzione ironico e taciturno.
Nel Ritratto mi colpirono il
rigore della precisione, la lucidità estrema del disegno, la «somiglianza» con
l’originale che si rivelava per la logicità della struttura: ritratto di «scolaro»,
plasmato, fucinato e temprato nella disciplina mentale della scuola dei
Gesuiti; ribelle sì, pieno d’ira e di recriminazioni, infocato alle ritorsioni
critiche, ma non mai più liberato, non mai più liberabile, dai segni spirituali
lasciati in lui da quella scuola imperiosa. Essa lo ha armato guerriero in
tutti i sensi. Egli è un formidabile teologo, filologo, umanista; è esercitato
al sillogismo, all’ordine architettonico della Chiesa, al sottile argomentare
della scolastica, al contrappunto della musica sacra, al sagace risalire dalla
vita alla verità occulta dei testi. Non importa che egli sia un ateo, uno
svincolato a priori da ogni legge
morale, un concitato beffardo, e che, rasciutta in lui ogni linfa emotiva della
chiesa e della tradizione patria, non tenda ad altro che a un riconoscimento
estetico del mondo.
Il Ritratto non sarà mai il
libro degli italiani. È terso di una tersità translucente, fresco di una
tagliente freschezza invernale che è quasi rigidità, autoritario per esattezze
intellettualistiche, più che non tollerino le nostre abitudini colorite e
sentimentali. Non bisogna prenderlo come un libro troppo giovanile rispetto ad Ulysses. È scritto immediatamente prima
di esso. È un suo elemento, come i ritratti dei Dubliners. È il ritratto, profondamente volitivo, del giovane che
si sobbarcherà a quella fatica enorme. Prima di concepire il labirinto, egli
fissava, chiare, ancora dissociate, le linee del mondo; provava al loro taglio
la sua intelligenza. L’autore di Ulysses
mi si presentò, improvviso e inaspettato, un giorno del 1919.
Allora io dirigevo un
giornale a Trieste. Era una vita faticosa; forse anche bella, ma faticosa.
Pareva che tutti, in quel momento, avessero l’amore del caos, e non
concepissero la vita che in edizione straordinaria. Joyce, come apparizione del
caos, era intonatissimo. Sembrava in quei giorni un poco invecchiato: avrei
anche detto stanco; ma questo non era. La sua figura alta e stecchita s’era
stretta addosso una di quelle tonache da monaci con cintura militare che allora
usavano come soprabiti; gli era troppo corta, e lo sproporzionava. Dopo pochi
momenti, mi pregò di velare un poco la lampada che, essendo all’altezza del suo
viso, gli offendeva gli occhi. E allora parlammo dei suoi occhi offesi, e di
Trieste dov’egli contava di rimanere per sempre, dei tempi agitati che non
riuscivano ad alterare, del resto, la sua imperturbabilità, della lingua danese
che egli studiava, sua diciottesima lingua, del parlare il greco antico come il
moderno di Omero e di Ulysses.
Io ebbi quella sera un concetto generale del lavoro, non tale però da
farmene un’immagine nemmeno lontana. La misura di Joyce era per me ancora nel Portrait of the artist: a quel canone si
ragguagliavano naturalmente le mie aspettative. Ma dopo un paio d’altre visite
(non più imbrigliato dalle lezioni, Joyce veniva spesso a trovarmi) la mia
curiosità si era fatta più tesa: massime quando mi fu mostrato il pentacolo
magico di Ulysses, la chiave del suo
segreto, il famoso specchietto della sua costruzione ermetica, che tutti
possono oggi trovare nel volume di Stuart Gilbert, mirabile commentario che,
con la guida dell’autore stesso, interpreta e chiarisce in ogni parte il
romanzo di Joyce.
Seppi perciò com’egli avesse inteso praticamente il rapporto fra la
giornata vagabonda di un moderno abitante di Dublino e il viaggio dell’antico
Ulisse cantato da Omero. Seppi che ad ogni canto dell’Odissea corrispondeva un episodio del nuovo Ulisse, appropriato a
una determinata ora del giorno: che Stefano Dedalus vi diveniva il novello
Telemaco, giovane intellettuale bramoso, arrischiato e inesperto; che il
funerale di un oscuro cittadino dublinese permetteva di riprendere i temi della
discesa di Ulisse nell’Ade; che una redazione di giornale figurava la caverna
d’Eolo; che le sirene omeriche erano rievocate in due belle figliuole nuotanti
con le braccia nude tra la multicolore liquidità degli alcoolici dietro il banco
di un bar, mentre la sala era piena di musiche strimpellate da un pianoforte e
vociate dai clienti canori; che Circe teneva bordello; che «gli scogli vaganti»,
pericolosi ai mitici navigatori, erano simboleggiati da un pesante carrozzone
del tranvai e dal corteo del vicerè Lord Dudley, ingombri mobili, alla stessa
ora, delle vie di Dublino.
Seppi altresì che le sensazioni d’ogni singolo episodio erano chiamate
a raccolta da una diversa parte del corpo umano, cervello o stomaco, orecchi o
naso, intestini o più giù; che ciascun episodio era orientato
intellettualmente, con introduzione di personaggi acconci, verso una plaga
dello spirito, o della vita sensuale: teologia, retorica, letteratura,
politica, medicina, magia, erotismo o esaltazione alcoolica; che molti episodi
avevano un loro colore dominante, e ciascuno era contraddistinto da un simbolo
(erede, cavallo, affossatore, editore, vergine, madre, prostituta, terra); e
che avendo ogni personaggio il proprio suo stile, e ad ogni situazione e
materia trattata convenendo anche uno stile particolare, da prediligersi in
autori diversi, era nel libro un concerto stilistico, che spezzava audacemente
la regola dell’unità di forma, facendosi innanzi ad ora ad ora gli stili più
vari, dall’omerico al biblico, dall’elisabettiano al settecentesco, dallo
shakespeariano maggiore e clownesco al vittoriano borghese, dallo stile di
romanza al giornalistico, da quello di Carlyle a quello di Synge, da quello
dell’Università a quello della bettola, e da quello dei Santi Padri a quello
futurista.
Ma infine, tutto ciò non mi diceva che un programma, il quale per
bizzarro e gigantesco che fosse, poteva anche ridursi ad una enorme farsa o ad
un nobile fallimento. Joyce spiegava cotesta complicata tessitura, con
convinzione sì, ma senza infervorarsi, al suo modo lucido, compassato,
scandito, come se esponesse l’intavolazione d’un problema matematico. Certo
v’era la compiacenza in lui d’aver architettato cosa sì nuova, difficile e
strana: ma soprattutto una grande sicurezza, quella assoluta fiducia di andar
dritto e con piene forze, che gli dava autorità anche ai tempi della prima
nostra conoscenza, quando sarebbe stato impossibile il sospettare in lui un
maestro.
Dopo quella prima preparazione, egli volle che leggessi quanto era
scritto di Ulysses. Mi portò i
fascicolo della Little Review di New
York, dov’era comparso circa un terzo dell’opera: alte strida di puritani,
offesi dalla sua «oscenità», avevano costretto a interrompere la pubblicazione.
Gli episodi successivi erano tuttora semplicemente battuti a macchina: ne
mancavano ancora cinque per il compimento dell’opera. Egli mi mostrò gli
scartafacci, sui quali preparava la materia di ogni episodio, gli appunti di
compulsazione, le citazioni, i riferimenti, le idee, le prove di stile; quando
tutta la materia era pronta, egli si accingeva a stendere l’episodio, e lo
faceva di solito in meno di un mese. Estro, diavolo in corpo, adunque, e non
lambicco. Ulysses era stato, con
questo metodo, incominciato a Trieste prima della guerra, continuato a Zurigo,
ed ora ripreso a Trieste.
Leggere i primi episodi nei bei quaderni della Little Review mi fu relativamente facile: in essi è protagonista,
come tutti sanno, il giovane Stefano Dedalus, questo «bohème» ad alta tensione,
che s’è bandito dalla propria famiglia e dalla roccia fossilifera delle idee
familiari, e vive, cervello al vento, cercando di essere quanto è possibile
uccel di bosco al margine della società e delle sue credenze. Cotesta Telemachia, per quanto vi si respirasse
l’atmosfera intellettuale frizzante del giovane pedante ribelle, non mi dava
ancora il senso d’espansione e di vibrazione molecolare in tutte le direzioni;
era di linea più semplice, e si ricollegava alla maniera di proiezione intellettuale
a me nota dal Portrait. Il fascino
nuovo, avvolgente, travolgente e sconvolgente, incominciò quando il romanzo
ebbe un repentino mutamento di centro, portandosi nella casa e nella persona di
Mr. Leopoldo Bloom. L’Ulisse di Joyce. La sua grande creazione d’artista. Il
semita vagante, la cui elaborazione psicologica attinge incessantemente nelle
esperienze di una vita già lunga, nel mistero di un passato immemorabile, e nel
perpetuo stimolo subcosciente dei sensi. Sentii ben presto che nel cervello di
Joyce si navigava ormai per un vasto e vorticoso mare: e per quanto faticosa
fosse divenuta la lettura, su quei fogli dalle righe troppo fitte, dalla grana
troppo speluzzata, dagli inchiostri troppo pallidi, tempestati qua e là di
correzioni e di aggiunte nella minuscola scrittura saltellante dell’autore, per
quanto l’astrusità stessa delle idee e del vocabolario fosse aggravata da
questi attriti meccanici, ebbi l’intuizione, che si ha un paio di volte nella
vita, di cogliere il primo fremito di un’opera d’arte destinata a non lasciare
il mondo com’esso era ieri.
Tutta quella mia prima lettera fu più che altro intuizione. Ne
parlammo qualche tempo dopo col professor Stan Joyce, il quale condivideva
l’opinione di molti inglesi che suo fratello avrebbe fatto meglio a perseverare
su la via del Portrait, e trovava
pagine intere di Ulysses
assolutamente incomprensibili. «Lei, deve sapere ben profondamente l’inglese
per cavarne qualche cosa», mi disse. Gli risposi che il mio inglese era molto
povero, e del tutto subissato da un nababbismo linguistico come quello di suo
fratello; ma che mi aiutava per fortuna una certa intuizione che ho di queste
cose. E fermamente io credo che in quanti, inglesi o no, hanno letto Ulysses la prima volta, solo
l’intuizione poté supplire a ciò che l’autore esigeva dalla loro elasticità e
versatilità.
Mi è piaciuto veder citato anche nel libro di Stuart Gilbert il
giudizio di un critico napoletano, che non Stefano Dedalus, né Bloom, fosse il
protagonista di Ulysses, bensì il
linguaggio. Io stesso, negli articoli informativi ch’ebbi a scrivere dopo la
prima e la seconda lettura del libro, ne decantai sempre la ricchezza lessicale
senza fondo; e più accentuai questa caratteristica, quando s’incominciò a
cantare quel noioso ritornello di nomi, Proust, Joyce, Svevo, Kafka. Scrittori
analitici tutti, certamente, e ognuno a modo suo: ma Joyce portava l’analisi
nel corpo stesso della parola, che egli possedeva da glottologo, da filologo,
da fisiologo, da naturalista, come si conviene a questo proteiforme elemento,
la parola che si presenta in centomila forme, presso centinaia di popoli, negli
atti meccanici istantanei del passaggio dall’interiorità all’espressione. Joyce
era ossessionato dalla duttilità di questo suo Proteo: componeva, alterava
vocaboli con innesti audaci su scorticate radici; li ironizzava nella
stramberia delle onomatopee e dei suffissi mimetici; li prendeva da altre
lingue, quando, nel mosaico, aveva bisogno d’un più sprizzante baleno di vetro:
li trattava come valori musicali; li costringeva, con arte diabolica, ad
affluire, monosillabici e martellanti, nelle strette precipitose del
contrappunto fugato che essi dovevano imitare parlando. La scienza del linguaggio era per lui capitolo primissimo
ed approfondito della sua scienza universa: dannato «scolaro», ma scolaro
sempre; dotto della linguistica comparata e dei valori fonetici, di tutti gli
artifizi della retorica e dei riflessi nervosi ingenui della bocca che parla.
Si componeva quella sua oggi ammiratissima lingua, che, pur essendo fatta dei
vigori di sette secoli della letteratura inglese, con qualche impollinatura
delle lingue antiche e degli idiomi moderni, doveva essere l’organo di
trasmissione artistica, intonata, sensitiva, di una nuova scienza del
meccanismo umano.
Nuova scienza: vocabolo, dinanzi all’ultimo Joyce, sempre presente.
Fra quello che egli prende dall’Italia per la sua costruzione (schegge,
talvolta, minuzie, bestemmie in bocca romana, spunti dal dialetto triestino,
gerghi gigioneschi, perfino la scenografia della Danza delle ore del buon Ponchielli), sta in sommo posto e in somma
riverenza il pensiero di Giambattista Vico. Esso lo affascina, come concezione
delle razze, come teoria del linguaggio e come interpretazione della storia: e
non più ormai un mistero (il Gilbert via accenna più volte nel suo commento ad Ulysses), che il prossimo libro del
romanziere, The Work in progress
(titolo provvisorio e…. pirandelliano) sarà anche più deliberatamente
compenetrato di spiriti vichiani. La nuova scienza, l’esplorazione del mondo
come genesi e come ciclico ritorno, sarà ricondotta al suo maestro e padre, al
grande precursore napoletano.
Joyce, per tutto quanto si sa del suo nuovo lavoro, intende insistere
nel carattere analitico, sperimentale, in una parola scientifico, della sua
creazione d’arte. Vuol continuare a essere l’uomo che molto sa, d’innumerevoli
cose, e che nulla scrive, nessuna eccitazione si permette all’estro, senza aver
controllato la sua posizione con osservazioni scientifiche. Nel Work in progress, lo studio della lingua
investirà anche la materia, parzialmente freudiana, dei «lapsus», delle parole
steccate, smozzicate, deglutite nella ruminazione, o deformate o scambiate con
altre in stati di distratta incoscienza o sotto l’azione di turbamenti nervosi:
tronconi, frammenti e maschere di parole, che già fanno proclamare il nuovo
libro molto più incomprensibile di Ulysses
e molto più bisognoso di un magistrale commento delucidatore come quello del
signor Stuart Gilbert. La tendenza a spingere l’indagine del linguaggio fino
alle estreme conseguenze, fino ai misteri dell’articolazione di suoni, sembra
voglia essere portata al fortissimo. Joyce è un ostinato, e la sua temerità
letteraria si appoggia sull’ostinazione scientifica.
Si noti il largo uso che egli fa della parola «tecnica» per definire
cose d’intonazione psicologica e di stile. Il «narcissismo», l’«incubismo», il
modo narrativo, il dialettico, il «labirintico» ecc., che egli si propone
seguire nei singoli episodi di Ulysses,
per lui sono null’altro che «tecniche». Egli è un artefice cosciente, un
cervello erudito, che ai propri sgorghi, alle proprie effervescenze liriche, ha
messo un presupposto di rigorosa consapevolezza. I suoi personaggi possono
navigare nella subcoscienza e nell’incoscienza della loro vita interiore; ma
l’artista sa. L’artista è un dotto. L’incosciente è caduto nel laboratorio dei
suoi sensi lucidi: è uno strumento nelle sue mani. Egli se ne vale con una
meravigliosa destrezza e virtuosità. Ama, nella febbre del lavoro, palleggiarlo
grottescamente, lanciargli qualche motteggio.
Per Joyce non esiste silenzio. L’uomo parla sempre. Parla con se
stesso. Dirige il proprio discorso, ragiona; ma molto spesso gli viene quel
discorso da impulsi reconditi e lontani, da frammenti d’impressioni subite e
incubanti nella memoria, da improvvise indirette associazioni di idee con
percezione dei sensi. Cose incoercibili e disguidate: fa lo stesso: l’uomo
parla: Freud osserva il fatto, e ne svolge la teoria; Joyce lo osserva da
artista, e ne cerca la «tecnica». Essa è quella chiamata del «monologo
interiore», riproduzione fedele e realistica del linguaggio interno: tecnica
non da lui inventata; gliela suggerì un romanzo francese uscito nel 1887, Les lauries sont coupés, d’un autore
dimenticato, Edoardo Dujardin. Fu lui stesso ad additarlo all’attenzione di
Valéry Larbaud, il suo possente traduttore, e di altri critici francesi. Non
tace Joyce le proprie scoperte letterarie: lo abbiamo veduto nel «caso Svevo».
Questo «monologo interiore», che del resto è un po’ l’uovo di Colombo,
Dujarden lo adoperava con una vivacità impetuosa e graziosa: Joyce lo adopera
con versatilità di accozzi coloristici, con straordinari passaggi dalla minuta
pittura divisionista ai ricchi e rapidi impasti, segnatamente quando lo
attribuisce al continuo pettegolo gorgoglio della parlata interna di Bloom.
Che cosa pensassi di questo personaggio di Bloom, fu la prima domanda
che egli mi rivolse, quando ebbi letto gli episodi di Ulysses poetati sino a quel momento. E rispose egli stesso: - Non
ha carattere; non deve aver carattere. - Ribattei: - È tuttavia una persona
viva. Ha una completa individualità fisica, sociale, morale; la definiscono
perfino le indeterminazioni di contorni della sua vagabonda vita, senza
professione precisa, e della sua provenienza di razza che si perde nell’Oriente
e nel tempo. Egli è un piccolo uomo complicatissimo; non mai uomo semplice, e
tutt’altro che materia bruta da sensazioni. Potrebbe essere altrimenti, se egli
è il vecchio Ulisse, arrugginito in mediocri casi, ma anche affinato in una
sottile civiltà?
Il monologo interiore, contrappuntato dai boborigmi dell’incosciente,
è stato il razzo popolare della fama di Joyce. Conviene però soggiungere che la
ricchezza di associazioni con tutte le forme della vita intellettuale, e la
naturalezza con che vi si prestano i suoi personaggi, è il segreto del sempre
rinnovato fascino del libro. La sua maestosa universalità, non la
giustapposizione melodica degli accidenti interni, giustifica le sue
proporzioni. Esso ha qualche cosa di medioevale, una sua anima costruttiva che
tende a rinserrar tutto; è nella linea della Commedia, nel sistema mentale di Amleto educato a Heidelberg, nel
mondo cabalistico e scolastico del dottor Faust. È assiso anch’esso sopra
l’antichità. Quella idea di ricalcare il disegno d’un poema omerico in
un’analisi attuale del mondo interno dell’uomo, è un’idea proprio da mente
erudita, soggiogata dall’autorità esterna dei testi, bisognosa di vincolarsi a
ciò che è scritto. Tanto più che il ricalco non è affatto limitato ad ariose
analogie in grandi linee, come potrebbe credersi e come io stesso credetti alla
prima superficiale lettura, anche dopo i chiarimenti del romanziere.
Il libro del Gilbert è a questo proposito di una chiarezza definitiva.
Esso toglie ogni dubbio quanto all’essere il riscontro omerico condotto fino ai
più piccoli particolari. Rintracciabile nelle più labili allusioni, nelle più
caratteristiche idee, nelle strutture più minute del libro. L’Odissea è la chiave che di questo enorme
mobile apre tutti i cassetti segreti. Una Odissea
che frattanto ha vissuto la sua storia: che è stata posseduta criticamente,
irradiata dalla filologia moderna, controllata dai celebri studi di Victor
Bérard. Ma tutto ciò non dirada i vincoli, bensì li rende più numerosi e
tegnenti. Joyce sa tutto, e tien conto strettamente di tutto. All’apparenza si
direbbe che voglia legarsi senza remissione, negare al suo canto ogni
possibilità di esser libero. Invece tutto gli serve; tutto gli è stimolo. Ogni
vincolo gli dà uno scatto di molla nascosta. Pure sempre fra quei due righi
inesorabilmente paralleli: i casi dell’Odissea
e la proiezione di quei casi nella vita umile odierna.
Proiezione apparentemente degradata e deforme. Ma non poi tanto. Mercé
le infinite connessure dell’analisi interiore, mercé la leggenda e la storia,
la teologia e la retorica, la letteratura e la filosofia, l’architettura e la
meccanica, la medicina e la magìa, ottiene anche Joyce un’amplificazione, una
vastità, la quale a modo suo, certo bizzarramente, risponde al grande afflato
che alla narrazione d’Omero veniva nell’immensità del cielo e dai venti del mare.
Si leggono di continuo nel libro i segni furbeschi della parodia; ma
esso non è tutto parodia, né questa è l’essenziale. «Joyce è un uomo senza
religione, ma non irreligioso», osservava già il buon Francini, che lo conosce
come pochi. Così in tutto questo libro empio e sarcastico v’è la sensazione di
un abisso di profondo mistero, dove sta qualche cosa a che Joyce tenta
dirigersi come al polo di un’oscura fede. Il mondo, così frastagliato, pure è
costrutto. Non esiste disarmonia. Il mondo canta. I contrari si conciliano.
Nell’avviluppato caos fanno chiarità e ordine certe cicliche leggi. In
trasmutazione di luoghi e di tempi, si ripetono gli stessi destini, gli eterni
ritorni dello spirito umano nell’uomo. Il giovane Acheo sperduto, Stefano
Dedalus, della leggendaria colonia achea di Dublino, diveltosi dalla casa
paterna e dal putativo padre dublinese, va errando nella vita alla ricerca di
un vero padre, in cui trovi gli antecedenti che gli mancano, i complementari
senza i quali la sua anima è un tessuto inconsistente di intellettualismi
irsuti. Ed avrà alfine a trovare questo padre nel vecchio fenicio Leopoldo
Bloom, uomo di molti negozi, di molte esperienze, di molte patrie e di nessuna,
di acutissima sensualità sempre eccitabile e sempre errabonda, di piccola
realtà, ma infinitamente dilatabile per tutto quello che in lui agisce della
sua preistoria lontana. Bloom cerca anch’egli un figliuolo, ché ne ha perduto
uno, ed era negli anni suoi di fanciullo. I due uomini si avvicinano, si
fondono, quel giovane Acheo e quel Fenicio, quello speronato intellettuale e
quel randagio sensuale. La signora Bloom, Penelope, in cui anche è Gea,
l’eterna madre degli uomini, li fonde anch’essa nel laborioso travaglio del suo
dormiveglia: benché consideri la cosa in modo alquanto diverso, e del tutto
femmineamente, e come si conviene ai suoi pensieri terrestri: e nel giovane
figlio incognito che entra nella casa, ella veda piuttosto un giovane amante,
che sorge su l’orizzonte perpetuamente irrequieto degli amori. Di che Freud si
rallegra. Ma è certo che la fusione di Stefano e di Bloom, del rigido
intelletto e della fluida esperienza sensitiva, si compie sopra tutto con
soddisfazione in Joyce stesso, nell’autore consapevole, che ha cercato di
vedere dentro di sé.
Si deve credere che egli si sia sentito vivere molto come Stefano,
molto come Bloom. Più volte, in quest’ultimo anno suo di vita triestina, egli è
venuto a tentarmi perché lo seguissi in qualche osteria di Città Vecchia a lui
cara, a chiacchierare fumando la pipa e trincando, come sempre è piaciuto, del
resto, a poeti e filosofi. Io non gli nascondevo che la tentazione era forte;
ma dovevo pure rappresentargli che un direttore di giornale, in tempi così
agitati, non poteva permettersi la dolce diserzione del suo posto e della sua
scrivania. Joyce aveva in quel tempo la passione del Chianti chiaro e della
cucina toscana, ed amava pranzare spesso da Francini, e trattenersi colà fino a
ore piccine. Francini, allora ufficiale dell’Esercito, s’era fatto assegnare un
appartamento al quarto piano della casa dove abito io. Là si recava Joyce quasi
ogni settimana con tutta la famiglia, e ad una certa ora, per lo più molto
innanzi nella notte, sentivo, leggendo a letto, il parlottare represso della
comitiva che scendeva le scale e il passo pesante di Joyce, che non si era
fidava dei suoi occhi al lume tremolante della candela. Una sera accettai di
essere loro compagno.
Fu una serata molto allegra, benché l’allegria dei nordici non abbia
la chiassosità di certe nostre allegrie familiari. Ma a ciò provvedeva
Francini. Joyce era accompagnato dalla moglie, signora dalla svelta bionda
bellezza, con una fisionomia statica in lineamenti di quasi greca regolarità.
Avevano con loro i ben cresciuti figlioli: poiché non v’è famiglia più strettamente
unita di questa. Joyce disse un mondo di bene di Linati, con cui era entrato in
corrispondenza: e, mi esaltò gli scrittori suoi amici. Wyndham-Lewis, il poeta
Ezra Pound e alcuni altri, raccomandandomi di leggere i loro libri. Egli, ho
detto, è un’anima fedele. Dopo il pranzo, scostata un po’ la poltrona dalla
tavola, si accinse a cantare. Abitudine sua fin dalla prima giovinezza, quando
credeva che si sarebbe dedicato alla musica e sarebbe divenuto uno dei non
pochi celebri tenori irlandesi. Cantò musica da chiesa. E pareva tutto assorto
nel canto. L’autore di Ulysses.
Fu quella anche una delle ultime volte che lo vidi. I suoi giorni
triestini precipitavano. Si era accasato alla meglio presso suo fratello;
stavano tutti a disagio, e non c’era caso che si trovasse a Trieste un
appartamento per James Joyce. Tempi davvero strani. Egli n’era esasperato,
poiché gli pareva di poter vivere felice solo a Trieste. Ma un giorno si diede
per vinto, oppure gli parve di dover seguire un cenno del destino: e se ne andò
a Parigi.
SILVIO BENCO
ALESSANDRO FRANCINI BRUNI, Joyce intimo spogliato in piazza. Editoriale
Libraria, Trieste, 1922. - STUART GILBERT, James
Joyce «Ulysses». A study. Faber
and Faber, London, 1930.