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martedì 13 gennaio 2015

Voltaire e Segneri, ovvero La storia è una sequenza di bugie


Mail inviata il primo dicembre 2010

Da anni sperpero al vento, sia con scritti che oralmente, che tutta la “Storia” è fondata su grandi bugie, essendo sono stati i vincenti a scriverla. Fino a pochi decenni fa gli Hittiti erano “solo” una delle piccole tribù citate nella Bibbia. Oggi sappiamo che le loro leggi statali e le loro leggende - scritte su decine di migliaia di tavolette di terracotta emerse dagli scavi archeologici di Boğazköy (Hattusa) e Yazilikaya, siti da me visitati negli anni Ottanta - sono alla base del racconto biblico. Ma al popolo non si deve far sapere che i vincitori hanno derubato la cultura dei vinti. Di recente, l’ha detto e l’ha scritto anche Umberto Eco, quindi ho le spalle scoperte.
Si veda:
http://video.corriere.it/storia-fatta-grandi-falsi/127a9c26-f197-11df-8c4b-00144f02aabc
Umberto Eco, Il cimitero di Praga, pp 339-340.
Goody Jack, Il furto della storia, edito in Italia da Feltrinelli.

Oggi ho letto per la milionesima volta la storiella di una frasetta di Voltaire, che, come la citazione di Lapalisse, rientra tra i continui piccoli falsi, più difficili da estirpare dei grandi, perché “verità” imparata nelle aule scolastiche o peggio ancora su Wikipedia, dunque automaticamente “vera” (se la gente usasse riflettere, capirebbe che Lapalisse mai avrebbe potuto incidere la propria lastra tombale; dunque altri sono i responsabili della frase “lapalissiana”…).

Porto il mio contributo: così come Galilei non ha mai scritto: «Eppur si muove» e in nessun luogo delle opere di Machiavelli si trova «Il fine giustifica i mezzi», allo stesso modo Voltaire non ha mai scritto né detto «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire». E allora da dove nasce questa leggenda metropolitana?
Ricordo che il vanesio e inconcludente giornalista televisivo Sandro Paternostro - colui che aveva impostato il “canone” delle corrispondenze televisive da Londra sulla filiera tematica cappellini-della-regina, mostre-canine e via minchionando (e tutta l’Inghilterra di Hume e di Dickens, del Labour e di Shaw che vada a farsi benedire) - amava ripetere questa formula nel programma televisivo Diritto di replica, in onda nel 1991 su RaiTre, con Fabio Fazio co-conduttore.
Ma se François-Marie Arouet de Voltaire, signore di Ferney, non ha mai detto o scritto questa frase, come mai gliela si attribuisce?
Risposta: la sola versione nota di questa citazione è quella della scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, nascosta dietro lo pseudonimo S. G. Tallentyre: «I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it.», in The Friends of Voltaire, 1906, ripresa anche nel successivo Voltaire In His Letters, 1919.





Per chiudere la storia di questa falsa citazione, Charles Wirz, Conservatore de l’Institut et Musée Voltaire di Ginevra, ricordava nel 1994 che Miss Evelyn Beatrice Hall, mise, a torto, tra virgolette questa citazione in due opere da lei dedicate all’autore di Candide, e riconobbe espressamente che la citazione in questione non era autografa di Voltaire in una lettera del 9 maggio 1939, pubblicata nel 1943 nel tomo LVIII, intitolato Voltaire never said it, della rivista Modern language notes, Johns Hopkins Press, Baltimore, pp 534-535.
Ecco di seguito l’estratto della lettera in inglese:

«The phrase “I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it” which you have found in my book “Voltaire in His Letters” is my own expression and should not have been put in inverted commas. Please accept my apologies for having, quite unintentionally, misled you into thinking I was quoting a sentence used by Voltaire (or anyone else but myself).»

Le parole “my own” sono messe in corsivo intenzionalmente da Miss Hall nella sua lettera.
A credere poi a certi commentatori (Norbert Guterman, A Book of French Quotations, 1963), la frase starebbe anche in una lettera del 6 febbraio 1770 all’abate Le Riche, dove Voltaire direbbe: «Monsieur l’abbé, je déteste ce que vous écrivez, mais je donnerai ma vie pour que vous puissiez continuer à écrire.» Peccato che se si consulta la lettera citata, non si troverà né tale frase e nemmeno il concetto. Essendo breve tale lettera, è meglio citarla per intero e scrivere la parola fine su questa leggenda.

A M. Le Riche,
A Amiens.
6 février.
Vous avez quitté, monsieur, des Welches pour des Welches. Vous trouverez partout des barbares têtus. Le nombre des sages sera toujours petit. Il est vrai qu’il est augmenté; mais ce n’est rien en comparaison des sots; et, par malheur, on dit que Dieu est toujours pour les gros bataillons. Il faut que les honnêtes gens se tiennent serrés et couverts. Il n’y a pas moyen que leur petite troupe attaque le parti des fanatiques en rase campagne.
J’ai été très malade, je suis à la mort tous les hivers; c’est ce qui fait, monsieur, que je vous ai répondu si tard. Je n’en suis pas moins touché de votre souvenir. Continuez-moi votre amitié; elle me console de mes maux et des sottises du genre humain.
Recevez les assurances, etc.

Ma ormai la frase creata da Miss Hall aveva varcato l’Atlantico e dopo un piccolo rimbalzo nei circoli ristretti dei liberal era entrata nel formidabile circuito dei media americani, tramite il popolare Reader’s Digest (Giugno 1934) e la Saturday Review (11 Maggio 1935). E da allora la sua diffusione è stata inarrestabile.
Una piccola bugia in meno? Brutto esercizio se si ha in mente di far carriera nell’immondo della politica. Non imparerò mai.



Lo stesso giorno ho ricevuto questo commento, che mi ha dato il verso per riportare in auge Paolo Segneri, un personaggio su cui sono inciampato mentre scrivevo la biografia di Niccolò Stenone:

Wednesday, December 01, 2010 7:14 PM
Molto interessanti le specifiche su Voltaire. Spero (e visto il carattere dell’uomo potrebbe essere vero) che sia reale almeno l’aneddoto relativo all’avvicinarsi della morte. Ove non ti fosse noto (del che dubito) lo riporto: sembra che in quella occasione Voltaire chiedesse che gli venisse portato un costume da Arlecchino, allora chiamato “domino”. A chi gli chiedeva a che gli servisse (ed evidentemente pensava che la richiesta dipendesse dallo stato confusionale del coma) rispose: sta scritto “beati qui in Domino (o domino) moriuntur”. Se ti era nota AMEN. Ciao, PT

No. È un versetto dell’Apocalisse (vedi l’esegesi ad opera del gesuita Paolo Segneri), mai sulla bocca di Voltaire. C’est tout. Ciao











lunedì 30 giugno 2014

Da Parigi alla Pliniana (3)


feuilleton in tre puntate, #3

«Nella solitudine di un’insenatura, a ridosso del monte boscoso al limite est del territorio di Torno, la Villa Pliniana si profila nella sua misteriosa bellezza sul fianco roccioso del torrente omonimo che precipita dall’alto di una rupe con una cascata di circa 90 metri.»
[Da Nesso a Blevio, un lavoro di Pietro Müller
edito a Como da Pietro Cairoli, anno 1968, pagina 97].

Con atto notarile datato 25 novembre 1573 il governatore di Como, conte Giovanni Anguissola, acquista da Gerolamo Gallo l’intera area da questi posseduta a Torno, dando poi incarico all’Alessi (o al Pellegrini?) di abbattere la casa e i due mulini del Gallo e al loro posto erigere una residenza estiva a picco sul lago. Continua Müller: «Alla morte del Governatore (1578), dall’erede Conte Giulio la villa passò al Conte Pirro Borromeo Visconti (1590), poi ai Marchesi Canarisi di Torno (1676?) e, di proprietario in proprietario, ai Principi Belgioioso (1849)».

Vorrei crederle, caro Müller, ma non è proprio così. La Villa Pliniana era in possesso dei Belgiojoso ben prima del 1849, come imparo da alcune lettere scritte da Emilio e rese note da Léon Séché sotto il titolo Alfred de Musset (Documents inédits), Paris 1907, di cui ho una copia in casa. Da questa raccolta apprendo che il principe, lasciate le delizie austriache (J’ai ici tous les amusements possibles, école de natation, bon vin et bon dîner, et une énorme quantité de femmes), trascorre gli anni 1840 e 1841 a Milano, occupato a ricostruire la Pliniana per renderla una confortevole casa di campagna dove passare “quelques mois comme nous les aimons, aprés les fatigues du Grrrrrrand Mond”. E lui è uno che delle fatiche del grrrrrran mondo - bere, mangiare, cantare, ballare e far sesso - proprio non riesce a farne a meno.

Aggiungo: le acque che precipitano a lato della Villa Pliniana sono quelle del torrente di Val Colorée, mentre la Fonte Pliniana - tutt'altra cosa - sgorga da un anfratto inserito nella proprietà, con un suo sbocco autonomo nel Lario ai piedi delle mura della Villa.

* * * * *

Nel 1842 - mentre la sua sposa, la principessa Cristina, si trova a Locate, nella bassa Lombardia, qui accorsa per dare aiuto morale ai suoi contadini - il bell'Emilio riappare nei salotti di Parigi, ridando gioia alle tante signore rimaste orfane della sua voce …ma non solo. Fin da subito s’intuisce che le sue attenzioni sono tutte rivolte alla giovane dama bionda sposata all’iracondo conte di Plaisance. Il colpo di grazia arriva nel mese di giugno, quando Cristina rientra a Parigi, seppur con casa a Port-Marly, al 10 di rue de Paris. Malata di nervi, scossa dalla gelosia per l’amore pubblicamente esibito dal marito, la principessa non perde occasione per arrecare disturbo al ménage degli amanti.
La liaison tra i due corre di bocca in bocca e trovar loro un posto segreto dove incontrarsi diventa sempre più difficile. Sono questi i frangenti che fanno scaturire la proposta (in)decente: perché non fuggire e trovare riparo tra le mura della restaurata Pliniana? Immagino lui, il quarantenne uomo di mondo, intrigare la giovane amante (25 anni) raccontandole di come quelle mura abbiano ospitato poeti (l’innamorato Foscolo s’ispirò per il poemetto Le Grazie), musicisti (alla Pliniana in tre giorni Rossini aveva composto il Tancredi), scienziati (uno su tutti: Niccolò Stenone, elevato al rango di beato da Giovanni Paolo II), re e imperatori. Inoltre, a Milano lui ha tanti amici desiderosi di fare la sua conoscenza...

Quel che accade è subito detto: il 27 aprile 1843, al termine di una festosa serata tra amici, il principe Emilio di Belgiojoso e la contessa Anne de Plaisance, figlia di Berthier, principe di Wagram, in carrozza raggiungono i sobborghi di Parigi, dove amici fidati fanno trovare due cavalli sellati. La loro fuga ha inizio. Il giorno dopo, scoperta l’assenza della moglie, il conte di Plaisance manda a chiedere ai Wagram se per caso sua moglie si trovi a Grosbois, ospite del fratello. Ottenuta risposta negativa (e arrivata ai suoi orecchi la bisbigliata verità) sia lui che la madre di Anne cercano in tutti i modi di far arrestare i fuggiaschi, sapendo che dovranno passare i confini di Stato. Ma i due riescono a infilarsi tra le larghe maglie della polizia e calpestare il suolo italiano, dove, finalmente liberi, ben presto possono riposarsi dalle fatiche della lunga corsa entro le mura della Pliniana.
Gongolante di gioia per quanto accaduto è Alfred de Musset, l’ultimo degli spasimanti malamente respinto da Cristina, che in data 22 maggio 1843 annuncia la fuitina in una lettera che si legge a pag. 167 della già citata raccolta: «Je ne sais pas si vous savez, vous autres, à Catane, que le Principe *** a enlevé la comtesse de ***. Il y avait deux ans qu’ils étaient ensemble au su de tout Paris. La comtesse s’est disputée, à ce qu’il paraît, avec son mari; elle est arrivée chez le prince (qui devait chanter le soir dans un concert) ornée de son mouchoir pour tout bagage, et elle lui a dit: «Allons-nous-en!» Ils sont en route. Le vent est aux enlèvements à Paris, dans ce moment-ci, ou pour mieux dire, aux séparation. Je viens de voir de mes yeux la même plaisanterie, qui est beaucoup moins gaie qu’on ne pense. Je t’expliquerai cela un jour; mais si tu m’en crois, n’enlève jamais personne, à moins que ce ne soit la reine d’Espagne.» Inutile dire che dietro gli asterischi si celano i nomi dei due fuggiaschi.
Il 14 maggio 1843, il periodico la Caricature informa i parigini di questa incredibile storia, raccontando in prima pagina e in prima colonna - sotto il titolo Un principe e una principessa - del “rapimento” della nobildonna francese da parte di un nobile straniero. Nei giorni a seguire tutti gli altri periodici parigini danno grande risalto a questo “lutto” che ha colpito le grandi casate dei Plaisance e dei Wagram.

E gli amanti? Lontani dallo spettegolare dei giornali e dalle ipocrisie dei salotti si godono i loro corpi. Nel tempo rimasto libero praticano il nuoto e l’equitazione, mentre la sera viene dedicata a banchettare con gli amici - e tra questi vi sono i Sommariva (proprietari di Villa Carlotta), i Melzi (con villa a Bellagio), il marchese Arconati (anche lui con una villa sul lago), il conte Arrivabene, ma anche - orrore! - la principessa di Metternich, moglie dell’antico odiato nemico e ora, dopo gli anni d’ozio a Vienna, divenuto intimo di Emilio. In queste occasioni Anne si mette al piano e accompagna Emilio nel canto. Nei mesi estivi, irrinunciabile per Emilio e Anne è l’abitudine di avvolgersi nudi in un lenzuolo e gettarsi insieme dalla loggia nelle acque del Lario, gesto che ha dato origine alla leggenda del “fantasma del lago" che puntualmente appare a mezzanotte.

Il tempo scorre. Lontano da Torno - a Parigi, a Berlino - scoppiano moti di ribellione. Da parte sua Milano contribuisce al momento storico dando vita alle “cinque giornate”, con Radetzky costretto fuori dalla Lombardia. Esponenti della Giovine Italia, memori dell’antico ardore patriottico di Emilio e Cristina arrivano fiduciosi alla Pliniana, salvo poi ripartirne adirati per il tradimento del principe: Emilio, isolatosi da quel mondo che un tempo fu suo, vive gli accadimenti esterni con apatico distacco. Ora lui, precocemente incanutito, non desidera far altro che vivere pigramente in compagnia di Anne. Agli occhi degli ospiti la situazione è chiara: il focoso amante di un tempo si è mutato in un indolente marito. E lei, Anne, è ancora appagata da questo stile di vita? ci si chiede.

* * * * *

La Pliniana, per la sua posizione poco baciata dal sole, è fredda e umida per gran parte dell’anno. Al contrario, sull’opposta sponda del Lario, a Carate vi è un villino chiamato Il Ripiego: la sua posizione è amena e il sole vi è di casa. In gran segreto, nel 1852 Anne prende la decisione: dapprima stipula un contratto d’affitto e poi, in un caldo pomeriggio di giugno, mentre l’amico si riposa dormendo, carica pochi bagagli su di una barca e si fa trasportare sull’altra sponda del lago per installarsi tra le calde mura del Ripiego. Così, come oggi si farebbe con un sms, lei chiude per sempre la sua storia d’amore con Emilio, senza una parola.
L’abbandonato - ignaro (?) che l’amica ha trovato rifugio nella casa che lui vede al di là del lago, proprio di fronte alla Pliniana - dà sfogo alla sua rabbia inviando lettere su lettere all’amico parigino Alton Shée, in gran parte pubblicate nella sopra citata raccolta. Sono lettere cariche di smarrimento e di dolore per l’affronto subito, dove l’uomo ammette d’essere divenuto pigro, nemico del mondo, incapace di fare e ricevere visite e di trovare conforto solo con la lettura, il disegno, il cibo, i sigari, il sonno e, qualche rara volta, la musica.

Da Carate la notizia dell’abbandono del principe da parte di Anne raggiunge in fretta i salotti di Milano e di Parigi, dove i più sentenziano che per Emilio è arrivata l’ora di raccogliere quel che ha seminato. Il principe di Wagram, fratello di Anne, in cuor suo se ne rallegra: passata la bufera, l’amata sorella sarebbe certamente tornata a Grosbois, riaccolta in seno alla famiglia. Il conte Jules de Plaisance continua a dichiarare che per lui Anne è morta dal giorno della sua fuga da Parigi; oltre agli impegni politici - è deputato della Manica - e i suoi poderi da gestire, ha una figlia di 17 anni, Jeanne Lebrun de Plaisance, la figlia avuta da Anne, in procinto di sposarsi col trentaseienne Armand de Maillè de la Tour Landry, fratello del terzo duca di Maillé, consigliere generale e deputato del dipartimento di Maine-et-Loir.

Da par suo, Cristina di Belgiojoso - votatasi ad un cattolicesimo intransigente e rigoroso - è in procinto di partire per un lungo viaggio che la porterà in Grecia, Turchia, Siria e Palestina. Al suo rientro a Parigi trova un alloggio al n. 36 del Boulevard de Courcelles, dove, in un villino separato, ospita e fa curare lo storico Augustin Thierry, ormai cieco. Lanciata nel campo letterario, accanto ai libri filosofici la Belgiojoso non disdegna di pubblicare Scene della vita turca e Ricordi della Siria e dell’Asia minore, libri che le attirano nuovi consensi ma anche nuove inimicizie.

* * * * *

Sul Lario Anne apre la sua nuova casa agli ospiti che a frotte accorrono, desiderosi di conoscere il perché e il percome della sua frastornante decisione. Gli amici parigini di passaggio le portano le ultime notizie.
La villa è piccola, gli ospiti abbondano. A poca distanza, in quel di Moltrasio, i Passalacqua dispongono di una villa molto più spaziosa. Anne la visita: fa per lei e in breve tempo Il Palazzo di Moltrasio diventa, sotto la sua regìa, uno dei ritrovi più importanti della società lombarda. Di tanto in tanto Anne interrompe il suo isolamento lacustre per “scendere” a Milano, dove dispone di pied-à-terre di un sua proprietà.
Come si può immaginare, nel salotto di Moltrasio si presentano anche uomini decisi a conquistare il cuore di Anne. Il più focoso è certamente il conte Spaur, che per lei scialacqua una fortuna pur di tenerla avvolta nel lusso. Preoccupati dallo spreco di denaro, lo zio-tutore del conte austriaco ricorda al nipote che Anne è separata e che i Plaisance mai le concederanno il divorzio. Quindi, essendo di fatto il matrimonio impossibile, la sua relazione è destinata al fallimento: che le visite a quella donna abbiano fine! impone il severo tutore. Il nipote si ribella e si fionda sul lago, carico di nuovi costosi regali per la sua amata, ma lei, informata della guerra in atto in casa Spaur, reagisce respingendolo con toni definitivi: resa matura dalle esperienze vissute con suo marito e con Emilio, ora non vuole nuovi fardelli da portare.
Sull’altra sponda, Emilio passa le estati dedicandosi a piccoli lavoretti in giardino, accettando nei mesi invernali l’ospitalità offertagli dagli amici più intimi. Una vita, questa, destinata ad essere breve: distrutto dalla sifilide, il principe di Belgiojoso muore il 17 febbraio 1858, coi funerali celebrati tre giorni dopo nella milanese chiesa di San Fedele.

* * * * *

Saputa la morte di Emilio, Cristina a Parigi si dedica con ancor maggior impegno all’attività politica a fianco di Cavour e nella stesura di ponderosi libri.
A Moltrasio, anche per Anne (informata delle crudeltà riversate su di lei nei salotti parigini) è tempo di dare una svolta alla sua vita, restringendo il suo salotto a pochi ma fidati amici. Nel frattempo, suo fratello la informa che in seguito alla morte del padre il titolo di duca de Plaisance è stato ereditato da Jules e che a lei, perché non divorziata, compete il titolo di duchessa. Piccole soddisfazioni…

Il passare del tempo e il mutare degli accadimenti politici convincono Cristina a lasciare per sempre Parigi e tornare in Italia. Per l’occasione, sceglie quale nuova residenza una proprietà di famiglia a Oleggio Castello, sul lago Maggiore, punto strategico per le sue incursioni di carattere politico a Torino e a Milano. Nel tempo libero, scrive una Storia di Casa Savoia, che tanto piace a Camillo Benso.
Poi - galeotto l’ingresso a Milano di Napoleone III e Vittorio Emanuele, che di fatto mette una provvisoria parola fine alla guerra d’indipendenza, ma anche l’offerta dei cognati che le mettono a disposizione la Pliniana (e Cristina ovviamente rifiuta) - nasce in lei il desiderio di lasciare il lago Maggiore per trovare una miglior sistemazione sul Lario, acque che i medici ritengono più adatte per la cura delle sue malattie.
A Blevio la sua scelta cade sulla Villetta Schuwaloff, a suo tempo fatta edificare da un russo, il conte Gregorio Petrovich Schuwaloff, per degnamente ospitare una giovane donna di cui era perdutamente innamorato. Solo che lei morì presto e il conte, novello san Francesco, per lenire il dolore non trovò di meglio che recarsi a Parigi per indossare il saio dei Barnabiti, offrendo ogni suo bene mobile e immobile alla congrega. Ed è proprio dai Barnabiti che Cristina compra questa casa, dalle cui finestre - come in un gioco di specchi - può vedere, sulla riva opposta, la residenza di Anne.

Sul Lario lo spazio è ristretto, le notizie viaggiano. Cristina sente parlare della conversione di Anne, ora dedita alle opere di carità. Da parte sua Anne sente parlare degli impegni sociali, politici e religiosi di Cristina. A Moltrasio Anne ha chiuso il suo salotto, a Blevio Cristina ne apre uno, frequentato da letterati e politici italiani e stranieri. Ammalatasi gravemente, Anne riceve la visita di un “sant’uomo”, che si dice le sia stato inviato proprio da Cristina, desiderosa di salvarle l’anima: in questa occasione, convinta dal sacerdote, Anne si riavvicina alla fede perduta. Forte di questo successo, lo zelo cattolico di Cristina la spinge a proseguire: certa dell’imminente fine di Anne e sapendo della sua solitudine, l’ex rivale mette nero su bianco che lei si sarebbe impegnata, in caso di necessità, di far accudire Anne da qualche discreta persona e di darle un’onorevole sepoltura, chiedendo al municipio di Moltrasio la garanzia della presenza “in eterno” di fiori freschi sulla sua tomba.

Talvolta il destino gioca con carte truccate: mentre Anne si rimette dalla malattia, Cristina cade vittima di una ipertrofia del fegato e muore il 5 luglio 1871. Pochi mesi dopo, il 15 gennaio 1872, Anne resta vedova del duca di Plaisance; si consola sapendo che una nuova legge garantisce, in mancanza di figli maschi, il passaggio del titolo ducale allo sposo della figlia - che sa abitare una bella residenza alla Jumellière, nel Maine-et-Loir. Tutte notizie, queste, che pian piano la convincono che per lei è arrivato il momento di rientrare a Parigi, se non altro per riabbracciare l’amato fratello e - perché no? - azzardare un approccio con la figlia.
Rassicurata dagli amici, nel giugno del 1878 si decide al grande passo, quando un forte raffreddore la ferma. Ripartirò in luglio, dice. Ma il raffreddore si trasforma in bronchite acuta, con febbre continua. Il genero di Cristina di Belgiojoso, marchese Lodovico Trotti-Bentivoglio, rispettoso delle volontà della suocera, invia il nobiluomo Luigi Vigoni al capezzale dell’ammalata. Questi vi arriva il 19 luglio e la sera stessa scrive un biglietto per informare che la duchessa di Plaisance è agli estremi. Tre giorni dopo, il 22 luglio, Vigoni invia al Trotti un messaggio urgente: «Mio caro Lodovico, due sole righe per dirti, che la duchessa di Plaisance, è spirata stamane alle ore 5,30 antimeridiane.»
Un anno dopo, la salma di Anne Berthier lascia il cimitero di Moltrasio per essere tumulata, per volontà del fratello, in territorio francese, nell’arca dei principi di Wagram.
(La saga si è conclusa).

© Testo e immagini di Giancarlo Mauri





















mercoledì 11 giugno 2014

La “grotta di Stenone” in Val di Gresta


Pra da Lac, lo dice il nome, è il fondo di un antico lago. Qui inizia il sentiero per la cosiddetta Ghiacciaia di Stenone. Le rocce su cui si cammina sono i resti della frana del più imponente vulcano del Trentino, che ammontonandosi l’una sull’altra hanno prodotto numerose caverne che d’estate si trasformano in ghiacciaie. Al primo impatto, la forte umidità calda rimanda ai Paesi monsonici, qui attraversata da soffi d’aria gelida.

La cosiddetta “grotta” è stato un importante gradino per la comprensione dei fenomeni fisici studiati e compresi da Steen Neelsen, in arte Niccolò Stenone, ritenuto un padre della geologia, della paleontologia e ...dell’anatomia, la sua vera professione. Un uomo importante per il progresso della Scienza, subito dimenticato “anche” per la grave colpa di aver abbandonato la religione nativa (luteranesimo) per diventare un “papista”. Due anni dopo aver indossato la tonaca il papa lo nomina vescovo titolare della dimenticata sede di Titopoli.

Prendendo fin troppo sul serio (per i tempi in cui viveva) gli obblighi derivati dal nuovo ruolo sociale, il Danese abbandona definitivamente gli studi scientifici (e la Corte dei Medici di Firenze) per dedicarsi anima e corpo al nuovo incarico, professando nelle difficili terre germaniche. I suoi successi - ma soprattutto le sue lettere inviate al Papa, dove inutilmente racconta l’immorale stile di vita del clero cattolico - gli attirano l’invidia dei nani, prelati che con la scusa delle opinioni religiose lo attaccano sul piano personale, gettando l’ombra del dubbio sui suoi meriti scientifici.

In Val di Gresta Stenone getta le basi per lo studio della “scienza alpina”, comprendendo il processo chimico che forma il ghiaccio d’estate, trovando una successiva conferma scendendo nella ghiacciaia del Moncodeno, in Grigna.

Morto all’età di 48 anni a Schwerin, Stenone trova una prima sepoltura in una chiesa luterana. In seguito, Cosimo III di Toscana brigherà (pagando non pochi soldi) per il furtivo trasferimento della spoglia a Firenze, tumulata nella basilica di San Lorenzo, a non molta distanza da un altro vescovo, Paolo Giovio comasco, l’esatto opposto dello Stenone; ma questa è tutta un’altra storia.
In tempi a noi più recenti, Giovanni Paolo II “su invito dei medici e degli scienziati cattolici” lo innalza agli onori di “beato” di Santa Romana Chiesa.

Tutto questo a me pare un buon motivo per tornare di tanto in tanto nella trentina Val di Gresta per rendere omaggio ad uno dei più grandi cervelli dell’umanità, uomo che sebbene animato da una profonda fede mai si lasciò trarre in inganno dai dogmi. Per lui il cuore era soltanto un muscolo e mai la sede del “calore”; il cervello mai avrebbe contenuto l’anima, come altri volevano far credere. E tutto questo Stenone lo ha pure messo nero su bianco, in tempi in cui i roghi erano sempre accesi.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI






martedì 10 giugno 2014

Dei de Spech, di Giovanni Gavazzi e di Lorentino


Leggere che un cardinale “molto probabilmente trascorrerà qualche giorno di vacanza a Lorentino” (la solita notizia falsa ad hoc: infatti non ci è andato…) e pensare ai nobili de Spech è stato un tutt’uno.

Spiego. I de Spech entrano nella mia vita alcuni anni fa, ai tempi in cui giravo per archivi italiani e stranieri alla ricerca di ogni possibile manoscritto utile a realizzare una vecchia idea: scrivere le “Vite” degli scienziati e letterati esploratori del Gruppo delle Grigne, da Leonardo fino a Giovanni Gavazzi, l’autore del primo scritto a carattere prettamente sportivo. “Vite” non scritte alla maniera del Vasari, il cui miglior commento critico [mio] resta: “quel che non conosceva, lui lo inventava. E tanto inventò”.
I copiatori dai libri altrui - a loro volta copiati da altri che copiaron da altri - hanno sempre deriso Giovanni Gavazzi solo perché ...lo aveva fatto l’onorevole Mario Cermenati in un suo scritto del 1899. Ovviamente, nessuna di queste penne “d’oro o di ferro” - per dirla alla Paolo Giovio - ha mai speso tempo e denaro per indagare sul Gavazzi: chi era, qual’era la sua professione, perché decise di salire sul Grignone per aprire una via “mai percorsa da altri” in compagnia di una celebrata guida di Courmayeur. Ma anche: cosa si celava dietro quel suo stile di scrittura, ostico ai letterati del suo tempo e per questo sbeffeggiato dal botanico Vincenzo Cesati, barone di Vigadore con residenza a Napoli?
Io l’ho fatto, aiutato in questo da due archivisti - Barbara Gariboldi e Roberto Gollo - e da due bibliotecari: Alberto Benini e Anna Pezzolo. A Canzo ho sempre potuto contare sulla gentilezza di Milena Longa, mentre Emilia, Giulia e Paolo Balossi Restelli mi hanno aperto le case “Gavazzi” di Milano e Canzo. Infine, ma non ultimo, Gerolamo Gavazzi mi ha fatto dono di un suo libro prezioso.

In seguito, per garantire una sequenza temporale, la monografia su Giovanni Gavazzi - la prima da me scritta - ha ceduto il passo ad altri due pezzi da novanta: Leonardo da Vinci e il beato Niccolò Stenone, di cui ho pubblicato nel 2012 le monografie sui loro viaggi (o presunti tali per LdV) in Grigna. Non solo: per dare un senso compiuto alle ricerche di Stenone sui nostri monti ho voluto raccontarne la vita, realizzando (forse) la più completa biografia mai scritta su di lui, arricchita dalla riproduzione fotografica dell’intera lettera inviata a Cosimo III di Toscana per metterlo al corrente degli esiti del viaggio alle grotte di Gresta e del Moncodine, manoscritto rimasto sconosciuto anche a Mario Cermenati, che prese le sue informazioni - così lui stesso dichiara - dalle monche Lettere inedite pubblicate dal Fabroni nel 1775 (lo stesso che aveva fatto Angelo Bellani per un suo libro pubblicato nel 1816).

Per i lettori di questo blog anticipo alcune righe sul rapporto che univa gli Spech a Giovanni Gavazzi e all’abitato di Lorentino, estrapolate dal mio tuttora inedito libro.

I NOBILI DE SPECH. D’origine tedesca, dal 5 luglio 1754 i fratelli Giorgio e Carlo Andrea Spech si ritrovano ascritti alla nobiltà magiara. Firmando il diploma, l’imperatrice Maria Teresa ricompensa i servigi resi da Carlo Andrea alla Corona d’Ungheria in qualità di commissario imperiale di guerra in Lombardia e, in data incerta, questi viene inviato a Milano per mettersi a disposizione del ministro plenipotenziario, il trentino Carlo Gottardo (detto Giuseppe) conte di Firmian, con l’incarico di Capo commissario di guerra in Italia. Nel 1768 Carlo Andrea è pure insignito del titolo di Reale imperiale consigliere.
È a lui che Carlo Porta dedica il sonetto che Raffaello Barbiera, curatore del volume Poesie edite, inedite e rare di Carlo Porta, così introduce: «Questo epitaffio-epigramma colpisce un consigliere Spech, e fu scritto, a quanto sembra, in un momento di malumore quando quel magistrato era vivo. Finora non fu mai pubblicato, forse per un riguardo all’egregia famiglia di quel nome; ma ogni titubanza di editori cessa quando vogliasi ripetere l’avvertenza che si legge in un manoscritto conservato all’Ambrosiana: “L’epigramma esagera. Era uomo (lo Spech) un po’ debole e di vedute poco larghe, ma non era cuore di Giuda come qui si dice.”»

EPITAFFIO
                 Chì sott gh’è el corp del sur Consejer Spech
che l’è staa in vitta sova on gran boricch,
bravo domà per fà salamelecch
col coeur de Giuda e el muso de Berlicch;
el mond cont la soa mort l’ha perduu pocch,
e ha quistaa un sant el paradis di occh.

Traduco per i non langobardi:

Qui sotto c’è il corpo del signor Consigliere Spech
che è stato in vita sua un gran burricco,
bravo solamente a far sala­melecchi
col cuore di Giuda e il muso di Berlicche;
il mondo con la sua morte ha perso poco,
mentre ha acquistato un santo il paradiso delle oche.

Prima di scendere «al paradis di occh» (l’inferno) l’imperiale consigliere trova il tempo di sposare Maria Anna Hurnegli e poi, in seconde nozze, la dama di corte Marianna de Hüting-Ongarere, che lo rende padre di Francesco Zaverio (1766-1828), futuro «Nobile ungherese, Consigliere della Comunità, Direttore delle Poste, Magistrato integerrimo, Uomo pio e virtuoso, Ottimo padre» (come recita il bugiardino tombale).
Moglie di Francesco Zaverio è Paolina Valsecchi, figlia di ricchi possidenti terrieri in Lorentino, amena località utilizzata dai de Spech dapprima per le vacanze e poi per l’eterno riposo. Dalla loro unione nasce il «Vir ille simplex et rectus» Andrea (1792-1870), Scudiero imperiale e Cavaliere dell’impero, marito della contessa Francesca Nugent e poi di Costanza Canziani. Tra i figli di primo letto troviamo Francesco, Scudiero di corte per diritto ereditario e Guardia nobile dal 1842, uno dei principali proprietari terrieri di San Pietro all’Olmo, località dove Giovanni Maria Gavazzi ha impiantato una filanda, con la residenza padronale sulla piazza del paese e frequentata dai coniugi-cugini Giovanni Battista Gavazzi ed Emilia Gavazzi in Gavazzi.

Tutto cambia dopo il 15 marzo 1864, quando a Milano muore Gio.Batta, lasciando la vedova finalmente libera di frequentare l’amato Francesco de Spech, ma è solo dopo la morte di Andrea de Spech (1870) che i due colombi possono regolarizzare la loro posizione di fronte agli ipocriti convolando a nozze.
Qualche anno più tardi - il 6 luglio 1876, due giorni prima di festeggiare i suoi sessant’anni di vita - Francesco adotta l’ormai sposato (e con prole) figlio della moglie, Giovanni Gavazzi, trasmettendogli con decreto regio il proprio titolo nobiliare. Accettando, Giovanni Gavazzi de Spech diventa il primo ed unico nobile che abbia mai avuto la ramificata dinastia dei Gavazzi, noti tra il popolo come "quelli delle filande" e delle banche (e non solo).
Nella ristretta società di Milano il gesto non passa inosservato e i pettegoli hanno di che riempirsi d’aria la bocca: loro ‘già sapevano’ che Giovanni Gavazzi non era figlio di GioBatta, bensì il frutto nato dalla relazione extraconiugale tra Emilia e il de Spech. E adesso, sposando la vedova e adottandone il figlio, il nobiluomo ‘conferma’ la vox populi. Si aggiunga: il nuovo marito è più giovane di quattro anni della sposa ed ha vent’anni di meno del de cujus

Come detto sopra, alcuni dei sopracitati de Spech godono il meritato riposo nel cimitero di Lorentino, disturbati di tanto in tanto dalla mia visita: dopo aver tanto frugato tra i loro panni li “sento di casa”, quindi andarli a trovare è per me un piacevole dovere.

© testo e foto di Giancarlo Mauri


La Cappella Spech a Lorentino


ANDREA SPECH
Figlio di Francesco Zaverio
e di Paolina Valsecchi
Vir ille simplex et rectus (Job. 1)
Milano XXII luglio MDCCCXCII
Milano XXX magio MDCCCLXXX
Quì riposa
COSTANZA SPECH CANZIANI
morta in Milano
XV dicembre MDCCCLXI
Ma noi andremo a lei (Davide)
Sorgono i figli ed il marito
per dar lode alla donna forte (Prov.)


FRANCESCO ZAVERIO SPECH
Nobile ungherese
Consigliere della Comunità
Direttore delle Poste
Magistrato integerrimo
Uomo pio e virtuoso
Ottimo padre
Morto li 6 ottobre 1828
d'anni 62
I figli Andrea e Arianna Posero
Commemorando il ....LRN.....

MARIANNA SPECH
Del nobile Francesco Zaverio
Morta il 26 luglio 1862
Pia, modesta, benefica
Il fratello Andrea pose
per ricordanza delle sue virtù
Dormiam cum patribus meis (Genesi)

+ A Spech nobile Francesca
nata contessa Nugent
morta in Milano
il XXXI agosto MDCCCXVIII
nella giovenile età d'anni XXV
pia caritatevole amorosa
i figli
Matilde Giulia e Francesco
a perpetuo ricordo posero

mercoledì 21 maggio 2014

Ignoranza ben coltivata


Ho sfogliato il “Mundus subterraneus” di Athanasius Kircher, édito in anastatica da Forni, Bologna. Un’opera affascinante, questa, di cui ho una copia della editio princeps (1578). Non cartacea, purtroppo, ma in formato digitale, che mi è costata 107.526 kB di memoria, visto che la scannerizzazione e l’invio mi è stato offerto da una università statunitense. In Italia, invece, se non sei un docente e osi chiedere per ragioni di studio le fotocopie di un articolo a una biblioteca universitaria, questa ti obbliga all’intermediazione di una biblioteca scolastica o civica e al pagamento anticipato delle spese. Diversi modi di intendere la propagazione della cultura: per gli ignoranti è sempre “cosa nostra”. Il tutto avallato dal politicante di turno: “Con la cultura non si mangia” disse uno di loro. Basta chiarire cosa lui intendeva dire con quel “non si mangia”…

Kircher è entrato di prepotenza nella mia vita fin da quando ho preso a occuparmi di Steensen-Stenone: i due si scrivevano lettere su temi religiosi e scientifici - difficili questi ultimi da trattare, essendo il primo un Gesuita l’altro prossimo all’abito vescovile, dunque persone attente a non uscire dai limiti imposti dagli interessi curiali: tutto lo scibile era già scritto nei “libri sacri” del popolo ebraico, rivisitato e scorretto col nome di Vecchio Testamento. Secoli e secoli dopo Eratostene la Terra doveva restare quadrata e il Cielo non poteva essere esplorato col cannocchiale, demoniaco oggetto che avrebbe potuto svelare che lassù, sopra le nuvole, forse non albergavano divinità.
A tal proposito, si legge in Collection de Documents Inédits sur l’Histoire de France publiés par le soins du Ministre de l’Instruction Publique. Tome 2. Paris, Imprimerie Nationale, 1883, p. 395 : “Le 28 avril [1665], Chapelain entretient Huet de l’apparition d’une nouvelle comète: «Je ne l’ay point encore veűe à cause d’un rhume qui me travaille depuis douze jours. On vous aura sans doute envoyé une lettre de Mr Auzout accompagnée de remarques sur le discours italien du sieur Campani touchant les longues lunettes qu’il a faittes et touchant ses descouvertes nouvelles dans les disques de Saturne et de Jupiter. Elle me fust prestée avant hier par Mr de Salo et la lecture m’en a satisfait au delà de mon attente. Ce signor Campani tombe d’accord de l’anneau de Saturne trouvé par Mr Huggens et Mr Auzout défend du décret de l’Inquisition le mouvement de la terre et l’immobilité du Soleil, mais avec beaucoup de respect et de modestie chrestienne.»”

Ai limiti curiali si aggiunse la datazione formulata dall’arcivescovo irlandese James Ussher, uomo che tra il 1650 e il 1654 aveva dato alle stampe una mastodontica cronologia (The Whole Works) che arrivava a definire l’anno, il mese e il giorno in cui il Dio proprio delle tribù ebraiche aveva creato il Cosmo, la Terra, gli alberi, gli animali, Adamo (“a sua immagine e somiglianza”, dunque di fattezze arabo-palestinesi). Solo più tardi il Grande Architetto pensò alla controparte femminile (per i fiori e gli animali, invece, aveva già provveduto). Di quest’opera, stampata in latino ma col doppio titolo in inglese, utile è il volume VIII, quello che illustra attimo dopo attimo i giorni della Creazione, che Ussher stabilisce essere accaduti nell’anno 4004 avanti Cristo. Alle pp. 13 e 14 si legge: «In principio creavit Deus cœlum et terram, quod temporis principium, juxta nostra chronologiam, incidit in noctis illius initium, quæ vigesimum tertium diem Octobris præcessit, in anno periodi Julianæ 710», che una sua nota equipara all’anno 4004 a.C. Aggiunge: «Septimo die, Octobris vigesimo nono, feria septima, cum perfecisset Deus opus suum quod fecerat, quievit ab omni opera; et dici septimo benedicens, Sabbatum instituit et consecravit». Questa datazione, stampata su ogni copia della King James Bible dal 1701 in poi, ha ancora un suo seguito tra i creatoristi più intransigenti.

In seguito, per meglio divulgare quest’opera enciclopedica, lo stesso Ussher ridusse il testo ad un solo volume, pubblicato col titolo The Annals The World. London. Printed by E. Tyler, for F. Crook, and G. Bedell, 1658. Già dalle prime pagine, che qui riprendo dal libro senza aggiunte né omissioni, si impara quanto segue:

The Annals of the Old Testament from the Beginning of the World
The First Age of the World

1a AM, 710 JP, 4004 BC
1. In the beginning God created the heaven and the earth. Ge 1:1 This beginning of time, according to our chronology, happened at the start of the evening preceding the 23rd day of October in the year of the Julian calendar, 710.
2. On the first day Ge 1:1-5 of the world, on Sunday, October 23rd, God created the highest heaven and the angels. When he finished, as it were, the roof of this building, he started with the foundation of this wonderful fabric of the world. He fashioned this lower most globe, consisting of the deep and of the earth. Therefore all the choir of angels sang together and magnified his name. Job 38:7 When the earth was without form and void and darkness covered the face of the deep, God created light on the very middle of the first day. God divided this from the darkness and called the one “day” and the other “night”.
3. On the second day Ge 1:6-8 (Monday, October 24th) after the firmament or heaven was finished, the waters above were separated from the waters here below enclosing the earth.
4. On the third day Ge 1:9-13 (Tuesday, October 25th) when these waters below ran together into one place, the dry land appeared. From this collection of the waters God made a sea, sending out from here the rivers, which were to return there again. Ec 1:7 He caused the earth to bud and bring forth all kinds of herbs and plants with seeds and fruits. Most importantly, he enriched the garden of Eden with plants, for among them grew the tree of life and the tree of knowledge of good and evil. Ge 2:8,9
5. On the fourth day (Wednesday, October 26th) the sun, the moon and the rest of the stars were created.
6. On the fifth day (Thursday, October 27th) fish and flying birds were created and commanded to multiply and fill the sea and the earth.
7. On the sixth day (Friday, October 28th) the living crcatures of the earth were created as well as the creeping creatures. Last of all, man was created after the imagc of God, which consisted principally in the divine knowledge of the mind, Col 3:10 in the natural and proper sanctity of his will. Eph 4:24 When all living creatures by the divine power were brought before him, Adam gave them their names. Among all of these, he found no one to help him like himself. Lest he should be destitute of a suitable companion, God took a rib out of his side while he slept and fashioned it into a woman. He gave her to him for a wife, establishing by it the law of marriage between them. He blessed them and bade them to be fruitful and multiply. God gave them dominion over all living creatures. God provided a large portion of food and sustenance for them to live on. To conclude, because sin had not yet entered into the world, God saw every thing that he had made, and, behold, it was very good. And the evening and the morning were the sixth day. Ge 1:31
8. Now on the seventh day, (Saturday, October 29th) when God had fìnished his work which he intended, he then rested from all labour. He blessed the seventh day and ordained and consecrated the sabbath Ge 2:2,3 because he rested on it Ex 31:17 and refreshed himself. Nor as yet (for ought appears) had sin entered into the world. Nor was there any punishment given by God, either upon mankind, or upon angels. Hence is was, that this day was set forth for a sign, as well as for our sanctifìcation in this world Ex 31:13 of that eternal sabbath, to be enjoyed in the world to come. In it we expect a full deliverance from sin and its dregs and all its punishments. Heb 4:4,9,10

Tradotto in parole povere, Ussher stabilisce “scientificamente” che l’intera Creazione è iniziata domenica (!!!) 23 ottobre per terminare sabato 28 ottobre dell'anno 4004 avanti Cristo. Dunque il compleanno di Adamo (e dell’umanità) cade il  27 ottobre, venerdì, lo stesso giorno della settimana in cui viene fatto morire il Messia - Xristòs in lingua greca - fatto scendere in Terra. Infatti, nella tradizione cristiana, Paolo (Lettera ai Romani) contrappone l’ebraico Adamo a Gesù: con il primo uomo sono entrati nel mondo il peccato e la morte, con il Redentore la grazia e la vita.

Anche, ma non solo, da questi limiti accettati e imposti dalla Chiesa nascono i numerosi abbagli attribuiti a uomini di fede e scienza quali erano Kircher e Stenone: se il Dio proprio del popolo ebraico aveva creato la Terra, affidandola in custodia alla “sua immagine e somiglianza” nel 4004 a.C., come potevano esistere reperti ossei, vegetali e minerali - ma anche graffiti, dipinti e manufatti - più vecchi di quella datazione? Di fronte a questi muri invalicabili, il terrore imponeva agli scienziati di chinare il capo. Perché Stenone aveva ben compreso - e Leonardo, vagamente, prima ancora - che i pesci fossili da lui trovati sui monti toscani non erano il risultato di un fantasioso “diluvio universale”, bensì la prova di sconvolgimenti terrestri molto più antichi dei limiti ussheriani... Ma le fiamme del rogo erano pronte a ricordare che certe cose era meglio non divulgarle alle masse. Al limite si potevano raccontare a poche ma altolocate persone, quelle che già sapevano. Il popolo era e doveva restare povero e ignorante: solo così si poteva farlo lavorare gratis e nel contempo tenerlo timorato.
L’affare Galilei era ben vivo nei ricordi del tempo. Meglio ancora, a ricordare i limiti imposti alla propagazione della conoscenza (e quindi alla pericolosissima arte della riflessione, bandita dalle scuole di ogni ordine e grado) vi era il rogo su cui era arso Giordano Bruno il 17 febbraio 1600, ma stavolta era di giovedì.

Conoscere i retroscena aiuta a comprendere i molti errori di questi grandi uomini di scienza, “bruciati” dai tempi in cui vivevano. Tempi che sembrano non finire mai: Forni ha pubblicato la prima anastatica dell’opera di Kircher nell’anno 2004. Sull’onda del successo di vendita, nell’anno 2011 lo stesso editore ha deciso di mettere sul mercato una seconda edizione. Una ristampa, questa, non più appesantita dai costi di riproduzione. E allora perché imporla a 230 euro? Forse per tener lontane le masse dal “sapere”, oggi come nel Seicento?

© testo di Giancarlo Mauri