Stamattina, del tutto casualmente, in una libreria ho
scoperto Eravamo immortali, libro che
mostra in copertina il volto del suo autore, Maurizio “Manolo” Zanella. Lo apro
e subito mi trovo alla pagina che il destino ha voluto propinarmi, dove
l’occhio sosta su due parole: Sass Maor. Fulmineo il collegamento: Sass Maor (si pronuncia Maòr),
via Biasin-Scalet, Gigi Grana. Leggo le righe sottostanti ed è proprio di quella
via che Manolo scrive, ricordando di averla ripetuta e menzionando che la sua
era la seconda ripetizione, anni dopo che altri ne avevano fatto la prima
“impiegando tre giorni” - il che non è del tutto vero.
Nel libro Manolo non rammenta i nomi di quei primi ripetitori (o secondi salitori che dir si voglia), ma io sì e voglio ricordarli adesso: Gigi Grana, Onorato Casiraghi e Alberto Maschio.
Una volta a casa ho cercato su internet e qui ho trovato Sass Maòr, la supermatita delle dolomiti,
uno scritto (ben illustrato) di Francesco Lamo postato il 9 giugno 2011 in
alpinesketches, da cui estraggo queste righe:
Nove anni più tardi, nell’agosto del 1964, venne realizzato uno dei
massimi capolavori nella parete sud-est: Samuele Scalet e Giancarlo Biasin
salirono in 3 giorni le grigie e ripide placche che partono verticalmente a
metà della «Banca Orba» e poi continuarono per gli spaventosi gialli
soprastanti. Nella parte strapiombante, un diedro giallo e nascosto, la
successiva traversata a sinistra e la serie di successive verticali placche
nere li condussero alla base della cupola strapiombante, che verrà risolta anche
con l’aiuto di qualche chiodo a pressione. Purtroppo, per una banale scivolata
sul sentiero del Cacciatore (e a salita compiuta), Biasin morì nella discesa e
Scalet decise di dedicargli la strabiliante salita. La tragedia lasciò tracce
così profonde in Samuele che decise addirittura di lasciare l’alpinismo.
Scalet dichiarò che in apertura furono usati oltre 200 chiodi, per
paura che la salita venisse svalutata, anche se in realtà ne piantarono poco
più di 30. In ogni caso la Biasin, come appunto viene comunemente indicata, fu
considerata per decenni uno dei banchi di prova per i Dolomitisti di tutta
Europa e rimane a tutt’oggi una bellissima salita, difficile ed estremamente
esposta. La sua chiodatura, mai troppo eccessiva, mantiene elevato l’impegno: nessun
ripetitore, nemmeno il più sfrontato, potrà mai affermare che la Biasin è una
salita mediocre o dal limitato significato estetico!
Sarà Gigi Grana, Onorato Casiraghi e Alberto Maschio ad effettuare la
prima ripetizione l’anno successivo, mentre il fuoriclasse Renato Casarotto
firmerà la prima solitaria invernale nel 1980. Nel 1979 il feltrino Maurizio
Zanolla (soprannominato Manolo) ripeterà la Biasin completamente in arrampicata
libera, toccando il 7c nello strapiombante muro finale. Attualmente, per chi
ripete la salita nello stile classico, le difficoltà toccano il VI+
(obbligatorio) e A0 con passi di A1, per un dislivello totale di 600 metri.
Seconda metà degli anni Sessanta. Avevo preso ad arrampicare
- il più delle volte in solitaria per mancanza di un socio - e il Rifugio della SEM dedicato allo “zio” Eubole
Cavalletti ai Piani Resinelli era il mio punto di riferimento. Qui, tra una
bisboccia e l’altra, conobbi molti alpinisti famosi, altri che lo sarebbero
diventati e altri che non ebbero modo di continuare. Erano gli anni dove erano
più frequenti i funerali che le feste. Fra tanti, solo alcuni di loro mi
regalarono una tangibile amicizia: Domenico Mazzini, Eriberto Pedrotti, Paolo
Armando, Giorgio Brianzi e Gigi Grana.
Col Dumenigh feci
non poche salite in Grigna, finché un giorno mi disse (in dialetto milanese,
ovviamente): sei bravo abbastanza per
farti una tua cordata - e mi trovai “licenziato”, in cerca di un secondo - che dopo varie avventure
trovai in Giuseppe Verderio, con cui feci cordata fissa fino al tragico 2 marzo
1969, quando lui precipitò dalla vetta della Medale. Eravamo fuori dalle
difficoltà, slegati e su di un sentiero, né più né meno di quel che era
accaduto a Giancarlo Biasin sul Sass Maor.
Reagii alla morte del Beppe
arrampicandomi sulla strapiombante lavagna (l’Onda la chiamano oggi) della parete nord-est del Corno Orientale di Canzo. In un gelido inizio di novembre, assicurato da Diego Pellacini, impiegai
due giorni per domare quello strapiombo, a cui diedi il nome Via Giuseppe Verderio. Poi abbandonai le
Grigne, i Corni di Canzo e presi a frequentare le Piccole Dolomiti vicentine,
territorio che Gigi Grana mi aveva dischiuso. Il venerdì sera le ruote del
Gilera 150 cc entravano in autostrada ad Agrate per uscire a Vicenza Ovest e da
qui per la SS46 fino al Rifugio Nerone Balasso, allora gestito da Mariateresa e
Cesco Zaltron.
Qui mi sentivo di casa
perché ritrovavo un amico: conclusa l’esperienza lavorativa in una fonderia di
Caronno Pertusella, Gigi Grana era tornato a Schio, la sua città natale.
Talvolta lo andavo a cercare a casa sua, dove abitava col padre rimasto vedovo,
talvolta ci incontravamo al Balasso. Un fatidico 8 giugno del 1969 - ma stavolta
eravamo dalla Lorenza, ex Colonia
alpina, a quei tempi un’osteria frequentata da chi andava in Pasubio - Gigi mi
presentò una ragazza dai biondi capelli.
- Ha frequentato il
corso roccia, mi disse Gigi, e adesso
la porto ad arrampicare per farle fare qualche bella via. Quel giorno si
andò insieme allo Spigolo del Primo Apostolo: Gigi capocordata, la ragazza
bionda saliva da secondo. Io seguivo con un altro compagno. Una volta in vetta
lei mi chiese: Dove abiti? Tagliai
corto, buttando lì: Milano.
- Milano? Un posto dove non andrò mai,
tranciò lei. Infatti …il 19 ottobre del 1970 un assessore ci dichiarava marito
e moglie, con residenza a due passi da Milano (e questo aneddoto vuole rimarcare
quanto l’aver conosciuto Gigi abbia influito sulla mia vita).
A sua volta Gigi si sposò con Bruna Sella, divenendo i
genitori di Silvia.
8 giugno 1969 - Daniella Forestan,
Gigi Grana e Maria Cichellero
Spigolo del Primo Apostolo
29 giugno 1969
Un passo indietro: anno 1968. Gigi aveva promesso ad alcuni
suoi amici che li avrebbe guidati sullo Spigolo del Velo, Pale di San Martino,
e per l’occasione mi chiese di essere della partita. Nel pomeriggio del 29
giugno, la Seicento del Beppe e le auto degli amici di Gigi (Piero Colombo, il Bula e Giancarlo Balossi) trovano un
posteggio in Val Canali. Sopra di noi incombe la Est del Sass Maor. Gigi mi
indica la via Biasin-Scalet, da lui ripetuta tre anni prima. Cambiamo gli abiti
da città con quelli da montagna, poi via verso il Rifugio Pradidali - e da qui
si ha una bella vista sulla Est del Sass Maor. Segue la via ferrata del Monte
di Ball e al calar della sera eccoci al bivacco del Velo. Tutte le cuccette
sono occupate, noi dormiamo per terra, su un lato del corpo, ché per stare
sul dorso non c’è lo spazio.
Strada facendo, Gigi mi racconta di quella salita, di cui poteva vantare
una primogenitura morale, essendo stato il primo (in cordata con Samuele Scalet) ad intuirne le possibilità, respinto
soltanto dalla volontà di non utilizzare i chiodi a pressione - strumenti poi
utilizzati da Biasin e Scalet per vincere lo strapiombo terminale. Vittoria triste la loro: durante la discesa, Biasin inciampò
in un pino mugo, perse l’equilibrio e cadde dalla parete.
Gigi mi parla dei fori minuscoli che non accettano i chiodi, problema
poi risolto grazie all’uso di un rampino, quel ferro che ai tempi delle stufe
economiche serviva per sollevare le piastre circolari messe tra il fuoco e la pentola
(ma anche per rimestare la legna, ravvivando la fiamma). Roba da mettere i brividi
…quindi invitante. Una volta a casa, mi sono rivolto ad un fabbro chiedendogli di
fabbricarne un paio, con robusto anello per poterci mettere il moschettone. Era
infatti mia intenzione di tentare la seconda ripetizione (o terza salita) della
via dedicata a Giancarlo Biasin …un altro sogno svanito dopo la morte del Beppe.
* * *
Avendo sposato una scledense era naturale che l’andirivieni
Lombardia-Veneto si incrementasse. A Schio viveva mia suocera, a cui ero legato
da sincero affetto. Alla nascita di Marco (1974) il mio andar per monti aveva
già cambiato registro: le vie in verticale-strapiombante avevano ceduto il
passo all’esplorazione di nuovi orizzonti. Ora mi dedicavo alla ricerca di
vecchi sentieri, ricostruendone la perduta storia, inanellando di tanto in
tanto delle ascensioni in solitaria. Presi anche ad interessarmi all’emergente
fenomeno delle vie attrezzate (o vie ferrate), di cui intendevo raccontarne la
genesi sulla Rivista della montagna, mensile a cui saltuariamente collaboravo.
Dopo il grandioso exploit della prima ascensione solitaria
dello spigolo del Sojo d’Uderle - una via firmata da Mario Boschetti e Cesco
Zaltron - portato a buon fine in un piovoso giorno di settembre, per Gigi Grana
la vita alpinistica si fece difficile. Un paio di incidenti stradali avevano
intaccato le sue ossa, l’impossibilità di cimentarsi su altre vie di sesto
grado ne intaccarono lo spirito. Quando ero a Schio lo andavo a trovare. Lui
era contento di vedermi ma restava un velo… Un giorno gli dissi:
- Perché domani
non vieni con me a fare la Mori al Monte Albano?
- Ma la Mori è una
ferrata, mi rispose piccato.
- Si, la Mori è una
ferrata, ribattei, ma tra lo stare a
casa e rimettere le mani sulla roccia non è meglio la seconda? Aggiunsi: e poi da quelle parti nessuno sa che sei un
accademico…
Intervenne Bruna: Ha
ragione Giancarlo; dai vai con lui che così ti svaghi un po’.
Il giorno dopo passai da casa sua e con la mia R4 arancione
valicammo il passo delle Fugazze (italianizzazione di fugassa, nome dialettale della merda vaccina, o boassa), scendemmo a Rovereto e da qui in
piano fino a Mori. Cordino e due moschettoni non ci mancavano, ma noi si andava
in libera, utilizzando al minimo indispensabile il ferro cementato alla parete, per lo più per le soste ad uso fotografico.
Man mano che salivamo Gigi riprendeva a vivere: aveva di nuovo il vuoto sotto
ai piedi e tanti ricordi affioravano:
- Giancarlo, non ti
pare che questo passaggio ricordi quello della Fox-Stenico all’Ambiez?
- Questo mi ricorda un
passaggio sulla nord della Grande (tra le altre, nel 1967 Gigi aveva
ripetuto l’Hasse-Brandler, una bella bestia da domare a quei tempi, quando si
arrampicava coi piedi infilati negli scarponi di cuoio).
Tra un ricordo e l’altro, in breve arrivammo in vetta - e
Gigi riprese la strada verso i monti, portando altre persone sulla Mori e
scoprendo altre vie similari: aveva compreso che essere accademici del CAI non
impedisce di potersi divertire sul facile.
Oggi Gigi lo vedo
di rado, ma sempre con gioia e immutato affetto: la tomba che condivide coi
suoi genitori è a pochi metri di distanza da quella di mia suocera e quando
passo non manco mai di fermarmi per un saluto.
NOTA: qualche anno fa sua figlia Silvia mi consegnò tutto
l’archivio alpinistico di Gigi. Ho passato quei documenti allo scanner e le ho
reso gli originali. Non nego che mi ha sorpreso non poco ritrovare i due fogli da lui utilizzati
per chiedere l’ammissione al CAAI.
Spiego: io avevo una Olivetti 22, Gigi i suoi manoscritti.
Una sera venne a casa mia e insieme scegliemmo quali salite proporre e quali
scartare. Poi, con Gigi seduto al mio fianco, presi a pestare sui tasti,
utilizzando sia il colore rosso che il colore blu. In seguito Gigi consegnò
quei due fogli a Nandino Nusdeo e ad Angelo Pizzocolo (il mitico Bufera), i due Accademici che avevano
deciso la sua cooptazione. Ammesso al CAAI con 36 voti su 36, appena ricevuto
il telegramma Gigi mi chiamò al telefono. Il pomeriggio del sabato successivo
io e il Beppe eravamo alla Trattoria
Stella, l’osteria con alloggio dove Gigi risiedeva a Caronno Pertusella - e
da qui la Seicento del Beppe impiegò nove ore per salire alla SEM, tanti erano
gli amici con cui condividere quel momento di gioia.
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Eriberto Pedrotti, Gigi Grana
Giuseppe Verderio, Armando Da Dalt
(Pian Schiavaneis, 10.08.1967)
In Grigna
DALL'ARCHIVIO PERSONALE DI
GIGI GRANA
Lettera di Angelo Pizzocolo
(Bufera)