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domenica 3 novembre 2019

Arrampicare ai Corni, 1969-2019 (4/7)


Estraggo dal mio archivio di note personali:

3 novembre 1969. Corno Orientale di Canzo, via nuova. Tutto come ieri: Diego a farmi sicurezza, Eraldo per un po’ sulle staffe, poi scende. Dall’ultimo chiodo di ieri mi servono 8 ore per uscire dallo strapiombo, dove la sosta è precaria e non c’è posto per due. Dietro di me, sullo strapiombo alcuni chiodi sono usciti dopo il mio passaggio. Diego si cala in doppia, raggiunge la vetta e con l’aiuto dei ragazzi del CAI di Melzo mi butta le corde. Esco in vetta assicurato a spalla da loro, e scopro che le difficoltà nel diedro terminale non superano il V+.

Il 3 novembre riprendo la via. In breve sono all’ultimo chiodo di ieri. Qui la verticale finisce e inizio il gioco nel vuoto. È tutto un equilibrio e un calcolo matematico: se infliggo i chiodi verso l’alto, mai potranno sostenere il mio peso. Devo quindi infliggerli con quanta maggior inclinazione possibile verso il basso, in modo da creare quel minimo di leva che mi permetterà di affidarmi a loro e procedere nel vuoto con mosse precise, da calibrare. Per una decina di metri tutto procede come da me calcolato - ma non avevo messo in conto la grattuggiatura delle nocche delle dita! - finché un chiodo decide di non collaborare e di colpo mi ritrovo a precipitare nel vuoto, lontano dalla parete. Il ghiaione, 200 metri più in basso, mi si avvicina un po’ troppo velocemente. Passo 3/4 metri all’esterno da Diego, ma non è tempo di saluti. Un forte colpo alle reni e mi ritrovo nel vuoto ruotando a 360 gradi per l’effetto delle corde in tensione. Metto le mani in tasca, prendo due cordini, faccio due nodi Prusik sulle corde e prendo a risalire la dozzina di metri che mi separano dal compagno. Le sue mani, come le mie, sono sporche di sangue, ma tutto è bene quando finisce bene. Devo risalire subito e riprendere l’ascensione, prima che cessi l’adrenalina e subentri il terrore (una volta a casa scoprirò d’avere due costole incrinate).
Ritorno al buco lasciato dal chiodo ingrato e riprovo una nuova foratura. Stavolta il chiodo tiene e posso avanzare di un metro. Sono in pieno strapiombo, legato a due corde da 40 metri e non vedo possibilità alcuna di far sosta al loro termine. O almeno: in alto, alla mia destra, la vista del cielo lascia intendere una possibilità. È lì che devo approdare. Piano piano, un metro alla volta, dopo tante ore eccomi sul bordo dello strapiombo, coi piedi finalmente appoggiati su di un’esigua scaglia di roccia. Cerco di mettere un chiodo di sicurezza, ma trovo solo piccole fessure cieche, dove un chiodo, piccolo tra l’altro, entra solo per metà. Far salire fin qui Diego è un duplice suicidio annunciato: mentre salivo, almeno cinque o sei chiodi “tirati” dalle corde sono fuorusciti dalla loro sede, rendendo impossibile il passaggio. Inoltre, la mia sosta è decisamente precaria e tornare indietro mi è impossibile.
Prendo una rapida decisione, che annuncio a Diego: mi slego e lascio cadere le corde nel vuoto. Una decisione suicida questa? No. Mi son detto: se mi slego, con le due corde Diego può scendere in doppia fino ai piedi della parete, da lì risalire alla Bocchetta di Luera e poi cercare, col mio aiuto, la direttrice da cui calarle e farmi sicurezza mentre esco dalla via. E così è stato, grazie all’aiuto dei ragazzi di Melzo, rimasti nei pressi della vetta malgrado le basse temperature.
Col senno di poi, sapendo cosa mi aspettava, avrei potuto uscire dalla via da solo, slegato, visto che il diedro terminale non presenta passaggi che vanno oltre al quinto superiore ed è tutto arrampicabile in libera, su roccia sana. Ma questo lo si impara dopo esserci stati, mai prima.
Sotto un cielo più rosso che blu sbaracchiamo il campo. Abbandono questa parete-frigorifero ma sento che non può e non deve finire così. La Via dedicata a Giuseppe Verderio merita un altro finale. Ritornerò.













sabato 2 novembre 2019

Arrampicare ai Corni, 1969-2019 (3/7)


Estraggo dal mio archivio di note personali:

18 ottobre 1969. Corno Orientale di Canzo, versante NE. Salita la parte basale della parete in vista di un tentativo di aprire una via nuova che superi l’enorme strapiombo. Con Diego.
19 ottobre 1969. Schiodato il monotiro. Con Diego.
25 ottobre 1969. Corni di Canzo, Rifugio SEV. Con Eraldo Rebuzzini.
26 ottobre 1969. Corno Orientale di Canzo. Ho trovato la possibilità di entrare in parete con una traversata di 40 m (passaggi di V). Con Eraldo.
1 novembre 1969. Corno Orientale di Canzo, versante NE, via nuova. Attaccato la parete per una fessura. Passaggio in libera (V+) e sosta su cengia inclinata verso il basso. Fin qui da solo, assicurato da Diego. Notte in tenda alla Bocchetta di Luera, in compagnia di Domenico Rebuzzini e di alcuni ragazzi del Gruppo Stambecchi del CAI di Melzo.
2 novembre 1969. Corno Orientale di Canzo, via nuova. Diego mi raggiunge alla sosta di ieri. Eraldo sale come terzo di cordata, ma per mancanza di spazio sul terrazzino deve fare sosta sulle staffe, una decina di metri sotto Diego. Dopo qualche ora, vista l’inutilità che lui resti sulle staffe a 20 metri dall’attacco, Eraldo scende in doppia. Raggiungo l’inizio del grande strapiombo. Notte in tenda.




Con Diego Pellacini scendo dalla Bocchetta di Luera ai piedi del gelido versante nordest del Corno Orientale di Canzo. L’attacco non è dei migliori: dopo poche decine di metri su roccia ci si ritrova a salire un ripido pendio erboso. Potevo evitarlo, è vero, ma ci tenevo a partire dal basso, per una questione etica. Un passaggio di quinto grado ed eccomi sul terrazzino che immette alla parete vera e propria.
Sorpresa! Nella fessura che qui ha inizio vi sono alcuni chiodi. Sono vecchi, è vero, ma ci sono! Guardo in alto e vedo altri chiodi. Da qui lo strapiombo che mi sovrasta nasconde la visuale del cielo. Ipotizzo che non uscirà nel vuoto per meno di 15 metri. Una bella gatta da pelare ...e un mistero, quello dei chiodi, da scoprire.


1 novembre 1969. Dopo una notte passata in tenda, rieccomi nel cuore della parete. Attacco la fessura, puntando ai chiodi già esistenti. Dopo una decina di metri questi finiscono. Ne vedo alcuni alla mia sinistra, mentre verso l’alto è tutto libero. Solo la muraglia grigia e lo strapiombo. Solo anni dopo saprò di aver incrociato per pochi metri la Stella Alpina, una via aperta nel 1963 dal Giusepon Crippa - il marito della mitica Teresina Airoldi - in cordata con Giuseppe Arosio. [1]





Due strisce nere d’acqua m’indicano la via: salirò in mezzo a loro. Un passaggio da “buon ricordo” e mi ritrovo col ginocchio appoggiato su di una piccola cengia rivolta verso il basso. Annaspo con la mano destra, l’unica che posso usare, essendo la sinistra impegnata nel mantenere la precaria posizione, e dietro ad un “paracarro” che si stacca dalla parete trovo una fessura. Alla spera-in-dio vi infilo un chiodo e lo batto col martello. Il suono è buono, canta bene. Aggancio un moschettone e mi metto in sicurezza.
Sopra di me vi è la muraglia liscia, così come il ghiacciaio l’ha levigata migliaia di anni fa e questa, dopo una decina di metri, prende a curvarsi verso l’esterno. È la cresta dell’Onda e se tutto va bene è da lì che dovrò passare. Domani, però, con tutta la giornata a disposizione.
Corda doppia e notte in tenda, alla Bocchetta di Luera.



2 novembre 1969. La sosta è minuscola e per far posto a Diego devo salire sopra il “paracarro”. Non essendovi alternative, prendo a lavorare di martello e punteruolo e sincronizzando la battuta con la torsione della mano pian piano pratico il foro adatto a ricevere un chiodo a pressione, qui l’unico mezzo per procedere.






Dopo una decina di metri, tutti chiodati a pressione per mancanza assoluta di appigli e fessure, decido che la giornata lavorativa è finita …e anche la mano sinistra, quella che fa ruotare il punteruolo, ha bisogno di riposo (qualcuno ha scritto che ogni foro fatto a mano richiede oltre un’ora di tempo e 2000-2500 colpi di martello - e la roccia dei Corni di Canzo non è di certo tra le più tenere).
Corda doppia e notte in tenda.


[1] Nota tecnica: Corno Orientale, parete Nord, Via Stella Alpina, Giuseppe Crippa e Giuseppe Arosio, 1963; difficoltà d’insieme TD inferiore, difficoltà max V+, A1.

venerdì 1 novembre 2019

Arrampicare ai Corni, 1969-2019 (2/7)


La sera del 27 dicembre 1968 la passiamo all’osteria del Corno Medale, in compagnia di Zaccheo, il proprietario e gestore. Fuori fa un freddo boia. Un ultimo bicchiere e poi si va a dormire nella tendina che abbiamo piantato a poca distanza dall’attacco della Cassin. Anche il giorno dopo il freddo è carogna - e il Beppe pagherà caro l’essersi dimenticato di mettere l’antigelo nel radiatore della sua Seicento! In parete, non molto lontano da noi c’è baraonda: Tiziano Nardella e soci stanno finendo la Taveggia. Ma in quanti sono? Dalle urla si direbbero una metà di mille. Anche noi oggi siamo qui per assaggiare una via nuova. Attacco per la Cassin. Alla sua prima sosta prendo a destra e salgo tre tiri gnecchi fin sotto gli strapiombi. Tutto in libera: giusto un paio di chiodi di sicurezza e quelli per le doppie. Per oggi ci basta, la via ci pare possibile. Ritorneremo in primavera, quando il caldo avrà sciolto i ghiaccioli che penzolano sopra le nostre teste.
Il punto massimo da noi raggiunto è il terrazzino erboso visibile nella fotografia 7, in alto.





In parte ripetendomi, qui ripropongo quanto da me scritto in una mail datata 2 marzo 2014:

2 marzo 1969. Come prima salita dell’anno dopo la pausa invernale, scegliemmo una via a noi nota: la Cassin-Dell’Oro (il mitico Boga) alla Corna di Medale; 360 metri di sviluppo e difficoltà fino al quarto superiore. Quel giorno avevamo aggregato a noi Diego Pellacini, un ragazzo conosciuto in casa di un’amica che alla prova sul campo rivelò doti aviatorie: sul “traverso” perse la presa e a me, capocordata, toccò il suo ricupero a spalla.
Io e Giuseppe, invece, avevamo una nostra ragione per essere su quella via: il 28 dicembre 1968, - giorno talmente gelido che mise fuori uso il motore della Seicento del Beppe: lui si era scordato di mettere l’antigelo nell’acqua del radiatore! - avevamo portato a buon fine un primo approccio per saggiare la parete della Medale a destra della citata Cassin-Boga, parete dove avevo intravisto la possibilità di aprire una nuova via (mi risulta aperta da altri, tanti anni dopo e con uso di moderne tecnologie; noi s’arrampicava con gli scarponi rigidi ai piedi...). E quel due marzo, avevo portato la mia reflex per scattare delle slides “di profilo”, con l’intenzione di studiare a tavolino i passaggi critici del nostro futuro impegno alpinistico.
Arrivati all’uscita della Cassin-Boga ci si slega e corda al collo si prende uno stretto passaggio che porta al prato e alla discesa. L’avevamo fatto tante altre volte, anche alle due di notte, col buio. Parto io, segue Diego, chiude il Beppe. Pochi passi e sento il tonfo tipico di un masso che cade sul terreno erboso, morbido. Mi volto per vedere cosa sta succedendo e non vedo il Beppe. Io e Diego torniamo sui nostri passi e ...il Beppe non c’è più. Intuisco la disgrazia. Scendiamo a rotta di collo. Alla base ci separiamo; Diego va da Zaccheo per chiamare il Soccorso alpino, io mi porto ai piedi della parete. Cerco finché vedo una macchia bordeaux, il colore del maglione del Beppe. Lui è appoggiato ad un arbusto. In testa non ha più il casco (e mai lo ritroverò, malgrado le tante ricerche). Pochi metri più in alto, appoggiato ad un masso, c’è il suo portafogli.

Alcuni mesi prima, io e il Beppe guardavamo il grande, tondeggiante strapiombo d’origine glaciale, che caratterizza la parte terminale del Corno Orientale di Canzo. Non sapevano se qualcuno lo avesse tentato, ma di certo sapevamo che nessuno l’aveva superato. Io adoravo gli strapiombi, quindi lo mettemmo nel mirino.










Voglio, devo, fare qualcosa per ricordarlo. Fin da subito ho chiaro dove: quello strapiombo che tante volte avevamo osservato dalla SEV porterà il suo nome.


Prima, però, devo rodare Diego alla roccia dei Corni, che lui ancora non conosce. Iniziamo il 13 aprile con la Dell’Oro-Maggi (o dei tre tettial Corno Centrale. Il 25 aprile portiamo a termine la Direttissima Città di Cantù (terza ascensione; la seconda l’hanno fatta gli stessi primi salitori - Giorgio Brianzi & co. - allo scopo di recuperare il materiale rimasto in parete), uscendo in vetta per lo strapiombo chiodato a pressione. [1] Tra il primo e il secondo tiro, già che ci sono, raddrizzo un po’ la via con una variante mica male.





variante Mauri






Già col Beppe avevo scoperto che sul versante del Corno Orientale rivolto verso Valmadrera vi è un monotiro che sale in diagonale verso destra, tutto chiodi e strapiombini. Lo ripercorriamo ancora un paio di volte, poi lo schiodo, lasciando soltanto quello utilizzato per la doppia: Diego pensava che portassi via anche quello! Lo scopo è quello di procurarmi i chiodi che mi serviranno per il mio progetto: una via dedicata alla memoria di Giuseppe Verderio. Qui, sui Corni di Canzo.

[1] Nota tecnica: Corno Centrale, Parete Fasana, Via Direttissima Città di Cantù; prima ascensione: Giorgio Brianzi, Angelo Molteni e altri, 4, 11 e 18 1967; difficoltà d’insieme TD, difficoltà max V, A2.