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mercoledì 18 novembre 2015

27, rue de Fleurus raccontato da Dan Franck


Quale terzo e ultimo (?) capitolo della saga “27, rue de Fleurus” - e supponendo sia ben nota a tutti  l’Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi editore, molte riedizioni -, qui propongo la lettura di altri due libri che in modo o nellaltro riportano  a quell’indirizzo.
Uno è Montmartre & Montparnasse. La favolosa Parigi d’inizio secolo di Dan Franck, traduzione dal francese di Antonia Tadini Perazzoli, Garzanti Libri 2012, da cui ho estratto (e qui sotto propongo alla vostra attenzione) le pagine da 127 a 132.
Il secondo ha per titolo Gertrude Stein. In Word and Pictures edited by Renate Stendhal, Algonquin Books of Chapel Hill, 1994, with 360 photographs - reperibile via Amazon e da cui ho ripreso le pagine con le immagini fotografiche dello studio che fu dei fratelli Stein, prima, di Gertrude e Alice B Toklas poi.


 Un pomeriggio in rue de Fleurus

Rue de Fleurus, numero 27. Una casa a due piani, un atelier attiguo. La casa è costituita da alcune camere, una stanza da bagno, una cucina dove si mangia. L’atelier è una grande stanza con mobili rinascimento italiano tirati a cera, una stufa, due o tre tavoli ingombri di fiori e di porcellane, un caminetto, una croce massiccia tra due finestre, pareti tirate a calce, completamente ricoperte di quadri: Gauguin, Delacroix, Greco, Manet, Braque, Vallotton, Cézanne, Renoir, Matisse, Picasso. E altri.
Non siamo in un museo. E poiché in quel momento la maggior parte di quei quadri non vale molto, la porta dell’atelier si apre con una sola chiave; una di quelle chiavi americane piatte che si infilano in tasca e che sono così diverse da quelle appendici enormi e tintinnanti che risuonano nei cappotti dei parigini.
Gli Stein abitano qui. Ricevono ogni sabato. Tavola imbandita, o quasi. Per avere il diritto di entrare, basta rispondere alla domanda rituale della padrona di casa, «Chi la manda?», con il nome di un artista le cui opere sono esposte in casa.
Si entra allora nel grande studio dove si accalca una folla disparata: pittori, scrittori, poeti, borghesi… Una volta alla settimana, dagli Stein, si mangia e si beve, cosa che, per quei tempi di vacche magre, viene molto apprezzata. Tanto più che per poco che ci si interessi all’arte contemporanea, la compagnia è delle più gradevoli.
L’uomo che parla là in fondo, le dita nelle tasche del gilé, circondato da una folla di ammiratori che gli fanno da spalla, è Guillaume Apollinaire. Inutile tentare di gareggiare con lui: sa tutto di tutto, e vince sempre. Miss Stein, sempre tanto sicura di sé, ammette di averla avuta vinta con lui una sola volta, e solo perché il poeta era ubriaco.
L’uomo robusto dall’aria indifferente che sta davanti al camino è Braque. È scontento perché una delle sue opere, appesa sopra il camino, si scurisce per via del fumo. E anche i due acquerelli di Cézanne appesi ai lati si stanno scurendo. Braque brontola pensando che la prossima volta che sarà chiamato ad appendere i quadri (siccome è il più alto, tiene il quadro mentre il portiere infila il chiodo) chiederà di essere spostato. E gli spiace di non aver detto niente in occasione dell’ultimo pranzo. Ma ha una scusa: a tavola, ogni pittore è seduto davanti alle proprie tele, di fianco ai colleghi: in queste condizioni è difficile criticare.
Quella sera, era seduto vicino a Picasso. Come sua attitudine, non diceva una parola. Detestava la mondanità e aveva difficoltà a parlare in francese. Aveva ironizzato sul professor Matisse, tanto abile a dissertare.
Picasso, oggi, è nelle stesse condizioni di spirito del suo compagno della rue d’Orsel: furibondo. Ha scoperto che due suoi quadri, appesi alla parete, hanno cambiato aspetto e luccicano come non dovrebbero: Gertrude li ha fatti verniciare. Quella donna, decisamente, ama tutto ciò che brilla.
Max Jacob cerca di fare ragionare l’amico. Ci riuscirà a fatica: Picasso non se ne andrà ma non rimetterà più piede in rue des Fleurus per diverse settimane.
Mentre sta cercando con gli occhi Fernande, uno sconosciuto gli si avvicina e indica il quadro che il pittore ha terminato dopo il soggiorno a Gósol: «È Gertrude Stein?»
«Sì».
«Non le assomiglia...».
Picasso si stringe nelle spalle: «Non importa: è lei finirà per assomigliargli».
Fernande parla con una donna piccola vestita di grigio e nero. È giovane, ostenta orecchini di vetro, ma la sua voce, molto bassa, e le maniere severe la fanno sembrare più vecchia. Spesso la si scambia per la cameriera, vedendola conversare con Fernande Olivier, si potrebbe credere che lo sia. È lì e nello stesso tempo altrove. Ascolta senza sentire. Molto dipendente da Miss Stein, di solito non dà molto valore alle chiacchiere di madame Picasso, che la padrona di casa è solita prendere in giro duramente: «Parla di tre cose, e solo di tre cose: di cappelli, di profumi e di pellicce».
Ma non questa volta. Stanno parlando delle lezioni di francese che Fernande potrebbe dare ad Alice Toklas. Mentre risponde alle domande che le pone la sua futura professoressa, l’americana tiene d’occhio la situazione: chi beve, chi non beve, chi mangia, dove sono i pasticcini, se ne mancano, perché Miss Stein non c’è ancora, la si ascolterà con sufficiente attenzione, non dovrà intervenire per allontanare gli importuni che potrebbero turbare le battute che la scrittrice mecenate scambierà obbligatoriamente con l’artista professore, Monsieur Matisse? E Brancusi, che si sta avvicinando, non turberà l’armonia della conversazione?
Alice Toklas venera la sua padrona e amica al punto di aiutarla a sviluppare le innumerevoli sfaccettature che compongono la rarità della sua persona. Gertrude pensa di essere un diamante letterario. Si crede il genio innovatore della letteratura mondiale. La Picasso della letteratura. Alice glielo fa credere. È il suo ruolo principale. Oltre a quello di dattilografare le sue opere.
Miss Stein è appena apparsa sulla porta dell’atelier, indossa un abito di velluto marrone che le strizza la vita e cinge le spalle con un collare da cui sfuggono indisciplinati cuscinetti di grasso. Per proteggersi dal freddo indossa spessi calzerotti di lana che ha infilato a forza nei sandali a laccetti che scricchiolano sul parquet incerato.
Con un’occhiata Miss Stein si assicura che tutti gli ospiti abbiano notato il suo arrivo. Soddisfatta, tende un fascio di fogli manoscritti a Miss Toklas e le chiede di batterli, interlinea 2, sulla Underwood. Poi sospira e dice che scrivere è un’attività terribilmente deprimente. Ma la fortuna le sorride: ha appena spedito un testo meraviglioso a una rivista di New York che ha avuto l’onore di pubblicarne tre dall’inizio dell’anno.
Si dirige verso il grande quadro dipinto da Picasso e si siede sotto il proprio ritratto. Subito Henri Matisse e signora, Robert Delaunay, Maurice de Vlaminck, le si fanno intorno.
Gertrude Stein è il direttore d’orchestra di queste riunioni d’artisti e si compiace di questo ruolo. Seduta sotto il suo ritratto come Luigi XI sotto il suo albero, dispensa commenti con autorevolezza, lanciando sguardi da contadina infuriata su chi la interrompe. Gertrude non sopporta gli scrittori che non ammirano le poche novelle che ha pubblicato su giornali americani, né i pittori quando non le sono devoti, lei che è la loro benefattrice materiale e morale. A coloro che rifiutano di frequentare i Salons ufficiali, Gertrude Stein offre un posto per esporre le proprie opere, e questo consente loro di essere conosciuti e riconosciuti. Così Picasso. E Matisse a chi lo deve se ora può mangiare a sazietà, se non a lei?
Gertrude Stein ama molto i Matisse. Quando va a casa loro, sul quai vicino a Saint-Michel, è sempre piacevolmente sorpresa dall’ordine che vi regna. Picasso è la bohème, Matisse la povertà elegante. Si mangia poco sia dall’uno sia dall’altro, ma sulla rive gauche almeno si salvano le apparenze. Madame Matisse sa cucinare il ragù di manzo con cipolle. È totalmente votata alla causa del marito. Un giorno Matisse l’ha fatta posare travestita da zingarella, con la chitarra in mano. Si è addormenta e lo strumento è caduto. Avevano giusto quel poco che bastava per mangiare ma lei aveva preferito saltare un pasto e fare aggiustare la chitarra. Così Matisse ha potuto terminare il quadro.
Un’altra volta Gertrude Stein aveva visto un magnifico cesto di frutta posato sulla tavola. Era proibito toccarla: doveva servire all’artista per il suo lavoro. Perché i frutti non marcissero, avevano spento il riscaldamento. Matisse dipingeva la sua natura morta infagottato in un cappotto, con i guanti di lana.
A Gertrude Stein piace molto invitare Matisse e Picasso insieme. I due si ammirano ma non si apprezzano molto, si misurano tutto il tempo. Uno spettacolo magnifico.
Matisse e Picasso, l’immagine è di uno di loro, sono come il polo sud e il polo nord. Il francese ha conservato una rigidità che calzava come un guanto alla sua mano di calligrafo quando redigeva gli atti del procuratore legale da cui lavorava. È serio. Non ride mai. La sua famiglia non sono gli amici ma sua moglie e sua figlia. Riceve poco. Quando parla, lo fa molto seriamente, per convincere: «Non sapeva ridere, questo bel pittore della gioia di vivere», diceva André Salmon.
Dorgelès, in un articolo piuttosto xenofobo, ha descritto la sua «barba curata» e i suoi «occhialetti austeri», simili a quelli di «un addetto militare tedesco» - ma è vero che Dorgelès si avvicinerà all’Action Française e finirà per scrivere su «Gringoire».
Apollinaire, più brillante, è stato lapidario: «Questo fauve è un raffinato». Lo ha descritto mentre dipinge con solennità, più di una tela alla volta, un quarto d’ora ciascuna, citando Claudel e Nietzsche.
Lo spagnolo è silenzioso. Si esprime con gli occhi, e i suoi occhi sono canzonatori. È selvaggio tanto quanto il francese è beneducato. Rifugge circoli e saloni. È appassionato e lo dimostra.
Eppure i due pittori hanno diversi punti in comune: l’interesse per il primitivismo, l’attrazione che ha per loro Gertrude Stein, e l’attenzione spasmodica che hanno l’uno per l’altro.
Sulle pareti sono appesi i loro quadri. Loro sanno già ciò che gli Stein hanno capito dopo averli scoperti: sono i due giganti dell’arte moderna.

Ciascuno ha i propri proseliti: per Matisse saranno Leo e suo fratello Michael; per Picasso sarà Gertrude. Per il momento i dissapori non hanno ancora spezzato la complicità che lega fratelli e sorella. Ma Matisse è geloso dell’interesse dell’americana per questo spagnolo più giovane di lui di dodici anni; è geloso anche di Braque e di Derain, che si allontanano dalla sua cerchia per avvicinarsi ai misteri che si tramano nelle stanze del Bateau-Lavoir.

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venerdì 10 luglio 2015

Picasso a Céret, 1913


1913. Al 242 di boulevard Raspail Picasso non resiste molto, tanto che nei primi mesi dell’anno è costretto a nuovo trasloco, questa volta in una casa moderna nella vicina rue Schoelcher, al numero 5 bis. L’appartamento è comodo, lo studio è luminoso.
Nel frattempo, il prezioso lavoro di Kahnweiler produce i suoi frutti: il 17 febbraio a New York s’inaugura una mostra destinata a far conoscere l’arte europea e Picasso è presente con sei tele, un disegno e un bronzo. In seguito questa mostra si trasferisce a Chicago e a Boston. In contemporanea Kahnweiler organizza altri due avvenimenti: una retrospettiva di Picasso da Thannhauser a Monaco, con 76 pitture, 38 acquarelli disegni e incisioni, mentre all’Armory Show di New York sono esposte 8 opere di Picasso. Il mondo gli si apre davanti, la firma Picasso è nota dovunque.

Eva è sempre più ammalata - tossisce in continuazione – ed è questa la ragione che spinge Picasso a lasciare precocemente Parigi, l’11 di marzo, per affrontare il suo terzo viaggio a Céret, villaggio che gode della brezza vivificante dei Pirenei. Inoltre, l’aver firmato il 18 dicembre 1912 un contratto formale con Kahnweiler per la vendita dei suoi quadri lo libera dagli impegni commerciali, permettendogli di allontanarsi da quel campo di battaglia che è diventato Parigi – e non solo in ambito artistico: i suoi vicini di casa, che hanno bambini, gli hanno fatto sapere di non gradire la presenza di Eva, chiaramente ammalata di tubercolosi. E poi a Céret quest’anno non vi è l’incubo Fernande – di cui Picasso non ha più avuto notizia - quindi i due innamorati possono vivere in pace. Il giorno 22 Eva scrive a Gertrude Stein che «c’è un tempo superbo e ci siamo sistemati».
L’11 aprile Picasso scrive a Kahnweiler: «Max deve venire a Céret. Puoi avere la cortesia di dargli dei soldi per il viaggio e per le sue spese personali? Metti tutto a mio carico.» Max Jacob è l’amico che tra il 1902 e il 1903, l’apice del momento di estrema povertà di Pablo, l’aveva accolto nella sua stanzetta all’87 di boulevard Voltaire ...e seppur crescendo in notorietà e ricchezza, Picasso mai dimentica gli amici che hanno condiviso la fame e il freddo con lui. Inoltre, da un po’ di tempo Max, ebreo per nascita, ha cominciato ad avere visioni mistiche - vede il Cristo ovunque -  e questo sconvolge il suo equilibrio psico-fisico: una buona ragione in più per averlo vicino, regalandogli una vacanza a Céret.
La presenza di Eva e dell’amico influiscono sullo sviluppo artistico di Picasso e il tono festivo e allegro del papier-collé che ha per tema Céret ne è la prova: «Un bambino non arriva mai a quell’ingenuità primordiale che qui raggiunge Picasso e che riesce a contagiarci. Queste Case di Céret danzano» scrive Palau I Fabre nel secondo volume della sua biografia artistica di Picasso.

Case di Céret, estate 1913

Il 5 maggio Picasso, che ha lasciato il villaggio per un breve viaggio a Barcellona, scrive a Kahnweiler: «Le comunico la morte di mio padre, mancato la mattina di sabato scorso. Può immaginare in che stato mi trovo.» Nove giorni dopo Eva scrive a Gertrude Stein: «Spero che Pablo riprenda il lavoro, poiché soltanto questo può fargli dimenticare un po’ la sua tristezza.»
Il 2 giugno Max Jacob informa Apollinaire che «Eva è molto malata; angine continue la costringono a letto da otto giorni.» La stessa lettera contiene anche questa bizzarra descrizione: «Céret è una piccola città ai piedi dei Carpazi o Karpazi. La popolazione va dai cinquecento ai diecimila mila abitanti approssimativamente. Il numero ridotto degli abitanti è senza dubbio dovuto all’abbondanza di pederasti e di erotomani che si limitano a riempire i caffè.»
In un’altra lettera diretta ad Apollinaire, Max scrive di aver fatto un’escursione di pochi giorni (dall’11 al 15 giugno) a Figueras e a Girona con Pablo ed Eva e di essere andato a vedere una corrida, aggiungendo: «la Spagna è un paese quadrato e fatto di angoli.» Come a dire: è un Paese per sua natura cubista.
Dopo questo viaggio di distrazione, Picasso riprende a lavorare, reinterpretando i suoi Arlecchini, vecchi compagni d’angoscia, ma subito s’interrompe, Il 19 giugno Eva informa Gertrude Stein che il giorno dopo sarebbero tornati a Parigi.

Arlecchino, 1915

Il blocco creativo che ha colpito Picasso a Céret continua a Parigi. Inoltre, la tosse non dà tregua ad Eva. Da qui la decisione di tornare alla brezza dei Pirenei. Arrivano a Céret tra il 6 o il 7 di agosto per sbrigativamente ripartire pochi giorni dopo. Non torneranno mai più.


Il periodo buio di Picasso continua: la Grande Guerra è iniziata, i suoi migliori amici sono al fronte, la salute di Eva peggiora giorno dopo giorno, fino a richiedere l'ospedalizzazione alla Maison de la Santé Goldman al 57 di boulevard de Montmorency. L’artista realizza una serie di quadri sul tema Donna seduta, il ritratto della donna amata costretta su di una sedia, serie concluda da alcuni tragici disegni: Eva agonizzanteEva sul letto di morte, La salma di Eva, morta il 14 dicembre 1915 all’età di trent’anni. L’8 gennaio 1916 Picasso scrive a Gertrude Stein: «La mia povera Eva è morta. […] È stato per me un grande dolore e so che lei ne sentirà la mancanza. È sempre stata così buona.»

Un ciclo è finito. Scrive Apollinaire: «Ora è il sud ad attirare gli artisti. Invece di trascorrere le vacanze in Bretagna o nei dintorni di Parigi come facevano gli artisti della generazione precedente, i pittori vanno verso la Provenza. Persino i Pirenei sono stati abbandonati. Céret non è più la mecca del cubismo.»

 Donna seduta che legge un libro, 1914-1915

Eva agonizzante, dicembre 1915

Eva sul letto di morte, dicembre 1915

Gli anni passano, non tutti dimenticano. Nel 1950 Pierre Brune e Frank Burty Haviland creano a Céret il Museo d’Arte moderna, una struttura che nel tempo ha acquisito una dimensione internazionale grazie anche alla donazione da parte di Picasso (nel 1953) di 29 ceramiche avente per soggetto la tauromachia.

Personalmente, di Céret ho ricordi bellissimi: le ore passate al Museo d’arte moderna, lo struscio per le strade seguendo i pannelli che riproducono le tele dei tanti pittori che qui hanno lavorato, il tempo passato a fotografare la fontana in place Picasso, opera dei ceramisti Jacques e Juliette Damville e la scoperta della cucina di madame Minerva, una donna approdata a Céret dalla vicina Spagna e titolare del minuscolo Restaurant Al Duende. Buonultima, la cappella di Saint-Martin de Fenollar dista solo una decina di chilometri.


ADDENDA. Nell’estate del 1954, Picasso riprende la strada di Perpignan in compagnia di due suoi amici, il pittore Édouard Pignon e sua moglie Hélèn Parmelin, giornalista e scrittrice. In agosto raggiungono Céret, dove Picasso mostra loro la Casa dei Cubisti, il museo, il torrente, il vecchio cafè Justafré, ricordando i tempi di Fernande e di Eva, di Manolo, di Pichot, di Braque, di Max Jacob e di Juan Gris, i giorni della pittura e della sardana.
Proseguendo oltre Céret, con l’auto risalgono la foresta di Fontfréde fino al suo culmine, il confine con la Spagna, luogo dove Picasso, davanti ad un’assemblea organizzata a Céret dal PCF, propone di erigere un laico Tempio della Pace. Non verrà mai costruito.
[fine della trilogia]


LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
11 maggio 2015