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lunedì 22 febbraio 2016

Picasso e Braque visti da Ardengo Soffici


Ardengo Soffici
Opere
Volume I
Vallecchi editore
Firenze 1959
pp. 617-633

CUBISMO
PICASSO E BRAQUE

Per parlare con un po’ di profondità di due giovani pittori, l’uno spagnolo - Pablo Picasso - l’altro francese - Georges Braque - e della loro arte, arte complessa, difficile e sconvolgente se mai ce ne fu, è di un’assoluta necessità ricordare prima, non fosse che di passata, che cosa fu l’impressionismo, quale la sua essenza, e quali le ragioni che provocarono contro di esso quella reazione di cui questi due artisti sono, fino ad oggi, gli ultimi campioni

L’impressionismo, dunque, chi lo consideri nella sua purezza, e cioè quale fu iniziato dall’olandese Johnkind e inteso e messo in pratica dai francesi Pissarro, Sisley, e, più specialmente ancora, da Claude Monet che ne fu insomma il vero, il più grande e il più logico rappresentante e banditore, l’impressionismo fu anzitutto il resultato di una prevalenza presa dalla sensibilità e dallo spirito di analisi sulla immaginativa, la volontà di sintesi e le altre facoltà che nel passato erano ritenute concorrere alla grandezza e allo stile. Se poi ci mettiamo a esaminarne più a fondo la sostanza, vediamo che esso non fu soltanto questo, ma anche, e forse più, il prodotto di una vera e propria rivoluzione spirituale cominciata dalla filosofia e passata contemporaneamente nel campo delle scienze e delle arti. Voglio dire che l’impressionismo corrispose come fenomeno artistico a una messa in atto di quel pensiero, che, rigettando la concezione di una realtà esterna o superiore allo spirito umano, considera l’universo come una creazione dello spirito stesso e pertanto senza categorie estetiche a sé, ma con quelle sole immanenti nelle profondità intuitive dell’individuo - dell’artista, del genio. E difatti basta esaminare con una certa perspicacia l’opera di un pittore impressionista per accorgersi subito come il suo carattere precipuo sia non un gerarchizzamento di esseri e di cose, secondo dati principii idealistici, intellettualistici e magari etici, in vista di un più grande effetto da raggiungere, ma anzi la collocazione sullo stesso piano di ogni fenomeno naturale manifestantesi per via di forme e di colori; la legittimazione e il poetizzamento di ogni manifestazione vitale; un’equiparazione dei differenti valori dell’universo visivo. Così, mentre per l’innanzi la generalità degli artisti, ligia a vecchi pregiudizi accademici, o nel miglior caso (quando non si trattava di creatori geniali, che questi sono stati si può dire sempre impressionisti) incline a una valutazione oggettiva delle cose, era abituata a subordinarle le une alle altre seguendo un rigoroso criterio classico-scolastico, e a giudicare il mondo come un aggregato di figure e di spettacoli più o meno significativi, più o meno interessanti fra i quali era necessario scegliere o che bisognava modificare nell’ordinamento ed esecuzione dell’opera d’arte, il pittore impressionista, tralasciando ogni considerazione estrartistica e affidandosi solo alla sua potenza fantastica e lirica, veniva a provare come tutto potesse esser materia di bellezza e di poesia se contemplato da un occhio di creatore; e che qualunque essere, qualunque luogo, qualunque cosa, come qualunque parte di essa era capace di rispecchiare e di suggerire l’idea divina del bello e pertanto degna come qualunque altra di essere studiata, amata e ritratta. Fu per via di questa concezione più libera, più generosa, più profondamente poetica della realtà che la figura umana, l’animale, il più insignificante cantuccio della natura, la stessa cosa inanimata - l’utensile, un bicchiere vuoto, che so io? un cencio sgualcito - ebbero uno stesso valore in quanto puri elementi artistici, non differenziati da altro che dal loro colore e dalla loro forma, e poteron pigliar luogo tutti insieme, senza sacrifizio dell’uno o dell’altro, o essere ognuno per proprio conto soggetto e tema in un’opera d’arte.
Senonché, se l’impressionismo, spiritualmente parlando, rivendicò, come si vede, la panpoeticità - mi si passi la strana parola - del mondo, e all’artista a venire un’assoluta libertà d’ispirazione di cui ormai beneficia e beneficierà sempre, non andò immune, come scuola pittorica, dal flagello delle false teorie e da una tal quale unilateralità di visione che a lungo andare era fatale lo conducessero al dinervamento e alla morte.

Ho troppo spesso parlato di ciò che fu la teoria impressionista, perché debba ripetermi qui. Dirò solo, a mo’ di riassunto, che fondandosi sur un principio di preferenza data alla sensibilità sull’immaginazione, e allo spirito d’analisi su quello di sintesi, essa imponeva al pittore, non solo di rendere nella sua freschezza e spontaneità l’impressione ricevuta dalle cose apparenti, ma di farlo sul luogo stesso, al momento medesimo dell’emozione, nel minore tempo possibile e applicandosi a ritrarre con la massima fedeltà e precisione la particolare sfumatura, l’aspetto passeggero, momentaneo, unico della persona, del luogo o della cosa che avevano eccitato la sua fantasia. È facile arguire da ciò, che mentre l’immediatezza della rappresentazione conferiva all’opera pittorica un sapore e una vivacità sconosciute avanti, era causa nondimeno che la realtà ritratta non s’elevasse mai, nella figurazione, a quella larghezza e universalità d’espressione che sono il frutto di un felice accoppiamento di sensibilità e di volontà, che costituiscono insomma lo stile, e anzi s’immiserisse nel transitorio, nell’aneddotico e a volte anche nell’assolutamente illustrativo. Gli è che non basta liberarsi dal tradizionalismo e riabilitare una facoltà negletta, se dell’uno non ci s’è prima assimilato la parte sana, e della facoltà contraria dell’altra non s’è appreso a giovarsi in quella misura che è pur necessaria. Né il non aver capito questa verità - un po’ involuta forse, ma chiara per chi abbia riflettuto a fondo sui problemi dell’arte - fu il solo difetto della scuola impressionistica. Un altro e forse più grave, fu il suo modo di concepire l’universo fisico. Jules Laforgue, già da me altra volta citato e che fra gli esegeti di quella scuola fu e resta ancora il più penetrante, ha nei suoi Mélanges posthumes un passo che riflette esattamente una tale concezione. «L’impressionista - egli dice dunque - vede e rende la natura qual’è, vale a dire unicamente in vibrazioni colorate. Né disegno, né luce, né modellatura, né chiaroscuro... tutto ciò si risolve in realtà in vibrazioni colorate e deve essere ottenuto sulla tela unicamente per via di vibrazioni colorate». Certo, è naturale ed era anche legittimo che - persuasi in questo anche dalla scienza, - i pittori impressionisti, in rivolta contro la scuola ed il suo bitume, non vedessero nella natura se non uno spettacolo radiante e rutilante, costituito, se si può dire, d’un brulichio tremulo e inafferrabile, e che per tradurlo ricorressero a quella loro maniera di dipingere tutta a tocchi e a sfarfallii di colori puri e vividi. Ma non è men vero che sviluppati fino ai limiti estremi, come lo furono appunto da Claude Monet, una tale visione e un tal sistema non potevano fare a meno, a forza di trascurar via via ogni altra qualità delle cose raffigurate per non renderne che la vibrazione luminosa, di condurre a una pittura inconsistente, troppo tenue e vaporosa, dove le forme e i corpi si disgregano, sfumano, si squagliano e si dissolvono nella fluidità dell’aria, fino a che tutto vanisce e annega in un barbaglio di luce bianca. Ché tale, se non lo fu del tutto, tendeva a divenire la pittura impressionista. La quale, se a prima vista può titillare e accarezzare l’occhio del riguardante, non può in nessun modo appagare il desiderio di corposità, di varietà e di concretezza che richiedono gli altri sensi concorrenti con l’occhio nella percezione di un’opera d’arte.
Ora è appunto per queste ragioni che l’impressionismo, sebbene avesse slargato i confini dell’arte pittorica e prodotto opere di grande bellezza, non poteva durare e non durò. Alcuni pittori, più profondi e d’aspirazioni più vaste, dopo essersi assimilato ciò che v’era di buono nelle scoperte e riforme impressioniste non tardarono a rendersi conto del pericolo che correva la scuola e a distorsene; finché l’un d’essi e non il minore, Paul Cézanne, non le voltò addirittura le spalle, e riafferrandosi nuovamente alle cose, ricostruendole artisticamente nella loro sodezza, riaffermando il volume, il chiaroscuro, il disegno e tutto ciò che gli altri avevan negato, non iniziò quella reazione che dura da più anni e nella quale sono oggi impegnate tutte le forze della gioventù pittorica di Francia.
Per arrivare ad un eccesso contrario? Vedremo. Intanto veniamo ai nostri due artisti che son nella prima fila.

E prima a Picasso. Pablo Picasso non è stato sempre quell’artista inquietante, confonditor di critici, sconcertator di colleghi e spauracchio di filistei che è da qualche tempo a questa parte. Quando lo conobbi una diecina d’anni fa a Parigi, ventenne, fresco arrivato dall’Andalusia, da Malaga, egli dipingeva paesaggi, ritratti e scene della piccola vita parigina che in nulla differivano dagli esercizi diletti alla buona gioventù indipendente d’allora, se forse non era per una maggiore audacia di disegno e una più grande e quasi selvaggia esaltazion del colore. Vero è che fin da quel tempo, o per lo meno fin dal novecentodue o novecentotre, allorché cioè quei primi tentativi furono seguiti da ricerche più alacri e più virili, già qualche cosa s’intravedeva, nella sua pittura, che era come una preoccupazione d’ordinamento e di stile. Intendo dire che, o studiasse, dopo Toulouse-Lautrec, il mondo cocottesco, nottambulo e alcoolizzato, o ritentasse modernamente l’interpretazione grottesca o tragica del vizio, della miseria e del dolore ispirandosi al fare di Goya, del Greco o del Signorelli. (Giacché Picasso, dotato com’è di una tempra sensibilissima, ha capito, amato e s’è nutrito delle più diverse forme di bellezza, tirandole però sempre a servire la sua personalità), ognora e ognor più la sua arte si allontanava, sia come spirito, sia come tecnica, dall’estemporaneità e disgregatezza di quella impressionistica; e, investigando più addentro la natura, già la traduceva più complessa, più soda e più drammatica. Chi conosce e si ricorda la dolce gravità di alcune sue opere d’allora - una donna che bacia un corvo con atto d’amore, due giovinette pensose, assise nude per terra, un mendicante con la bisaccia piena di tristi fiori appassiti, un groviglio di corpi miserabili sul marciapiede - non può fare a meno di ritrovarvi i segni di una ribellione decisa alla scuola che finiva di trionfare. Il colore stesso, col nero che ritornava nella gamma bianca e turchina, significava protesta. E protesta significò pure tutto il ciclo di opere che venne subito dopo. Il ciclo, chiamiamolo così, picaresco. Ricordiamo. Esodi malinconici di saltimbanchi, compagnie nomadi affamate di comici da fiera, ricapitolanti le umiliazioni e i fiaschi di tutti i generi, durante una sosta sul ciglio della strada maestra, in un paese brullo, arrostito, povero e giallo al pari di loro, e senza un riparo per miglia e miglia; arlecchini e pagliacci macilenti, randagi per i sobborghi delle grandi città o seduti all’uscio delle baracche seguendo con gli occhi avidi Colombina che, in sandali, coperta appena di un gonnellino a scacchi e con un bambino in collo, va e viene dalla tenda alla marmitta, mentre un marmocchio più grandino si gingilla col tamburo e col cappello a bubboli del babbo, o ruzza tra le ciarpe e le trombe col cane ammaestrato; - atleti in maglia paonazza o azzurra, gloriantisi dei mostruosi bicipiti, accanto agli enormi manubri truccati, o vergognosi della loro magrezza; - vagabondi e accattoni rassegnati, abituati a tutto, trascinanti le loro ossa stanche per le dure vie della terra sotto un cielo bigio e solitario.
Fu alludendo a queste opere che Guillaume Apollinaire, il quale scrisse di Picasso verso quell’epoca, notava già la sobrietà verso cui tendeva la sua ricerca e quel ritorno a una più generale comprensione delle cose viste nella loro corposità e non più dissolte per le varie accidentalità delle illuminazioni e dei riflessi.... «La couleur a des matités de fresques, les lignes sont fermes.... Le goût de Picasso pour le trait qui fuit, change et pénètre et produit des exemples presqu’uniques de pointes sèches linéaires où les aspects généraux du monde ne sont point altérés par les lumières qui modifient les formes en changeant les couleurs».
Tuttavia il passo decisivo, quello che doveva condurre il nostro artista in un campo di esperienze molto più avanzate non fu fatto che un paio d’anni più tardi, e cioè quando egli, dopo essersi progressivamente allontanato dal modo di vedere degli impressionisti, trovò in un’arte opposta alla loro un fondamento più fermo alle sue ricerche ulteriori. Quest’arte fu la pittura e la scultura degli antichissimi egiziani, e quelle affini - e forse anche più nativamente sintetiche - dei popoli selvaggi dell’Affrica meridionale. Un altro artista, prima di lui, Gauguin, fuggendo il particolarismo e la fotolatria del puro impressionismo, s’era rifugiato nello studio di quei mondi artistici primordiali, ma col suo intellettualismo e - checché ne dicano i suoi fanatici - con la sua affezione per le false fastosità simboliche, non aveva saputo trarne che una certa compostezza e larghezza da altri credute sublimi o religiose, ma in effetto soltanto decorative e letterarie. Picasso invece - una volta arrivato alla comprensione e all’amore di quell’arte ingenua e grande, semplice ed espressiva, grossolana e raffinata ad un tempo, subito seppe appropriarsene le virtù essenziali, e poiché queste consistono insomma nell’interpretar realisticamente la natura deformandone gli aspetti secondo un’occulta necessità lirica, affine d’intensificarne la suggestività, egli s’applicò d’allora in poi a tradurre, nelle sue opere, il vero trasformandolo e deformandolo; non peraltro, al modo che facevano i suoi maestri, ma - com’essi gl’insegnavano ciascuno con un particolare esempio - seguendo i propri moti della sua anima moderna.

Qui bisognerebbe forse spiegare che cosa si debba intendere per deformazione artistica delle cose secondo una legge lirica, giacché su essa si fonda tutta una nuova comprensione del disegno e delle forme dell’opera d’arte; ma oltre ad averlo fino a un certo punto già spiegato in altra occasione, spero di farlo se non comprendere (scrivo nella patria di Ettore Tito, di Gemito, di Bistolfi, di Mancini, di Sartorio ed altri fenomeni di questo genere!) intraveder in seguito. Basti dire per ora, che, per certi artisti, i piani, le masse e i contorni delle cose possono avere proporzioni, rapporti e movimenti differentissimi da quelli che il comune degli uomini percepisce; indipendenti dalla loro concatenazione in quanto coefficienti di una realtà concepita scientificamente o praticamente; possono insomma esser considerati come semplici elementi pittorici, trasformabili, spostabili, deformabili, in vista di un’armonia puramente artistica, dove il vero riviva liberato da ogni logica sperimentale, e solo quale pretesto, quale geroglifico di cui l’artista si serve per operare una suggestione sul riguardante. Una testa troppo piccola, un braccio troppo grosso, una spalla stravolta, una gamba mal congiunta al resto del corpo, un tronco d’albero troppo piatto, una casa sbilenca ed altrettali cose che il volgare prende per tanti errori grossolani e risibili, non sono così che i modi necessari di una più profonda bellezza, in quella maniera che l’immagine sforzata o l’aggettivo discordante di un poeta sono i mezzi legittimi per ampliare la visione che si vuol suggerire per romperne i confini e farla continuare in vibrazioni infinite nella fantasia di chi legge. Ricordatevi del «giace dispettoso e torto» col quale Dante fa di Capaneo una figura granitica eschilea; del «Danton pallido, enorme» del Carducci o - come violentazione del colore - di «Le vie dorate e gli orti» del Leopardi. Per non parlare di stranieri, specialmente moderni. Ma rientriamo in carreggiata.

Partito dunque da qualche cosa che somigliava molto all’impressionismo, ecco che Pablo Picasso, procedendo di grado in grado aveva fatto capo agli antipodi di quella scuola; vale a dire che, dopo essersi come tanti altri contentato di cogliere e fissare nel suo splendore un momento fuggitivo della natura, era giunto, per via di meditazioni e di esperienze, a questa conclusione, che l’arte vera è sintetica e che non si dà sintesi senza sobrietà, generalità e concretezza, e se egli fosse - come non è - di facile contentatura, avrebbe potuto acquietarsi e imperniare i suoi studi successivi su questa verità. Ma così facendo avrebbe soltanto ripetuto la curva che eternamente traccia ogni intelligenza artistica, la quale movendo da un’affermazione novissima risale insensibilmente e si fissa a un’affermazione antichissima e contraria. Picasso invece, spirito alacre e irrequieto, quant’altri mai, non si appagò di un tal resultato dei suoi studi, e anzi fu appena arrivato a quel nuovo modo d’intender l’arte, che subito si dette ad affrontare, per tentar di risolverli i vari problemi che già gli si presentavano.
Il primo di questi problemi era quello dei volumi. Chi ha seguito il mio discorso avrà capito, anche perché vi ho insistito - e forse oltre misura - come uno tra i forti motivi di reazione all’impressionismo teorico fosse la incapacità di questo a rendere la corposità delle cose. Picasso, uno dei più coraggiosi partigiani della ribellione, risalendo alle arti primitive e barbare, le quali traggono tutta la loro potenza dell’osservazione di ciò che un estetico americano, il Berenson, chiamerebbe i valori tattili, non aveva dunque fatto che spingere all’estremo la sua protesta. Senonché gli bastò approfondire per un certo tempo lo studio di codeste arti per accorgersi di quanto un pittore affinato dalla cultura, modernamente sensibile, potesse andar più lontano nella ricerca e nell’espressione di quei valori.
Difatti non basta affermare, contro l’impressionismo, che nella percezione visiva del reale, il senso del tatto ha, per il ricordo di precedenti esperienze, altrettanta parte che quello della vista, e che perciò non si tratta meno di rendere il volume che il colore degli oggetti e degli esseri rappresentati; bisogna ancora domandarsi se la nostra conoscenza dei volumi non domandi per esser manifestata qualche modo pittorico del tutto sconosciuto all’antichità. È certo a mo’ d’esempio che allorché noi miriamo un oggetto non possiamo vederne se non i lati e i piani esposti prospetticamente all’obiettivo, diciamo così, del nostro occhio; ma non è men vero che, sia per un’esperienza anteriore, sia per un’induzione fondata sull’analogia, noi conosciamo, e potremmo dire sentiamo, anche i lati di quell’oggetto nascosti alla nostra vista. Immaginiamo d’avere davanti a noi un oggetto qualunque, poniamo - per scegliere un oggetto più volte dipinto dal nostro artista - un violino. È posto sur una tavola e non ne vediamo che il piano in isbieco, la fascia della cassa e il profilo del manico ricurvo. Chi volesse ritrarlo secondo i criteri di tutta la pittura precedente, bisognerebbe contentarsi di questi piani e di queste linee: purtuttavia non è un fatto che così facendo si sacrificherebbe una parte della realtà che noi conosciamo, giacché i nostri stessi occhi ci hanno rivelato altre volte che il violino non è tutto in quelle linee e in quei piani, ma che consiste anche del rovescio della cassa, dell’altra metà della fascia e del manico, e che le insenature laterali hanno una curva armoniosa che ora si perde? Se poi la cosa che ci sta davanti è di forma puramente geometrica, come sarebbe a dire una casa, un tronco d’albero, una catinella, un bicchiere, l’osservazione appare anche più evidente. Ora è appunto movendo da questa considerazione che Pablo Picasso ha escogitato una nuova maniera pittorica capace di tradurre gli esseri e gli spettacoli naturali nella loro totalità. Ma qual’è questa maniera? Ecco ciò che non è facile dire senza rischiare di destare un falso sospetto di teoricismo e magari di meccanicismo circa le sue ricerche, unicamente pittoriche e artistiche, al contrario. Tenterò tuttavia di farmi intendere.

È evidente anzitutto che questa proiezione integrale della realtà sur una superficie piana non può esser fatta con un sistema rigoroso; essa viene anzi operata indipendentemente da ogni regola prestabilita, secondo criteri strettamente poetici, e solo in quei casi che una necessità di bellezza lo richiede. Infatti allorché si tratta per Picasso di tradurre nella totalità dei suoi volumi una persona, una cosa o un paese, egli non lo farà al modo di un geometra scomponendone i lati in tante figure da porre le une accanto alle altre il che sarebbe assurdo e ridicolo; bensì mettendo d’accordo la conoscenza interna e la sensazione parziale, stenderà accanto all’immagine quale gli si presenta le superna occulte, che però sente come realmente apparenti, le facce nascoste e i profili fuggenti nella loro varietà e armonia di proporzioni, il tutto interpretato e ordinato in modo da raggiungere una viva e perfetta unità. Così, chi ripigli l’esempio del violino, le parti invisibili appariranno nella sua figurazione di quello strumento, spiegate e scomposte nei loro volumi, allato alle visibili - la fascia nascosta si allargherà sulla tavola, l’insenatura svolgerà la sua curva molle, l’opposto profilo del manico ricupererà la sua forma in uno sbattimento laterale di luci e d’ombre. O per meglio dire, egli scioglierà quelle cose nei loro elementi emotivi - linee, scorci, sfumature di toni -, darà come la somma delle emozioni che ne avrà ricevute, farà in una parola una ricostruzione di una realtà che del violino non è se non un riassunto strettamente pittorico, puramente lirico.
Similmente la figura umana sarà da lui notomizzata in tutte le sue facce per via di una sorta di misurazione, affine di metterne in evidenza la voluminosità cubica (e da ciò il nome di Cubismo dato a una tale pittura); squadernata, per così dire, davanti agli occhi come per mezzo di una refrazione circolare, ottenendo con ciò che lo spettatore abbia una visione intera definitiva e per così dire immutabile della realtà. E non, giova avvertire, a quel modo che altri han tentato di suggerirgliela stilizzando e schematizzando le masse e le linee, come fa per esempio l’orribile scuola di Beuron, ché l’arte di Picasso anziché condurre le forme a un tipo fisso, invariabile e impersonale, le scompone nella infinita varietà dei loro aspetti, le fruga, le scruta e ne mostra i molteplici caratteri e apparenze.
Senonché questi scomponimenti, questi spostamenti, prospettici, questo sforzo insomma di carpire tutte in una volta le diverse apparenze del vero ed esporle sur uno stesso piano sarebbero vani quanto mai se l’opera che ne risulta dovesse perdere sia pure una minima parte del suo potere suggestivo. E ciò avverrebbe immancabilmente se Picasso si preoccupasse sopratutto di questa analisi pittorica dei volumi. Il fatto è invece che tale analisi non è per lui che un tessuto melodioso di linee e di tinte, una musica di toni delicati, di chiari e di scuri, caldi o freddi il cui mistero accresce la gioia di chi guarda; gli è che Picasso al momento stesso di risolvere il problema dei volumi ha risolto anche quello del disegno e della luce. Già sappiamo che da più tempo il disegno non aveva più per lui il dovere di stringere e modulare i corpi in contorni precisi, innestando membro a membro con la logica inerente a ogni essere e a ogni cosa rappresentata. L’impressionismo sano prima, e i suoi maestri barbari poi, gli avevano insegnato a considerarlo come strumento di deformazione libera e audace. Ora esso ha per lui semplicemente il valore di un geroglifico con cui si scrive, per chi può leggerla, una verità liricamente intuita. Onde armato di questo strumento duttile capace di mille sfumature, dei più sottili e fuggevoli sottintesi, Picasso piuttosto, che stravolgere gli aspetti delle cose figurate all’unico scopo di farne una descrizione integrale, fa il giro delle cose stesse, le considera poeticamente sotto tutti gli angoli, ne subisce e ne rende le impressioni successive, le mostra insomma nella loro totalità e perpetuità emotiva e con la stessa intensità e libertà con la quale l’impressionismo non ne rendeva che un lato e un attimo.
In quanto alla luce, dal momento che il nostro artista non vuole nei suoi quadri raffigurare la natura nelle sue apparenze, bensì farne una trama di puri valori pittorici destinati a suggerire occultamente (matematicamente si potrebbe dire, pensando che la matematica potrebbe essere il fondo della pittura come l’è della musica) un senso di concretezza, in quanto alla luce, dico, e ai riflessi è naturale sian considerati come semplici macchie cromatiche fra quelle degli altri oggetti, e magari prendano forma e corpo definitivo diventando in un certo senso oggetti essi stessi. L’impressionismo aveva sciolto in vibrazioni luminose le più solide masse; che meraviglia se un’arte che dell’impressionismo è la precisa negazione piglia a considerare la luce come qualcosa di misurabile e contornabile, almeno quando si posa e s’acqueta sur un punto qualsiasi delle cose?
Comunque, è con tali mezzi che la pittura del nostro artista arriva a comunicare sensazioni grandiose e severe che domanderemmo invano alla più parte dei migliori pittori moderni e antichi. Con una sobrietà di tinte di giorno in giorno più grande, egli sa creare immagini di una bellezza potente a un tempo e delicata. Figure la cui intensità di vita risulta dalla fissità, dalla loro espressione ottenuta appunto con la rigorosa messa in valore del volume di ogni membro - nature morte che sono come ricchezze cristalline e metalliche avvolte di poesia occulta e inquietante, in cui la sodezza di ogni cosa risveglia idee d’eternità - paesaggi granitici, che fanno pensare - meno il colore - a quel

terrible paysage
Que jamais œil mortel ne vit

di cui parla Baudelaire; dove i tetti drizzano e raddoppiano i loro cacumi, dove la terra par soffocare i germi del suo seno gelato per dar tutti i suoi sughi a una palma rigogliosa, dove un’unica nota di colore canta come un passero solitario in una piaggia deserta. Opere delle quali l’oscurità e il mistero aumentano l’incanto e la terribilità poetica.
A volte, è vero, l’oscurità dell’arabesco arriva quasi alla tenebra, e forse il pericolo di quest’arte è di divenir tanto profonda da degenerare in una sorta di metafisica pittorica: certo il suo unico difetto è, specie nella rappresentazione dell’essere umano, una cert’aria antica cui arriva, un certo sapor d’arcaismo dal quale gli spiriti moderni d’elezione aborrono ormai.
E parlo di spiriti d’elezione perché se l’arte di Picasso è, come ho detto, di una importanza singolare, di una grandissima originalità e fatta per un grande avvenire, oggi come oggi non può esser compresa e amata che da pochi; e soltanto tardi, tardi, o non mai, piacerà alla moltitudine. - Ma alla moltitudine, diceva Bione filosofo, è impossibile di piacere se non diventando un pasticcio, o del vin dolce.

Ed eccoci a Georges Braque. L’aver parlato tanto distesamente di Picasso, mi dispensa dal ritracciare il corso e lo svolgimento dell’arte di questo pittore, giacché non dovrei fare che ripetermi, un tal corso e un tale svolgimento essendo, se non del tutto uguali, strettamente paralleli, ed avendo avuto gli uni e gli altri per resultato di condurre i due colleghi ad un quasi identico modo di vedere e di esprimersi. Infatti, partito come Picasso da una specie d’impressionismo, Georges Braque non tardò ad orientarsi come lui verso una forma d’arte che, meno unilaterale di quella allora in auge, potesse ricostituire la realtà nella sua sobria e stabile calma, interpretandola più largamente e non in ciò che ha di fuggevole, di rutilante, di lampeggiante, sibbene in ciò che l’intelligenza unita alla sensibilità percepiscono di permanente e immutabile, di concreto, sotto l’incessante fluenza delle attitudini e delle illuminazioni. Non saprei dire con precisione a quando risalga, nella sua carriera, il primo indizio di questo cambiamento di direzione; ma già in alcuni paesaggi dipinti verso il novecentosette o novecentotto nel mezzogiorno della Francia, la visione delle cose per volumi e la preoccupazione sintetica si affermano chiarissimamente. Sono semplici vedute di giganteschi acquedotti scavalcanti un burrone, le cui arcate sode e taglienti sopravanzano le cime delle piante e incidono il cielo; di strade chiare fiancheggiate da muri all’orlo di un precipizio pietroso; di villaggi appollaiati sur una roccia brulla emergente da un bosco folto. Ma Braque portando su queste povere e nude combinazioni di natura e di opere umane il suo occhio nuovo, ne penetra, ne svolge le linee e ne assottiglia le sfumature in modo che la sua opera attinge di colpo a una vastità e arditezza mirabili. Gli archi, le rocce i muri, gli alberi, le case, analizzati e sviscerati nella loro struttura si fissano come in uno stupore di cose imperiture in una omogeneità e unità di concezioni spirituali. Più tardi egli ritrarrà porti solitari appiè di alte scogliere, dove le barche si dondolano ormeggiate alle case miserabili dalle grandi porte nere, sbadiglianti davanti al mare; dipingerà persone e nature morte, e il suo stile si affermerà sempre più rigoroso, più logico, si potrebbe dire, nell’addurre le cose transitorie a una esistenza come estratemporale, assoluta. Certo a lui manca la versatilità che fa di Picasso un prodigioso compendio vivente di dieci anni di ricerche pittoriche; ma in compenso quanto amore, acuità e delicatezza nelle sue opere specie più recenti! Nature morte raffiguranti agglomerazioni d’oggetti casalinghi sur una tavola, istrumenti musicali, poma, stoffe e stoviglie, fruttiere colme di frutta, nelle quali le sfaccettature dei cristalli, i riflessi dei legni e degl’intarsi, lo spiegazzamento dei tessuti creano una magia prismatica che fa pensare a quella solitaria dei ghiacciai alpini. E sono quell’amore e quella delicatezza appunto che differenziano il francese dallo spagnolo. Picasso, pieno lo spirito di un fuoco quasi barbarico, racchiude nelle basse tonalità e nel disegno apparentemente algebrico dei suoi quadri la violenza sorda del dramma; Braque con la sua tecnica appena appena meno rigorosa ottiene una sorta di calma musicale piena di leggerezza ad un tempo e di severità. Ma tutt’e due insieme senza tradire la respettiva origine e anzi ricollegandosi colla più profonda tradizione delle loro razze, inaugurano una scuola d’arte, certo non facile per il momento ad esser compresa, ma degna e capace di un glorioso avvenire.


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mercoledì 6 gennaio 2016

Amedeo Modigliani visto da Raffaele Carrieri (1947)



Ce ne sono stati tanti prima: con più genio, con più sapienza, con più resistenza, con più speranza. Ce ne sono stati tanti che sono andati più in là prima e dopo. Ma Modigliani è uno. Modigliani è indivisibile. La sua storia comincia e finisce con lui. E anche la sua pittura. Modigliani è l’unità dell’anima. Era un peccatore rovinoso, di quelli che bruciano e tutto consumano per arrivare al centro dell’anima. Il colore era l’emanazione di questo centro: la sua radice e la sua estasi. Quando s’è voluto teorizzare sulle sue gamme ne è venuto fuori un riassunto da laboratorio. Per raggiungere l’ansietà dei rossi Modigliani ha vissuto sul bruciato. Ha peccato. Ha espiato. Ha peccato ancora. Come Santa Caterina cercava il suo rosso. Era un presentimento e una vocazione. Le donne erano fuoco. La pittura era fuoco. Parigi come Babilonia la capitale del male. La vedeva rossa come i Senesi la città del demonio. E rosse le facce delle donne dai cui occhi l’anima dipartita alitava nell’aria arrossandola. Quando Modigliani consumò l’ultimo rosso morì. Morì all’ospedale a trentasei anni. Come i peccatori che vissero troppo poco gli mancò il tempo di essere assunto in qualità di angelo nella gloria del cielo.

Della Scuola di Parigi non ha la variabilità degli stili né l’intemperanza. Non si affanna dietro i sistemi. Non ha un sistema. Non ha idee da imporre né da servire. Non è come Picasso un panorama. È un isolato come Rouault di cui ha lo stesso amore per le tonalità calde. Ma il suo bruciato non proviene da avventure luministiche. Non è una mano erudita come Dérain.
Prima degli Impressionisti a Parigi ha visto i Veneziani a Venezia. E prima di Cézanne ha visto Giotto e i padri di Giotto a Ravenna. Ha visto la Regina Teodora. Ha visto le Madonne sedute più alte dei troni. Ha visto salire la linea dei musaicisti del sesto secolo e dentro la linea il rosso e l’oro. Ha visto di queste linee l’immobilità, la trascendenza, la maestà delle ripetizioni. Attraverso queste linee ha visto gli Apostoli elevarsi e trasformarsi in essenze geometriche. La curva tendeva a rompere gli slanci. Rappresentava la prostrazione e il peccato. La curva era il Vecchio Testamento.
L’espressione monodica è fondamentale nello stile di Modigliani. Al fondo del suo essere c’è qualcosa di orientale non soltanto per l’origine semitica. La tendenza al simbolo e al motivo, la ripetizione, la forma chiusa e il colore. Quel ritmare e cadenzare. L’eleganza del segno ininterrotto che quasi raggiunge la stilizzazione. Quel caricare la linea e duttilizzarla sino alle curve più melodiose. La stessa insistenza di alcune effusioni. La puntualità dei ritorni e lo stretto numero del suo repertorio ridotto a una tipologia unica e facilmente riconoscibile. La fedeltà alla figura umana elevata a immagine. E questa immagine sempre ardente e piena di grazia che varia e si riproduce nella medesima fissità. La linea è intangibile. La struttura del corpo umano è l’orizzonte sensibile di questo orientale temperato in Toscana.


Nato a Livorno l’84 ultimati gli studi ginnasiali si dà alla pittura. L’inizio è modesto. È allievo di un tardo macchiaiolo, il Micheli. Frequenta l’Accademia di Firenze, e per un periodo più breve quella di Venezia. A Livorno nello studio del Micheli si lega d’amicizia con un giovine pittore, Oscar Ghiglia. Nel 1902 abitano insieme a Firenze in via San Gallo. L’anno prima Modigliani per la salute malferma è consigliato dai medici a trascorrere l’inverno a Capri. Fra i due si stabilisce una corrispondenza.
Alla fine dell’inverno del 1901 scrive da Capri a Ghiglia: « ... Io sono qua a Capri (un luogo delizioso, tra parentesi) a far la cura. E son quattro mesi adesso che non ho concluso niente, che accumulo materiali. Presto andrò a Roma, poi a Venezia per l’Esposizione... faccio l’inglese. Ma verrà anche il momento di sistemarmi a Firenze probabilmente e di lavorare... ma nel buon senso della parola, vale a dire a dedicarmi con fede (testa e corpo) a organizzare e sviluppare tutte le mie impressioni tutti i germi di idee che ho raccolto in questa pace, come in un giardino mistico ». Dall’Hôtel Pagano, dove alloggia, poco tempo dopo passa ad Anacapri alla villa Bitter: « Carissimo Oscar, ancora a Capri. Avrei voluto aspettare a scriverti da Roma: partirò fra due o tre giorni, ma il desiderio di trattenermi un poco con te mi fa pigliare la penna. Credo al tuo cambiamento sotto l’influenza di Firenze. Crederai tu al mio viaggiando in questi posti? Capri, il cui solo nome bastava a risvegliare nella mia mente un tumulto d’immagini di bellezza e di voluttà antica, mi appare adesso come un paese essenzialmente primaverile. Nella bellezza classica del paesaggio è un sentimento - per me - onnipresente e indefinibile di sensualità. E pur sempre (anche malgrado gli inglesi che invadono col Baedeker) un fiore smagliante e venefico che sorga sul mare. Non so ancora precisamente quando sarò a Venezia, del resto te lo farò sapere. Desidererei vederla insieme a te. Micheli? Oh Dio, quanti ce ne sono a Capri, reggimenti ». Alla vigilia di Pasqua scrive da Roma allo stesso: « Caro amico, io scrivo per sfogarmi con te e per affermarmi dinanzi a me stesso.Io stesso sono in preda allo spuntare e al dissolversi di energie fortissime. Io vorrei invece che la mia vita fosse come un fiume ricco d’abbondanza che scorresse con gioia sulla terra. Tu sei ormai quello a cui posso dir tutto: ebbene io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera. Io ho l’orgasmo, ma l’orgasmo che precede la gioia, a cui succederà l’attività vertiginosa ininterrotta dell’intelligenza... Un borghese oggi mi ha detto, mi ha insultato, che io, ossia il mio cervello oziava. Mi ha fatto molto bene. Ci vorrebbe un avvertimento simile tutte le mattine al proprio risveglio: ma essi non ci posson capire e non posson capire la vita... Io attenderò a una nuova opera e dacché io l’ho precisata e formulata mille altre aspirazioni vengono fuori dalla vita quotidiana. Vedi la necessità del metodo e dell’applicazione. Cerco inoltre di formulare con la maggior lucidità la verità sull’arte e sulla vita che ho raccolto sparse nelle bellezze di Roma, e come me ne è balenato anche il collegamento intimo, cercherò di rivelarlo e di ricomporne la costruzione e quasi direi l’architettura metafisica per crearne la mia verità sulla vita, sulla bellezza e sull’arte ». È un ragazzo che scrive, un ragazzo di diciassette anni, un po’ fanatico ma riflessivo. Ancora da Roma a Ghiglia: « Perché scrivere mentre si sente? Sono tutte evoluzioni necessarie attraverso le quali dobbiamo passare e che non hanno importanza altro che per il fine a cui conducono. Credimi, non è che l’opera arrivata ormai al suo completo stadio di gestazione, impersonata e tratta dalla pastoia di tutti i particolari incidenti che hanno contribuito a fecondarla e a produrla che val la pena di essere espressa e tradotta con lo stile. L’efficacia e la necessità dello stile si presenta appunto in questo, che oltre ad essere l’unico vocabolario atto a estrinsecare un’idea, la distacca dall’individuo che l’ha prodotta, lascia la via aperta a ciò che non si può né si deve dire. Ogni grande opera d’arte verrebbe considerata come qualunque altra opera della natura. Prima di tutto nella sua realtà estetica e poi al di fuori del suo sviluppo e del mistero della sua creazione, di ciò che ha agitato e commosso il suo creatore... Vorrei parlarti della differenza che corre tra le opere di quegli artisti che hanno più comunicato e vissuto colla natura e quelli di oggigiorno che cercano ispirazione negli studi e vogliono educarsi nelle città d’arte ». Se i critici d’oltralpe avessero conosciuto queste lettere il ritratto di Modigliani sarebbe meno composito.
Ultima lettera da Roma a Oscar Ghiglia: « ... Noi - scusa il noi - abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al disopra - bisogna dirlo e crederlo - della loro morale... Il tuo dovere reale è di salvare il tuo sogno. La bellezza ha anche dei doveri dolorosi: creano però i più belli sforzi dell’anima. Ogni ostacolo sormontato segna un accrescimento della nostra volontà, produce il rinnovamento necessario e progressivo della nostra aspirazione. Abbi il culto sacro - io lo dico per te e per me - per tutto ciò che può esaltare ed eccitare la tua intelligenza. Cerca di provocarli, di perpetrarli, questi stimoli fecondi, perché soli possono spingere l’intelligenza al suo massimo potere creatore. Per quelli lì noi dobbiamo combattere. Possiamo noi racchiuderli nella cerchia della loro morale angusta? Affermati e sormontati sempre. L’uomo che dalla sua energia non sa continuamente sprigionare nuovi desideri e quasi nuovi individui destinati per affermarsi sempre a abbattere tutto quel che è di vecchio e di putrido restato, non è un uomo, è un borghese, uno speziale, quel che vuoi ». Trascuriamo il fondo letterario, le letture eccitanti - Zaratustra era di fresca nomina - resterà un carattere nobile, anche se le aspirazioni sono vaghe; spirito coltivato per la sua giovane età, poco più che un fanciullo. A parte queste lettere, ignoriamo le sue prove di studio a Firenze. E anche dopo Firenze, del soggiorno di Modigliani a Venezia non ci è pervenuto nulla: non un segno, non un dipinto. Che i propositi aggressivi siano venuti meno al contatto della realtà?


Nel 1906 Modigliani lascia l’Italia e si stabilisce a Parigi. S’è portato dietro le fotografie dei maestri italiani che predilige. Dei Senesi la Santa Chiara di Simone Martini e Le Marie al Sepolcro di Buccio. Dei Toscani quelli del primo Rinascimento. Dei Veneziani Carpaccio. Di Carpaccio la tricromia delle Due cortigiane, acquistata a Venezia al tempo dell’Accademia e che lo segue attaccata alle pareti ovunque: come il Dante dell’edizione « Diamante ». A Parigi abita a Montmartre indossa abiti di velluto e legge Petrarca. I suoi amici sono Picasso, Kisling, Vlaminck, Salmon, Utrillo. È l’epoca d’oro di Rue Ravignan. Apollinaire impiegato di banca ha scritto le prime poesie di Alcools. Jacob accatasta manoscritti inediti. Matisse ha dipinto l’Autoritratto fauve del Museo di Copenaghen di cui a Montmartre, specie i poeti, fanno un gran parlare. Il doganiere Rousseau ancora ignoto - ma non in Rue Ravignan - fa stampare sui biglietti da visita l’attributo di Artista Pittore. Utrillo è appena tornato da Montmagny dove ha dipinto paesaggi e chiese che non riesce a vendere a trenta franchi il pezzo. Ma il più sorprendente di tutti è Picasso. Dal ’96 al 1901, epoca del suo arrivo, ha rifatto velocemente gli impressionisti. Paesaggi notturni alla Pissarro, acque e macchie alla Monet, ortaggi alla Manet. Ha rifatto Van Gogh. Ha rifatto i maggiori e i minori. Scene di Boulevards alla Steinlen con carrozze cani e lampade ad arco. Interni alla Vuillard pieni di rampicanti. Ristoranti, balli, caffè-concerto, prostitute, bigliardi, tutto il repertorio di Toulouse-Lautrec: Lautrec mescolato a Goya. Nei mendicanti della Parigi 1900 riapparivano i fantasmi mistici di Theotocopuli. E tutto questo straordinariamente vivo, vivace, arrogante, contradditorio. Dal 1902 al ’6 Picasso ha dato fondo alla meravigliosa leggenda degli arlecchini e dei saltimbanchi. Ha dipinto Le Marchand de Gui, Les jeunes Acrobates, Jeune fille à la chevelure, Femme à l’éventail, il ritratto di Gertrude Stein. Le Demoiselles d’Avignon sono dello stesso 1906 epoca dell’arrivo di Modigliani a Parigi. È una tela capitale per la storia dell’arte moderna e preannuncia quello che due anni dopo sarà il cubismo. Modigliani non si estranea da questi fermenti. È troppo sensibile e inquieto per non accorgersi cosa avviene intorno, anche se la sua inquietudine non dipende dalle convinzioni. Comunque il contatto con spiriti forti e attivi, le loro ricerche, l’aria stessa che respira tutto serve a renderlo attento. Riesamina quello che ha visto e comincia a diluire certe sue fisime estetizzanti. Ora vede anche Botticelli con un altro occhio. Ha modificato le letture. Il libro di capezzale è sempre Dante. Nelle giornate buone legge Petrarca agli amici del Sacro Cuore come aveva fatto prima con quelli di Firenze e di Venezia. Ha scoperto Ronsard. E poi Mallarmé, Rimbaud, i parnassiani, i simbolisti; infine Lautréamont di cui sa brani a memoria. È più incline agli abbandoni che alla logica. Impulsivo malinconico tenero è di volta in volta casto e dissoluto. Gli spiriti aerei della poesia trovano in Modigliani un terreno più propizio delle polemiche diurne e notturne coi pittori circa il trattamento della forma, la costruzione, i cubi. Si interessa a quello che fanno; ne stima molti; spesso è battagliero, qualche volta sarcastico. Lui così mite e delicato può essere anche furioso. E non solo quando beve, e beve gagliardo. Lavora poco e quel poco lo distrugge. Sarcastico con gli altri non è certo clemente con se stesso. Quello a cui aspira è diverso da ciò che si dipinge in Rue Ravignan e dintorni. Il colore dei fauves così com’esce dal tubetto e incollato alla tela non è affar suo. E neanche le strutture dei cubisti. Non si tratta di impianto o d’esecuzione: è il suo ideale che è diverso. È la mancanza di adattamento alle formule, la mancanza di talento promiscuo. Umano, troppo umano? Sarà il suo limite. Ma non bisogna avere fretta. È una maturazione piuttosto lenta e faticosa. Attendiamo e vedremo come in questo limite Modigliani si brucerà.
In un periodo in cui tutti operano calcoli e vanno oltre le tre dimensioni in cui il paesaggio è avvitato e la natura morta agli albori di una rivoluzione, Modigliani non dipinge né un paesaggio né uno, natura morta. Le schegge di Mediterraneo che Matisse di ritorno dalla riviera sottopone agli amici nel Convento degli Uccelli, Rue de Sèvres, lo incantano. Ma tutto quel cobalto gli ricorda Rimbaud. Non problemi pittorici dunque, ma allusioni poetiche. La corrispondenza di Modigliani dal ’6 al ’9, le poche lettere che ci sono pervenute sono ricche di citazioni: Rimbaud e Baudelaire i nomi più frequenti. Dei pittori ne ammira due, Picasso e il Doganiere. Di Picasso usufruisce le modelle. Ma mentre Picasso lavora duro Modigliani si distrae. È bello come Davide. Gli amici per la sua eleganza lo chiamano « il principe ». Eleganza d’anima ha questo principe di Gerusalemme che anche stracciato e affamato sembra uscire dal Cantico dei Cantici. Le donne l’adorano. Sono le parigine che ha dipinto trent’anni prima Lautrec davanti allo zinco dei bistrò: le stesse dei racconti di George Moore. Una Bisanzio floreale per il giovane Davide che tiene in onore fa Regina Teodora. I pochi disegni che conosciamo di questo periodo sono di scarso interesse. Modigliani pregusta tra le modelle che un giorno diventeranno quadri quello che sarà il suo inferno. Nell’amore mescola troppe cose e cerca la melodia nella linea.


Bisogna attendere la partecipazione di Modigliani al Salone degli Indipendenti del 1910 per trovare nel Violoncellista un sicuro punto di partenza. L’influenza di Cézanne non è sottolineata come nella tela del Mendicante di Livorno - l’unica dipinta da Modigliani nel breve soggiorno in Italia durante il 1909. Nel Violoncellista lo spazio è meno suscettibile di divisioni plastiche e i valori costruttivi appaiono di uno docilità atta più a ricevere la vibrazione dei toni che a far spicco e peso di per se stessi. Vi troviamo esplicati il principio del suo colore e della sua linea. Ci sono le sue gamme e le sue terre; e velature come rugiade. Terra d’ombra pei contorni e terra verde per le ombre. E i rossi: il rosso cupo, il rosso fluido e profondo che traspare sotto i bruni; il bruno Van Dyck, il verde smeraldo, il nero e la terra di Siena. L’accenno alle lacche come il principio di un canto appena affiorato. E intorno alla figura l’aria incantata, quei sussurri di rosso sul verde replicati come in una eco. L’angolo acuto è sensibile a ulteriori impieghi e azzardi; ma quella che sarà la sua impostazione successiva il Violoncellista l’annunzio e la conferma.
L’incontro di Modigliani con l’arte negra è avvenuto l’anno prima della partecipazione al Salone degli Indipendenti. Picasso e Matisse sono stati gli iniziatori e ognuno ne ha fatto l’esperienza del resto affascinante, e per diversi aspetti istruttiva. Modigliani ha scolpito quattro o cinque teste: ovuli chiusi in una plastica limpida a due dimensioni. L’attività di Modigliani scultore va intesa come esperienza stilistica, infatti la sua pittura ne ha tratto giovamento e le cariatidi dipinte nello stesso periodo ce lo confermano. È una reazione al languore che ogni tanto interviene nella sua concisa grafia. Esempio tipico il Nudo doloroso (1908) dove insieme a residui di origine letteraria si avvertono riflessi di Klimt e di Secessione. Dal primo cartone delle cariatidi la reazione è manifesta: la grafia cessa di essere la scrittura elegante di un disegno fine a se stesso. La linea oscillante è decisamente trasformata in curva e la curva in sagoma. Gli ovuli dello scultore riappaiono agganciati in una materia più sensibile. L’astrazione è meno condensata anche se si procede per riassunti ed eliminazioni. La sagoma è il limite entro il quale la costruzione si sviluppa e si suggella: la sua principale funzione è di contenere gli sviluppi che va prendendo la forma costretta in uno spazio ridotto. Ma anche l’espressione strutturale più tesa non raggiunge l’impiego che ne fanno i cubisti. Entro la sagoma Modigliani va introducendo profili appena percettibili, curve che appaiono e svaniscono come filamenti di musica. Elimina dai pesi l’ombra e le costruzioni diventano trasparenti nella flessione. Il contorno è netto; nelle cariatidi dipinte nel 1913 la forma è sottolineata da puntini come d’imbastitura. Ma è la fine dell’astrazione e la cariatide va maggiormente precisando la sua origine umana. Nelle sagome di terra rossa si possono leggere lineamenti friabili e occhi. Sta per nascere Venere. La venere di una nuova mitologia. Un essere trasparente e malinconico, una forma precisa e larvale.

La Pianista: il titolo è Madame H. devant le Piano. Credo si tratti di Beatrice Hasting la poetessa inglese che Modigliani conobbe a Parigi nel 1914, la Beatrice del papier collé datato 1915. Sulla cronaca degli spettacoli il profilo di Beatrice. La fronte sotto il colbacco forma una linea col naso e la bocca, una perpendicolare su cui poggia un grande occhio socchiuso. L’incontro con Beatrice Hasting ha diverse influenze: la vita randagia di Modigliani trova nella poetessa una compagna fanatica: è una delle maggiori consumatrici d’oppio del quartiere. Ma è anche una modella eccezionale. Con Beatrice Modigliani semplifica e porta all’estrema purezza il suo disegno. Il chiaroscuro diventa blando sino ad estinguersi nei fogli posteriori. Il contorno è il segno percettibile di una vibrazione che può cessare o continuare. Qualcuno cita Rodin: ma Modigliani non ha preoccupazioni anatomiche e il suo disegno è limpido ma statico: l’immagine epurata da ogni pregiudizio chiaroscurale e descrittivo. Quando si parla di evocazione spesso si fraintende. Modigliani evoca con un rapporto continuo tra linea e forma. Mancano i numeri intermedi che hanno contribuito al risultato. Ma dove trovare questi numeri se non nel progressivo sviluppo dei suoi fogli? Dai ritratti a matita di Moder Branteska ai profili di Beatrice Hasting c’è un sommario di eliminazioni. I nudi che disegna con Beatrice sono appena mormorati. Eliminati gli spessori dell’intera orchestra negro è rimasto un flauto. E di questo flauto una sola nota, la tenera. Tra i molti dipinti e disegni ispirati da Beatrice nel giro di tre anni quello che più ricorda la Pianista è Tête de femme au chapeau: potrebb’essere uno studio preliminare. Il volto di Beatrice generalmente allungato qui è sferico e i lineamenti si identificano col ritratto successivo. Il disegno tradotto nel dipinto si elettrizza: un rapido fuoco l’attraversa. La pennellata è veloce e affastella: si sente il crostone degli Impressionisti maciullato dalla spatola. Il cappello è verde come la rana. E la faccia rossa come la crosta della luna. All’altezza delle spalle, un poco più in basso, la tastiera del pianoforte col suo mosso e scintillante paesaggio. L’aria è pregna di musica. La Regina Teodora nell’ultima incarnazione? Antonio Mancini e Ravenna.
I ritratti di Beatrice Hasting si susseguono: acquerelli, olio e matita grassa, guazzi; ma il colore, qualunque sia la tecnica, torna ad essere trasparente. Tornano gli impasti sulla scala dei verdi e dei bruni, i profili incastrati sotto le fronti che vengono in avanti, gli ovali degli occhi nell’ovale più grande del volto, la bocca prominente come una mandorla chiusa. E il collo alto che continua la linea del mento. L’ultimo ritratto di Beatrice Hasting ha la data del ’16. Dello stesso anno sono quelli di Deleu e di Lepoutre, il secondo ritratto di Paul Guillaume: una costruzione di angoli che si intercettano con piani in successione. Modigliani vi ha impiegato una massa di neri di difficile manovra: il rosa il verde il grigio non rallentano la solidità dei neri e creano accordi intermedi usufruendo degli angoli su cui poggiano. Attraverso questi angoli e questi piani la flessione curvilinea determina la composizione. Ma non per ragioni strettamente costruttive come in Cézanne. A tale proposito Lionello Venturi in una breve nota chiarisce la posizione del nostro: « Se si guarda a Modigliani e all’arte che lo ha immediatamente preceduto, egli è impensabile senza l’impressionismo ed è essenzialmente fuori dell’impressionismo. Inoltre lo sviluppo della sua linea sembra riporti sul piano molti elementi creati per la profondità, e quindi egli consideri come scopo dell’arte il valore decorativo. E poi ci si accorge che non è affatto così, e che le sue linee non si sviluppano mai sopra un medesimo piano, e realizzano in un’apparenza di superficie una visione a tre dimensioni. Se cioè si assume in Cézanne il simbolo della visione costruttiva in profondità, e in Monet il simbolo della visione decorativa in superficie, si sente che Modigliani è lontano dall’uno e dall’altro, e ch’egli parla un diverso linguaggio... Il sentimento della linea ideale ha preceduto l’esecuzione della linea materiale... ». Codesto sentimento è rintracciabile sin dalle prime opere. Ma in gradi diversi sì evolve nella medesima direzione anche quando sembra sviata e sopraffatta da altre esigenze. Nei momenti di minore impegno diventa maniera e si esaurisce in una elegante metafora. L’impianto invece resta immutato. Una parete di fondo. Una parete dall’intonaco delicato capace di armonizzare le più lievi congiunzioni. Su questo schermo sensibile Modigliani muove le verticali stabilendo un ordine di cadenza e le fa coincidere secondo la disposizione ritmica delle figure. A volte la parete finisce in angolo acuto, altre volte è scanalata da linee o suddivisa in riquadri. Come nelle iconi bizantine, specie in alcuni ritratti (vedi il Kisling della raccolta Jesi) compone caratteri nello stile lapidario. Ma è un gioco e non si ripete spesso. Se lo sfondo non è una parete sarà una porta. Una porta chiusa. È forse quella del paradiso? Un capolavoro lo conferma: Ragazzo dalla giubba blu. Chi vi si appoggia si inazzurra, si allunga e diventa straordinariamente trasparente come se le evaporazioni del rosa dei rossi e del turchino combinati in una miscela fatata cancellassero la parte pesante e terrestre che è in ognuno. L’operazione raggiunge particolare intensità quando davanti a una di queste porte sta in piedi o seduta la patetica Madame Hebuterne, l’ultima compagna di Modigliani. L’allungamento si produce con un ritmo parallelo e crescente come in una fuga: i lineamenti attraversano l’ovulo da parte a parte. Le ciglia si inarcano in un disegno appena percettibile e gli occhi sono a fior di pelle; alta è la fronte e altissimi i capelli che compongono una fumata.
Le linee salgono dalle curve in una superficie che le riflette di spazio in spazio, in quella profondità modulata dove i profili labili si imprimono. Il concerto delle tonalità raggiunge angelici abbandoni. Il colore trasmette la sua febbre e i suoi balsami. Tutto è vivo e ardente: porte e piastrelle, i muri, l’intonaco, il mobile d’angolo con la scodella in ombra. Chi siede trasmette la febbre alle sedie. Non importa se è il ragazzo del portinaio Cocteau o la signora Cekowska. Non importa se è un nudo che prende fuoco. È la prima o l’ultima giornata dell’Apocalisse? Nell’Autoritratto del 1919 è seduto anche lui, Modigliani, e ci mostra la tavolozza come Veronica il fazzoletto con l’impronta di Cristo. Modigliani sembra dall’altra parte distante e socchiuso. Non ha più niente da bruciare. Modigliani è all’ultima stazione della sua arte e della sua vita.
Dal 1916 al 1919 dipinge le sue maggiori opere. È ansioso di trasmettere l’ultimo messaggio, la trasfigurazione che va compiendo in quel mistero figurato che è la sua pittura. Nel disegno della Donna seduta ha trascritto: « La vita è un dono: dei pochi ai molti, di coloro che sanno e hanno a coloro che non sanno e che non hanno ». Negli ultimi anni questo dono aumenta di grazia di intensità e di numero. Le immagini sono le stesse: le stesse donne sulle stesse sedie. E questi occhi aperti che continuano a guardarci senza vederci. E queste bocche che sembrano appartenere tutte alla medesima faccia. Fioraie e lattaie, giovani fantesche, la prostituta, la cioccolattaia. Gli amici e le mogli degli amici. Ha dipinto uno dopo l’altro Kisling, Jacob, il messicano Rivera, Cocteau, Baranowski. Ha dipinto Soutine col volto di santo martire rappezzato. Ha dipinto il fedele Zborowski. E quelli che non ha potuto dipingere li ha disegnati nei caffè di Montparnasse: Cendrars, Friesz, Lipchitz, Zadkine, Fabiano De Castro, Paresce. E tanti Zborowski in sogno. Fra le nuove immagini ci sono le bellissime di Madame Hebuterne dipinte tra il ’17 e il ’18: Gli occhi blu, Donna di profilo, La Moglie dell’Artista. Della stessa epoca sono i ritratti della Cekowska (l’ultimo, in una raccolta privata a Milano, è del ’19) e della signora Menier (raccolta Cardazzo), della signora Zborowski replicata più volte. Dal ’17 al ’18 Modigliani inizia e porta a compimento la serie dei Nudi: se la composizione è orizzontale le curve saranno ampie e distese e la linea sarà chiusa da angoli. La funzione dei suoi Nudi sembra che non abbia altro scopo al di là di questa solenne distensione e accensione. Il Nudo coricato della raccolta Feroldi rappresenta la massima temperatura nella sua gamma di rossi. Il presentimento della fine lo rende apprensivo e fanatico ma anche pieno di misericordia. Perdona a sé e perdona agli altri. Ma basta un solo bicchiere per ubriacarlo. Quante volte Zborowski non l’ha raccolto all’alba sui marciapiedi del Boulevard Raspail? Da Salmon a Carco c’è tutta una letteratura dedicata alle notti di Modigliani, ai suoi eccessi, alla sua miseria, alla sua fine nell’Ospedale della Carità. «ITALIA, CARA ITALIA!» furono le parole che disse prima di morire.
Il giorno dopo la sua morte il suicidio di Madame Hebuterne non commosse soltanto gli artisti di Montparnasse ma tutta Parigi: Amedeo Modigliani, il peccatore che non poté diventare angelo fu assunto in gloria dagli uomini.
RAFFAELE CARRIERI