Il mercante di Picasso. Vita di D. H. Kahnweiler (1884-1979)
Traduzione
dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti
Editore 1990
pp 66-73 e
82-83
I legami con Kahnweiler sono fatti di amicizia
e di accordo, di mutuo rispetto e di fiducia. Nei suoi ricordi il 1907 è una data
fondamentale perché segna l’apertura della galleria di rue Vignon e l’inizio di
“una lotta bella e dura”, condotta di concerto dai due uomini. Da parte sua
Kahnweiler parlerà sempre di Wilhelm Uhde con immenso rispetto e con infinita
gratitudine. Perché una breve frase di Uhde, solo qualche parola,
determineranno nel 1907 tutta la sua esistenza.
È l’inizio dell’estate. Un giorno uno
sconosciuto entra nella galleria. È vestito in modo strano, si comporta in modo
strano. I suoi capelli sono neri come il giaietto, un nero lucente come lignite
fibrosa e dura. Ma il suo sguardo, ugualmente scuro, profondo e misterioso,
illumina il viso. Silenzioso, attento, osserva i quadri a uno a uno e poi se ne
va. Non ha aperto bocca. Kahnweiler è molto stupito nel vederlo tornare il
giorno dopo, stavolta in compagnia. Ma quel grosso signore barbuto è anch’egli
muto, si comporta come l’ometto tarchiato, guarda ogni tela e se ne va.
Kahnweiler ha già dimenticato l’episodio quando
Uhde gli suggerisce di andare a fare un giro in uno studio di Montmartre e più
precisamente in quello di Pablo Picasso: “c’è un quadro, una cosa molto strana,
di tipo assiro...”
Due giorni dopo egli si inerpica per gli
scalini che portano alla Butte, spinto dalla curiosità e dalla fiducia nel
gusto di Uhde. Non sa niente o quasi di Picasso. Ha avuto un saggio del suo
lavoro passando davanti alle vetrine di Sagot, Vollard o di Berthe Weill, e non
l’aveva straordinariamente colpito. L’aveva considerato un poco sorpassato per
l’influsso fauve, troppo trascurato
nel trattare il colore.
Finalmente lo studio. L’arredamento è
indefinibile, a metà strada fra la miseria e il pittoresco. Sulla porta sono
stati infilati in fretta dei pezzi di carta. “Manolo è da Azon”, “È venuto
Totote”, “Derain verrà nel pomeriggio”. È molto da artista, questa porta. Il
pittore apre. È lui, Picasso? Questo giovane in camicia, col petto scoperto e
le gambe nude? Ma è il giovane silenzioso dell’altro giorno, il visitatore
misterioso! E l’amico che si era fatto accompagnare in carrozza era Vollard!
Finalmente Kahnweiler capisce!
«Sa cosa mi ha detto Vollard uscendo dalla sua
galleria? È un giovane a cui la famiglia ha regalato una galleria per la prima
comunione... »
Il colpo è duro, perché viene da una persona
che gode della sua completa ammirazione. Kahnweiler si guarda intorno. Che
confusione, che guazzabuglio di oggetti disparati, di disegni ammucchiati, di
tele posate qua e là. E quanta polvere... Manca il gas e l’elettricità in
questa “casa del cacciatore di pellicce”, che passerà ai posteri con il nome di
Bateau-Lavoir, una specie di vecchio battello ormeggiato sulla Butte, in cui
ogni studio di artista sembrava la cabina di una nave ma senza averne il lusso.
Per aver acqua bisogna riempire le brocche al primo piano. Per la luce,
Picasso, che lavora molto di notte, si serve di una lampada a petrolio.
Il poeta Pierre Mac Orlan che dalla fine del
secolo frequenta le strade di Montmartre descrive la “casa del cacciatore di
pellicce” come un luogo orrido. Questi ateliers
gli sembrano delle pretenziose scatole di fiammiferi, ma con le assi sconnesse.
Alcuni usano come materasso copie dell’ “Intransigéant”, perché ha sei pagine
più degli altri quotidiani. È la miseria più completa, ma la gente qui non
parla mai di denaro.
E questo famoso quadro assiro? Va bene tutte le
altre tele, ma “la” tela di cui parla Uhde... Eccola.
È un colpo. Kahnweiler prima è stupito, poi
sconvolto. Ha l’impressione che stia accadendo qualcosa di meraviglioso, di
straordinario, di inatteso. Questa visione è una vera e propria mazzata. Tanto
più forte perché inaspettata, la mente ancora colma dei pregiudizi suscitati
dalle tele rosa e blu. Assiro non è la parola giusta. Ammirevole, certo. Folle
e mostruoso insieme, e così commovente, è in ogni caso un’opera importante e
indubbiamente nuova. A corto di aggettivi e di superlativi, annientato egli si
lascia sfuggire: “È indefinibile...”
Come analizzare e giudicare questa novità
assoluta? Kahnweiler non può impedirsi di intellettualizzare e concettualizzare
subito questa rivelazione. Questo quadro, che passerà alla storia come Les demoiselles d’Avignon, richiede una
valutazione che non si basi solo sul gusto. Non basta vederlo. Bisogna
approfondire e capire in che cosa il ritmo delle forme entri in contraddizione
con la rappresentazione del mondo esterno.
In questo grande quadro di cm. 235 x 245,
Kahnweiler distingue due parti. A sinistra due donne dipinte in chiaroscuro, di
colore chiaro, che - da questo punto di vista - non sono diverse dalle opere
del periodo rosa. Ma diversamente da quanto ha fatto finora, non è un disegno
rialzato. Le forme sono molto modellate, quasi squadrate a colpi d’ascia. A
destra due donne, una ritta e l’altra accovacciata. Il colore violento è steso
a strisce parallele, qui soprattutto sta la rottura, iniziata e annunciata da
questo strano quadro. E qui Kahnweiler intuisce lo sconvolgimento, sente che
una tradizione è stata rovesciata. I frutti e i parati che circondano queste
donne sono meno importanti; il quadro nel complesso gli sembra incompiuto
perché non raggiunge un risultato coerente. A sinistra si è ancora nel 1906, le
forme vengono create ancora dall’ombra del chiaroscuro, come prima. A destra si
è già nel 1907: il disegno e il colore creano la forma con la direzione dei
tratti che la compongono. E una forma squadrata in angoli duri. Questo primo
abbozzo cambia tutto: il cubismo ha la sua origine nella parte destra delle Demoiselles d’Avignon.
Picasso gli appare follemente audace. Invece di
affrontare i problemi della pittura ad uno ad uno, ha scelto di affrontarli nel
loro complesso. Non ha fatto una composizione piacevole, ma ha articolato sulla
superficie piana una vera e propria struttura. È un quadro duro e angoloso,
come gli spigoli che delimitano le teste. Kahnweiler riassume in poche parole
questo insuperabile problema che Picasso affronta con un soprassalto disperato
e patetico: è la rappresentazione di cose colorate in tre dimensioni su una
superficie piana incorporate nell’unità di questa superficie. Certo non tutto è
rivoluzionario nelle Demoiselles
d’Avignon. Picasso disorienta perché sboccia in un paesaggio agitato dai fauves e per lui la luce è solo un mezzo
per valorizzare i corpi. Inoltre l’aver sottoposto le parti al ritmo dell’insieme
del quadro crea una deformazione. Ma questo aspetto spettacolare a Kahnweiler
non pare la cosa essenziale. Egli ricorda che è stata tentata anche da Cézanne
e Seurat, Van Gogh e Gauguin.
Dove sta allora la novità? A destra, ma in che
cosa? Nel fatto che il pittore non cerca di imitare il mondo esterno, ma di
coglierne il significato. Per Kahnweiler non c’è alcun dubbio che questa nuova
scrittura plastica non segna solo la fine del fauvisme. È un passo decisivo nella storia della pittura, una vera
rottura. Si capisce come chi ha visto questo quadro l’abbia giudicato una
pazzia.
Kahnweiler ne è colpito. Ma è il solo. Quando
Picasso ha mostrato il suo quadro straordinario ai suoi amici, ha avuto solo
giudizi ironici. Parole che talvolta volevano scoraggiarlo, ma che finivano per
essere sarcastiche e offensive. Quando riceve per la prima volta Kahnweiler nel
suo studio è completamente solo, abbandonato di fronte alle sue creature. Gli
amici gli sono vicini, ma sono preoccupati come davanti a un trapezista che
lavori senza rete. «È come se qualcuno bevesse petrolio per sputare fuoco», ha
detto Braque.
Derain, che considera l’impresa disperata, dice
a Kahnweiler: «Un giorno troveremo Picasso impiccato dietro il suo grande
quadro. »
Lo scandalo resta nei limiti della Butte di
Montmartre. Picasso è diventato matto. Il suo studio, che il poeta Max Jacob
definisce “il laboratorio dell’arte moderna”, prepara mostruose alchimie. Lo
stesso Uhde a cui Picasso ha mandato un biglietto disperato per presentargli le
sue Demoiselles non ne è stato
spaventato come gli altri, ma per lo meno sconcertato. Assiro... Stupito, ma
prudente. Gli ci sono volute parecchie settimane di riflessione per capire e
accettare.
Tutti costoro non sono però degli imbecilli.
Pittori, critici, poeti collezionisti... Li conosce bene, non sono degli
accademici, sono degli esperti, aperti e sono degli amici. Essi trovano sulla
tela le deformazioni del reale, ecco un braccio, dei seni, ma in quali
condizioni! Tutto ciò non può che ispirare un sentimento d’orrore. Più tardi
Picasso confiderà a Kahnweiler: «... dicevano che mettevo il naso di
traverso... ma bisognava pure che lo mettessi di traverso perché si
accorgessero che era un naso!».
In questo momento straordinario il giovane
mercante si sente come Vollard, che la prima volta che ha visto un Cézanne ha
provato quasi un pugno allo stomaco, o come Durand-Ruel quando ha conosciuto
Claude Monet a Londra nel 1870. Le vie della coscienza estetica sono
impenetrabili.
Solidarietà. Ecco che cos’è. Ai piedi delle Demoiselles d’Avignon Kahnweiler e
Picasso si osservano, si scrutano, si capiscono. Tutto è detto. Non occorrono
altri commenti. Picasso sa che d’ora in poi non sarà più solo. Kahnweiler sa
che ha fatto bene a non andare in Sudafrica a occuparsi di miniere di diamanti.
Farà il mercante di quadri a Parigi. L’incontro con quest’uomo e con questo
quadro da un senso alla sua vita. Probabilmente è quella che, nei libri, viene
chiamata nascita di una vocazione. Al suo ingresso in questo studio era già un
mercante e quando ne esce lo è ancora; ma non è più lo stesso uomo.
Essi si valutano con lo sguardo. Il mercante ha
ventitré anni, il pittore ne ha ventisei. Nei giorni che seguono questo duplice
choc essi si rivedono. Kahnweiler compera da Picasso qualche guazzo recente e
tre piccoli quadri, già eseguiti nello spirito nuovo, nello spirito della parte
destra delle Demoiselles che tanto
turbano i visitatori. Fra i tanti studi ed abbozzi vi sono numerosi studi
preparatori di questo quadro. E il quadro? Picasso non lo vende. «Non è
finito», dice.
Kahnweiler non insiste e non perché non lo
voglia, ma non osa. Non ha la forza di carattere per affrontare il pittore, che
è chiaramente diffidente. Non lo è solo con Kahnweiler, ma con tutti. Ancora di
più con i mercanti. Comunque Vollard e Berthe Weill erano già stati sconcertati
da alcune sue tele del periodo blu. Non parliamo delle Demoiselles d’Avignon. Picasso è libero. Non conosce questo tedesco
ma è colpito dalla sincerità del suo entusiasmo, perché è eccezionale. È uno
dei pochi che crede totalmente in lui, in ciò che è più profondo, nel momento
in cui Picasso tocca il fondo della sua miseria morale: la solitudine assoluta.
Per avere la sua adesione, vincere le sue esitazioni e superare la sua antica
diffidenza, Kahnweiler dovrà provare che nonostante la giovane età e l’inesperienza
è capace di difendere le sue convinzioni.
D’ora in poi i loro destini sono legati.
Diventando suo amico Kahnweiler entra nella
cerchia degli intimi, conosce il poeta Max Jacob e Guillaume Apollinaire, che
vive con Marie Laurencin vicino a casa sua ad Auteuil. Spesso essi fanno delle
passeggiate insieme, simpatizzano, chiacchierano, nasce una vera amicizia che
sarà spesso turbata da grandi tempeste. Infatti fin dai loro primi incontri
Kahnweiler è persuaso che Apollinaire è un grande poeta, e lo ammira
sinceramente, ma che non è un buon critico d’arte. Ha con la pittura un
rapporto sensuale e intellettuale. Si comporta come un amico con i pittori che
gli piacciono, attratto soprattutto dalle novità. In breve, Guillaume non è un
critico d’arte, checché ne dica, e il mercante non perde occasione per
ricordarglielo, cosa che a volte guasta i loro rapporti.
Kahnweiler rivende subito i suoi primi Picasso
a Hermann Rupf. Ha appena il tempo di esporli. Ma egli ne vuole altri, e così
prende l’abitudine di andare al Bateau-Lavoir a far visita al pittore. Ha
imparato a conoscerlo. Kahnweiler capisce che non bisogna svegliarlo presto al
mattino perché gli piace lavorare di notte. Chi lo scuote all’ora in cui
abitualmente aprono gli uffici avrà in cambio un pessimo umore. C’è un’altra
cosa che offusca il suo sguardo: gli dispiace separarsi dalle sue tele, quando
vende i suoi quadri è spesso teso perché li vede andar via. Così fin dall’inizio
Kahnweiler impara a non essere troppo insistente. Sono due amici quasi
coetanei, ma fra di loro c’è una certa distanza, dovuta forse all’ascendente
del pittore, alla sua sicurezza, alla fiamma della sua fede. Sono qualità che
ha anche Kahnweiler, ma apparentemente con minor forza.
Se si pensa alla sua prudenza... Forse è questo
il motivo per cui si abbona all’Argus de la presse, per ricevere tutti i
ritagli di giornale in cui sono citati il suo nome, quello della galleria e di
alcuni pittori. Il 15 luglio 1907 inaugura un grande quaderno nero in cui
incolla sulla prima pagina il suo primo articolo ricevuto: L’invasion espagnole: Picasso di Félicien Fagus, pubblicato su “La
Gazette de l’art”.
Ma ora la galleria Kahnweiler è agli inizi,
vista dall’esterno sembra così artigianale che molti pensano che il mercante
stia improvvisando. Ma è un’impressione falsa, anche se egli impara sul campo,
lo fa dopo aver stabilito principi e linee di condotta ben ancorate.
Egli comincia così con Uhde, con Rupf e
soprattutto con Dutilleul a costituire un piccolo nucleo di amatori fedeli.
Kahnweiler li avverte a ogni nuovo arrivo e quasi sempre essi fanno acquisti.
Non potrebbe essere più semplice. E partecipare alle mostre? È inutile, a che
serve? Kahnweiler è persuaso che molte persone ci vanno, spesso in gruppo, solo
per arrabbiarsi o sghignazzare. Non è necessario andare a esporsi ai loro
sarcasmi. Quanto al giudizio della critica, dell’accademia e anche del grande
pubblico, gli è del tutto indifferente. La pittura è un’arte d’elite. Su questo
non recede. Perché dunque cercare le masse?
Detto questo, quando alla fine di agosto Derain
gli raccomanda di esporre le sue tele al Salon d’automne che si tiene nell’ottobre
del 1907, si affretta ad accontentarlo. Anche Braque vi espone. Il giovane
mercante non è ancora molto conosciuto in quest’ambiente prestigioso, perché i
suoi quadri vengono indicati con il nome di Kahmweiler o Kohuweiler, quando non
Rahnweiler o peggio. In questo Salon il grande avvenimento è una retrospettiva
di Cézanne, a un anno dalla morte. Per arrivarci il visitatore deve passare
davanti alle tele di Abel-Truchet, un pittore che con l’astuzia del trattino è
riuscito ad avere finalmente il primo posto nel catalogo.
Questa retrospettiva che presenta ben
cinquantasette tele è importante. Essa permette a uomini come Kahnweiler,
Braque, Picasso di misurare il cammino fatto e quanto resti da fare. Grazie a
questa esposizione possono prendere meglio le distanze. Essa si tiene al
momento giusto, subito dopo lo choc delle Demoiselles
d’Avignon. Parecchi pittori della giovane generazione ne escono
impressionati, talvolta sconvolti. Fernand Léger, che allora ha ventisei anni,
e che qualche anno prima è stato colpito dalle tele del maestro di Aix, esposte
su quelle stesse pareti, non rimpiange di aver distrutto allora la maggior
parte dei quadri di influenza fauve o
impressionista.
[…]
L’altro critico lo interessa per ragioni del
tutto diverse. Louis Vauxcelles è un uomo che conta nell’ambiente, un uomo
influente, come si direbbe oggi. Repubblicano e difensore di Dreyfus, Louis
Mayer ha assunto lo pseudonimo di Vauxcelles dopo gli studi alla scuola del
Louvre e alla Sorbona, quando si è dato al giornalismo. Ha una penna affilata e
presto si fa un nome. Il suo giudizio non è particolarmente penetrante,
perspicace o rivoluzionario. Al contrario, l’arte moderna lo interessa poco. Ma
è un uomo attivissimo, che tiene molte conferenze, scrive molte prefazioni a
cataloghi e soprattutto molti articoli in riviste e in giornali. È il più
fecondo critico d’arte di Parigi, un vero grafomane, una fortuna insperata per
i caporedattori a corto di articoli.
Kahnweiler ha già avuto occasione di leggere le
sue cronache, ma quel 14 novembre 1908 ha una ragione particolare per cercare
la sua firma sulle colonne del “Gil Blas”, poiché vi è la critica dell’esposizione
di Braque in rue Vignon. Infatti, girando una pagina legge: “[Egli] costruisce
piccole figure metalliche, distorte e incredibilmente semplificate. Non si cura
di modellare la forma e riduce tutto, paesaggi, luoghi, persone e case a
diagrammi geometrici e a cubi. Non lo mettiamo in ridicolo perché è in buona
fede. E aspettiamo”.
Dei cubi... È la prima volta che questa formula
viene usata per indicare questo tipo di pittura. Anche se, a quanto si dice, un
membro della giuria del Salon d’automne ha detto ‘‘Braque fa dei piccoli cubi”,
è la prima volta che questo termine viene usato a questo scopo. Bene o male,
adeguata o inopportuna, la parola è lanciata. Così il cubismo viene battezzato
da uno che non lo apprezza. Il termine voleva essere cattivo e ironico, di uso
limitato e, in ogni caso, puntuale, entrerà invece nella storia.
Vauxcelles sembra essere predestinato a queste
situazioni paradossali, perché è stato lui che, proprio tre anni prima, in un
articolo sul “Gil Blas” aveva voluto prendersi gioco dei quadri di Matisse,
Vlaminck, Roualt e Derain esposti al Salon d’automne. Notando fra tutte quelle
tele una scultura di stile molto “italiano”, aveva scritto: “il candore di
questo busto stupisce in mezzo all’orgia dei toni puri: Donatello fra le bestie
feroci”.
Così il cubismo, come il fauvisme, avrà per
sempre un nome inventato da un detrattore. Cosa che tutto sommato rientra nell’ordine
delle cose, perché anche il termine impressionismo è nato in circostanze
analoghe. Monet, non sapendo quale titolo dare a una delle tele dipinte dalla
sua finestra a Le Havre, aveva detto all’incaricato di preparare il catalogo di
una mostra collettiva: «Scrivete: Impressioni». Il titolo fu poi Impression, soleil levant. Ma L. Leroy,
cercando di essere aspro, ironico e di farsi beffe di lui (“siccome sono
impressionato, qualche impressione dovrà pur esserci là dentro...”), suo
malgrado, gli ha dato un’importanza storica, poiché il termine ha avuto la
fortuna che ben conosciamo.
Kahnweiler trae una certa filosofia dalla
coincidenza nel modo in cui l’impressionismo, il fauvisme e il cubismo sono
stati battezzati. Senza saperne spiegare il motivo lo considera di buon
auspicio, giungendo a fantasticare che forse potrebbe essere il segno
distintivo di un movimento autentico. Per lo stesso motivo egli invita a
diffidare “dei movimenti coscienti e organizzati”, che si autodefiniscono,
mostrando così un carattere artificioso e il predominio dei capi sul gruppo. È
pur vero che dai nabis ai
surrealisti, passando attraverso i futuristi e i costruttivisti, i decenni
seguenti non saranno avari di movimenti che si autoconsacrano.
Il 1908 sta per finire: non è il momento del
bilancio, ma quello delle grandi decisioni. Le condizioni in cui si è svolta l’esposizione
di Braque, il suo impatto e i commenti che ha suscitato, hanno dato ragione al
mercante. In accordo con i suoi pittori egli decide di non fare più delle
personali in rue Vignon e di non mandare più quadri alle mostre. Perché
mostrare quadri a persone che non sono in grado di capirli? Li espone nella sua
galleria a seconda degli arrivi, e questo può bastare, ma non li mostrerà all’esterno
e non farà niente per farsi conoscere attraverso i mezzi deleteri della
pubblicità. Questo non gli impedisce di continuare a diffondere le sue
fotografie all’estero a richiesta dei collezionisti e delle riviste d’arte.
Così, nel momento in cui il cubismo nasce a
Parigi, la capitale francese è uno dei luoghi in cui ci sono minori
possibilità di vederlo, a parte pochi studi, che naturalmente non sono aperti
al pubblico, e una piccola galleria che lo è solo un po’ di più... Per trovare
il cubismo a Parigi bisogna proprio cercarlo.
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