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domenica 28 dicembre 2014

Picasso - Guernica, nelle parole di Patrick O'Brian


PICASSO, di Patrick O’Brian
Traduzione dall’originale inglese
Pablo Ruiz Picasso. A Biography
di Paola Merla
Longanesi & C. Milano 1989
pp. 366-380

Dora non viveva con lui, ma gli aveva trovato uno studio magnifico a Parigi e si era trasferita in un appartamento vicinissimo, in Rue de Savoie.
Lo studio, o meglio il complesso di studi e di altre stanze, occupava gli ultimi piani e i solai di un palazzo nobiliare, ormai cadente, che era stato costruito nel diciassettesimo secolo per la famiglia Savoia-Carignano: sorgeva abbastanza incongruamente in Rue des Grands-Augustins, dove Balzac aveva ambientato l’inizio del suo Chêf-d’œuvre inconnu; a giudicare dalla descrizione della scala a chiocciola, poteva trattarsi proprio dello stesso edificio dove si trovava lo studio di Picasso, al numero sette. Leggermente arretrato rispetto all’antico vicolo, con un cortile cinto da un muro sul fronte della casa, fino a pochi anni fa vi si sarebbero potuti immaginare Poussin, Watteau o Balzac stesso affacciati sul portone. Oggi l’edificio è stato ristrutturato: bianco, pulito, severo, poco accogliente e un po’ falso, appare del tutto diverso da come era al tempo di Picasso, il quale scoprì con sua grande delizia che la parte da lui occupata ricordava molto il Bateau-Lavoir.
Anche prima di trasferirvisi aveva lavorato moltissimo. Stimolato da Dora Maar e dalla guerra civile in Spagna, il flusso creativo aveva ripreso a scorrere copioso: eppure sorprende notare come il primo quadro del 1937 sia una Marie-Thérèse dalla cromia vivace, seduta su una poltroncina, in uno spazio ristretto dove non c’è quasi posto per il suo allegro cappello. Indossa un abito multicolore, solcato da fitte linee nere, cosicché le diverse superfici ricordano il cartone ondulato che Picasso usava per le sue figure in gesso: la figura appare perfettamente serena, con i dolci occhi posti sullo stesso lato del volto, un artificio che permise a Picasso di conservare la linea del profilo e che sollevò grande scalpore a quel tempo, mentre oggi è universalmente accettato.
La guerra in Spagna volgeva al peggio; sebbene l’attacco a Madrid fosse stato respinto dopo un terribile corpo a corpo per le strade e nell’università, era ormai chiaro che la neutralità delle grandi potenze era una crudele farsa; la Francia e l’Inghilterra agirono probabilmente in buona fede, pur con idee molto confuse, ma si perdettero in un mare di parole mentre Hitler e Mussolini facevano affluire rinforzi in aiuto di Franco. C’erano ormai circa diecimila tedeschi e quarantamila italiani schierati a fianco delle truppe nazionaliste, per non parlare dei nordafricani, mentre Hugh Thomas calcola che il numero totale dei russi fosse di circa cinquecento, anche se naturalmente l’Unione Sovietica inviò anche aeroplani, armi e carri armati, in parte usati dai volontari delle Brigate internazionali. Le truppe tedesche e italiane erano forze regolari e addestrate e tra i tedeschi si contavano molti comandanti e piloti della Luftwaffe, ansiosi di migliorare il proprio rendimento e di sperimentare tecniche e armi su bersagli veri, in vista della più grande guerra che si andava preparando.
Con slancio appassionato Picasso scrisse una poesia, Sogno e menzogna di Franco, un poema surrealista in cui parole rabbiose si affastellano l’una sull’altra raggiungendo quasi quel delirio ritenuto un tempo da Eluard come l’espressione della ragione all’apice della sua purezza: «fandango de lechuzas escabeche de espadas de pulpos de mal aguero estropajo de pelos de coronillas de pié en medio de la sartén en pelotas - puesto sobre el cucurucho del sorbete de bacalao frito en la sarna de su corazon de cabestro - la boca llena de la jalea de chinches de sus palabras». Una traduzione letterale di questo frammento «Fandango di civette salamoia di spade di polpi di malaugurio strofinaccio di peli di tonsure ritto nel centro di un tegame a coglioni nudi posto sul cono del gelato di merluzzo fritto nella rogna del suo cuore di bue la bocca piena della gelatina di cimici delle sue parole» non rende la sonorità violenta e gli echi dell’originale spagnolo: la poesia era però rivolta a un pubblico di spagnoli ed era accompagnata da illustrazioni secondo la tradizione spagnola e catalana, come fosse un’aleluya o un’auca, ossia da una serie di piccoli quadri, ognuno in sé conchiuso ma tutti collegati fra loro. Sono acqueforti, qualcuna con scene ispirate agli orrori della guerra - donne uccise, case incendiate, l’innocenza violata - altre relative a Franco, rappresentato di volta in volta come un essere amorfo e ributtante, una sorta di ascidia piena di protuberanze setolute, ma umana quel tanto che basta a farla riconoscere come tale, in procinto di distruggere con un piccone un busto di marmo; o come un fallo con gli stivali che cammina sulla fune sventolando un vessillo sacro; o ancora, circondato da filo spinato, in preghiera davanti a un ostensorio sul quale è scritto «1 duro» (cinque pesetas: simbolo del denaro); nell’atto di uccidere Pegaso o come una specie di meschino centauro sventrato da un toro. La figura del toro compare tre volte, due volte mentre attacca il Caudillo e un’altra nell’atto di spaventarlo. Inizialmente le scene erano quattordici, ma in giugno Picasso ne aggiunse altre quattro: donne urlanti, bambini massacrati, una ragazza uccisa.
La sequenza non è chiara, ma non è necessario che lo sia: il complesso di incisioni accompagnate dalla poesia esprime il caos mostruoso, la follia, l’assurda crudeltà della guerra e il rifiuto assoluto da parte di Picasso non soltanto della guerra ma anche dei valori della destra. È forse significativo che non vi compaia la croce.
Il Sogno e menzogna di Franco fu l’enunciazione più chiara dell’atteggiamento di Picasso in un momento in cui correvano voci sul suo scarso appoggio alla causa repubblicana, a favore della quale ora si schierava senza incertezze e senza possibilità di ripensamenti; e dal momento che il 1937 avrebbe dovuto essere l’anno di un’altra grande esposizione internazionale a Parigi, il governo iberico gli chiese di contribuire dipingendo un’intera parete del padiglione spagnolo.
Picasso accettò, certo; ma in Spagna ciò significa molto spesso il contrario ed è probabile che i funzionari che gli avevano trasmesso la richiesta, anche se ignari della riluttanza di Picasso ad accettare ordini e commissioni che inevitabilmente lo avrebbero condizionato, se ne ripartissero in preda a un certo sconforto.
In effetti Picasso si dedicò ad altre opere: un ritratto di Marie-Thérèse, con una ghirlanda di fiori sul grazioso capo, altre nature morte, una Marie-Thérèse seduta sul pavimento con le gambe ripiegate sotto di sé, la schiena rivolta a una finestra che si apre su un balcone, uno specchio semiaperto a lato e un vaso da fiori di fronte. L’incisivo ritratto di Dora Maar risale anch’esso all’incirca allo stesso periodo, anche se il mese non è noto con sicurezza: il colore è assai più carico e l’atmosfera emotiva completamente diversa, ma anche qui ritroviamo gli occhi (uno azzurro chiaro, uno arancione) sullo stesso lato del viso, visto di fronte e di profilo, e anche qui la figura è seduta in una piccola poltrona, all’interno di uno spazio compresso e indicato con precisione da linee verticali e orizzontali.
Dopo l’innaturale e prolungato periodo di riposo Picasso stava lavorando a ritmo accelerato; ancora nature morte e un gruppo di dipinti molto curiosi. Dei quattro o cinque della serie quello riprodotto più frequentemente è la Baignade, che a prima vista sembra dipinto nello stesso periodo della terribile bagnante dalla testa di mantide del 1929. Il vasto spazio di mare e di cielo è lo stesso e le grandi forme di legno levigato dall’apparenza quasi ossea presentano un ovvio richiamo a quel mostro, ma lo spirito è del tutto diverso e le figure - in questo caso due fanciulle dalla struttura architettonica con facce appena accennate, ventre a forma di uovo, seni ovali e appuntiti, intente a giocare con una barchetta sulla riva, sono miti, innocue; e persino la prodigiosa testa che si fa loro incontro all’orizzonte e le guarda ha soltanto un’espressione di benevola curiosità. La calma non cela la minaccia, l’incubo si è allontanato.
Eppure, proprio in quei giorni Málaga si trovava sotto l’incubo più terribile della sua lunga storia di assedi, assalti, incendi, massacri. Fin dai primi giorni della guerra, Málaga e il territorio circostante erano stati un’isola repubblicana in zona nazionalista, unita al resto della Spagna quasi solo dalla strada costiera. A metà gennaio del 1937 l’attacco ebbe inizio: ai primi di febbraio i fascisti, inclusi nove battaglioni di italiani con automezzi blindati e carri armati, entrarono nella città, semidistrutta dai cannoni e dai bombardamenti. Immediatamente ebbe luogo un’epurazione feroce e la morte avanzò lungo la strada di Almeria, dove mezzi corazzati e aerei inseguirono e raggiunsero gli innumerevoli fuggitivi.
La caduta di Málaga coincise quasi esattamente con una delle più serene fra le nuove tele «ossee», una donna seduta sulla spiaggia che si toglie una spina di riccio dal piede, e con il quadro di Marie-Thérèse accanto allo specchio. Non c’è dubbio che le notizie raggiungevano Parigi in ritardo, incomplete e poco sicure, ma comunque arrivavano. In un primo momento mi era sembrato che l’assenza di una reazione immediata da parte di Picasso stesse a indicare il suo distacco dalla città natale e il suo identificarsi con la Catalogna; ma, riflettendoci, credo di aver capito che il furore covava già, si gonfiava man mano che giungevano le notizie, incapace però, per alcune settimane, di trovare espressione, finché un’altra tragedia agì da catalizzatore, liberando le emozioni in un’esplosione che abbracciò non soltanto quell’avvenimento, ma la guerra civile spagnola intera.
Verso il mese di marzo o di aprile Picasso si era trasferito in Rue des Grands-Augustins. Non aveva intenzione di rimanervi, tanto che aveva conservato l’appartamento in Rue de La Boëtie, ma il trasloco dei cavalletti, delle tele, degli attrezzi e di tutti gli oggetti che voleva avere con sé nello studio generò un certo trambusto. La sua attività comunque non si interruppe e quasi subito gli ampi locali si riempirono del familiare odore di colori e trementina e i quadri cominciarono ad allinearsi lungo le pareti.
Adesso finalmente aveva spazio a volontà. Dall’esterno la casa non appare tanto grande, ma all’interno gli spazi assumono proporzioni diverse e i due ultimi piani abitati da Picasso disponevano di locali vasti, come cattedrali dalle basse volte, ancor più sorprendenti perché vi si accedeva da una buia scala a chiocciola. Nel corso dei secoli l’edificio era stato rimaneggiato in modo caotico e c’erano perciò numerose stanzette aggiunte, oltre a scale e scalette, ma notevoli erano soprattutto gli studi: grandi locali polverosi con vetrate affacciate sul cortile. Erano esposti a ovest, ma Picasso non si era mai preoccupato molto della luce: da ragazzo quando la luce del giorno era scarsa usava una candela o una lampada e adesso quando il ciclo era scuro o quando, come spesso accadeva, voleva lavorare di notte si avvaleva dell’illuminazione elettrica.
Al secondo piano della casa un ampio locale si apriva su una piccola anticamera in cui Picasso riceveva i visitatori meno intimi; un altro locale comunicante, che un tempo era stato adibito a laboratorio di tessitura, fu in seguito conosciuto come lo studio delle sculture, mentre quello al piano superiore, dove un tempo Jean-Louis Barrault provava i suoi copioni, fu adibito a studio di pittura. Aveva le pareti spioventi e attraverso le tavole del basso soffitto filtrava la polvere del solaio. Annesso vi era un piccolo ripostiglio con acqua corrente, che gli serviva per le incisioni, e nel complesso lo spazio era più che sufficiente; all’inizio comunque Picasso lavorò soltanto nello studio al piano inferiore.
Qui, nel maggio del 1937, dipinse uno dei suoi quadri più importanti, forse il più grande di tutta la sua vita.
Il 26 aprile alcuni aerei tedeschi bombardarono per ordine di Franco la città di Guernica: stormi di Heinkels e di Junkers lasciarono cadere bombe incendiarie e ad alto potenziale e mitragliarono le strade dalle quattro e mezzo del pomeriggio fino al tramonto. Dei settemila abitanti 1654 furono uccisi e 889 feriti: la cittadina fu virtualmente distrutta.
Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, dopo Hiroshima e Nagasaki, per non parlare di Londra, di Dresda, della Ruhr, duemila morti in un pomeriggio purtroppo non suscitano più grandi emozioni: nel 1937, tuttavia, l’evento sconvolse il mondo intero. Era il primo esempio di sterminio sistematico, a sangue freddo, della popolazione civile, un nuovo vertice di barbarie e di disumanità, una vittoria delle tenebre sulla luce. Corrispondenti di guerra indipendenti e fotografi erano presenti a smentire i nazionalisti, secondo i quali erano stati gli stessi abitanti di Guernica a far saltare la città ponendo delle cariche di dinamite nelle fognature, e non ci fu il minimo dubbio su ciò che era successo: la notizia si diffuse quasi immediatamente, autentica e tragicamente convincente. Giunse a Parigi il 28 aprile.
Picasso questa volta reagì istantaneamente, con tutto se stesso, e la sua risposta fu naturalmente un quadro. Il 1° maggio eseguì cinque schizzi, tre di figure singole e due dell’intera composizione come la concepiva in quel momento; fin dall’inizio erano presenti le tre forme essenziali: il cavallo morente, il toro, la donna che regge una lampada fuori della finestra. Dall’inizio di maggio a metà giugno lavorò febbrilmente: Zervos rivela che «la prima versione del quadro fu concepita in uno stato di estrema tensione emotiva». Picasso trovò persino il tempo di scrivere una ponderata dichiarazione che cominciava così: «Il conflitto spagnolo è la lotta della reazione contro il popolo, contro la libertà. Tutta la mia vita di artista non è stata altro che una lotta continua contro la reazione e contro la morte dell’arte. Come si potrebbe pensare per un solo momento che io possa essere d’accordo con la reazione e con la morte?... Nel quadro al quale sto lavorando in questo momento e che chiamerò Guernica e in tutte le mie opere recenti esprimo chiaramente il mio odio per la casta militare che ha sprofondato la Spagna in un oceano di sofferenza e di morte».
Nonostante la collera e l’amarezza, Picasso lavorò con grande meticolosità. Guernica non fu buttato giù, sull’immensa tela, nell’eccitazione di un giorno, ma fu il risultato di settimane di continua tensione e, come tutte le sue opere di maggiore impegno, fu preceduto da decine di studi preliminari che misero a fuoco le sue emozioni, la sua capacità di visione originale, la sua vasta esperienza. Doveva essere un atto d’accusa contro il male e se voleva essere efficace le armi dovevano essere usate nel modo migliore: non c’era spazio per l’improvvisazione e la fretta.
Gli studi sono stati conservati e molti di essi si possono ammirare al Casón del Buen Retiro di Madrid, insieme al grande dipinto. Grazie a essi, alle precise datazioni e alla presenza di Dora Maar che scattò alcune belle fotografie di Picasso al lavoro, lo sviluppo di Guernica può essere seguito dal primo schizzo a penna alla tela finita; è un panorama completo e affascinante del lavorio mentale di Picasso portato al vertice estremo della creatività. Prima di accennare ai successivi stadi dell’opera, bisognerebbe forse tentare di descrivere il quadro stesso, la versione finale quale oggi la vediamo. È una tela immensa, più di sette metri per tre e mezzo; eppure non sono le dimensioni che colpiscono immediatamente, ma piuttosto la sensazione improvvisa di trovarsi in presenza di un mondo nel quale è l’emozione a essere immensa. Né si nota la totale assenza di colore; nero, grigio, bianco sono i colori naturali di questo universo silenzioso, silenzioso nonostante le urla: lo stordimento senza suoni dell’estremo dolore, del disastro, degli istanti successivi all’esplosione della bomba.
Alta, quasi al centro del dipinto, una lampada elettrica splende nel buio, simile a un occhio, l’occhio onniveggente di tanti affreschi primitivi; al di sotto un cavallo magro, la bocca aperta in un nitrito selvaggio, barcolla trafitto da una lancia, la cui punta fuoriesce da un fianco; sotto gli zoccoli giace il corpo di un uomo, frantumato in blocchi come una statua, un braccio teso fino al bordo sinistro del dipinto, mentre l’altro afferra una spada spezzata la cui elsa sfiora un piccolo fiore appena abbozzato. A destra del cavallo, la testa dolente di una donna si affaccia da una finestra, il braccio irrigidito a reggere una lampada a olio che si allunga fin quasi a toccare la testa del cavallo: la lampada non illumina la casa dalla quale la donna si sporge, ma un’unica area nettamente definita, il petto del cavallo e il busto di un’altra donna, seminuda, che si muove a fatica, come stordita, verso il centro del dipinto: la gamba che si trascina, con il piede e il ginocchio enormi, si spinge fino al limite inferiore destro del quadro. Dall’oscurità, a sinistra del cavallo ma su un altro piano, emergono la testa minacciosa, le spalle e una zampa di un grande toro, mentre sotto il toro una donna urlante è accovacciata con un bambino morto tra le braccia. All’estrema destra il suo urlo è riecheggiato da un altro, quello di una donna intrappolata in un groviglio in fiamme, le bianche braccia protese verso l’alto e la testa anch’essa bianca gettata all’indietro nella stessa atroce agonia. Il riquadro illuminato della finestrina, sovrastata da pallide fiamme, corrisponde alla coda bianca del toro sulla sinistra del quadro, che s’innalza dalla parte posteriore della bestia contro un piano rettangolare grigio, mentre il collegamento fra la testa illuminata e il corpo immenso nel buio rimane oscuro: e, indistinto, dietro quella testa paurosa, un volatile - colomba, gallo, oca - certamente domestico, leva il suo canto stridulo nelle tenebre.
Tutte le figure sono fortemente distorte: tranne che nel caso del bambino morto (il cui naso è posto sopra il livello degli occhi sul volto capovolto con un effetto sconvolgente, come in alcuni studi per la Crocifissione), gli occhi si trovano entrambi sullo stesso lato del viso e le superfici sono piatte, prive di modulazione chiaroscurale. Un accenno di profondità si trova nei contorni appena accennati della finestrina e della casa, nello scorcio del muso del cavallo e della spada spezzata, ma per il resto lo spazio fra le figure è organizzato in piani angolari sovrapposti.
Superata la prima impressione ci si rende conto che c’è un ordine in quel caos apparente e che, sebbene a un’occhiata superficiale il dipinto possa sembrare un polittico, composto di diversi pannelli contenenti ognuno il toro, il cavallo, la donna con la lampada e infine la donna intrappolata, l’insieme è invece legato non soltanto dai piani che si compenetrano e dalla sequenza quasi continua di membra nella parte bassa del dipinto, ma anche, e assai più saldamente, da un triangolo dalla base ampia, formato da linee e da piani sovrapposti, con il vertice collocato appena al di sopra della lampada centrale, e da diagonali, un po’ meno evidenti, che si innalzano dalla base fino ai bordi esterni.
Lo stadio finale, apparentemente così spontaneo, non fu raggiunto se non dopo moltissimo lavoro; le tre figure principali erano presenti fin dall’inizio, quasi sempre nella sequenza toro-cavallo-donna con la lampada, ma dovettero essere ricollocate più volte insieme alle altre figure e forme perché l’insieme potesse esprimere tutte le proprie potenzialità espressive. Prima che fosse stabilita la versione definitiva ci vollero circa cinquanta studi, disegni, dipinti e forse altri cinquanta durante e dopo la realizzazione.
Il 2 maggio fece la sua apparizione l’uomo morto, un guerriero classico: in questo disegno la testa e l’intero corpo del toro non sono rivolti verso la donna con la lampada e la testa del cavallo s’impenna all’indietro verso la parte posteriore del toro, mentre dalla ferita nel ventre spunta un piccolo Pegaso; in un altro studio dello stesso giorno il toro in movimento si allontana dalla donna e si volge indietro verso la lampada, il cavallo è crollato a terra e il guerriero volge la testa a sinistra. Sempre il 2 maggio Picasso dipinse una versione ingrandita della testa del toro, quasi un’immagine speculare di quello adottato nella versione finale, ma ancor più tesa: è la testa di un vecchio ronzino, con la lingua che sporge appuntita, come nei suoi primi lavori.
Man mano comparvero le altre figure: alcune sarebbero rimaste, altre sarebbero state scartate. Il 9 maggio la composizione era arrivata a uno stadio pressoché definitivo. A quel punto le figure essenziali erano la donna che regge la lampada (scomparsa per qualche tempo) e il toro che la guarda; il cavallo è crollato a terra accanto a un carro, ci sono più figure di morti o di esseri che piangono e si lamentano e il fuoco sulla destra divampa più alto che nelle versioni successive, mentre dalle rovine si leva un braccio, il pugno chiuso nel saluto repubblicano.
Il giorno successivo Picasso attribuì al toro un benevolo e alquanto stolido volto umano, che però non adottò nella versione definitiva, come accadde anche per la scala che in un abbozzo aveva collocato contro la parete della casa incendiata, con una donna che ne discendeva tenendo un bambino in braccio.
Infine, l’11 maggio, montò l’enorme tela. Entrava di misura fra le pareti del grande studio, ma sebbene toccasse il pavimento non si incastrava perfettamente sotto le travi del soffitto; per dipingere la parte inferiore Picasso dovette quindi sedersi per terra, mentre per quella superiore usò una scaletta, pur essendo comunque obbligato a dipingere su una superficie inclinata; ma nessuna di queste difficoltà lo preoccupò minimamente. Le fotografie scattate da Dora Maar durante le varie fasi del lavoro rivelano la posizione scomoda della tela, le pile di giornali che usava come tavolozza, i barattoli, i tubetti strizzati e gli innumerevoli mozziconi di sigaretta: Picasso aveva sempre fumato molto, ma in quel momento, sottoposto a una tensione quasi continua, dovette certamente superare il numero abituale. Tensione quasi continua; perché nel lavoro Picasso era capace di una straordinaria autodisciplina, ma, nonostante la pressione e l’impulso a continuare, non smise di recarsi fino a Le Tremblay per dipingere le sue nature morte in un’atmosfera del tutto diversa. Senza queste pause gli sarebbe stato impossibile conservare una capacità di giudizio distaccato e puntuale per più di un mese continuato di sforzo creativo intensissimo.
La prima fotografia che Dora Maar scattò a lavoro ultimato mostra il toro rivolto decisamente dalla parte opposta rispetto alla donna, il cavallo abbattuto al suolo con la testa arcuata verso il basso in uno spasimo convulso e il guerriero, una figura quasi neoclassica paragonata al resto, steso a terra sul dorso, con il braccio destro racchiuso in uno stretto rettangolo e levato nel saluto repubblicano: questo braccio verticale, lungo due metri e che quasi sfiora la lampada, è uno degli elementi più importanti del quadro, mentre la lampada stessa presenta una seconda verticale, simile alla rocca di un arcolaio, che scende verso il basso fino alla zampa del cavallo. Dalla cima della lampada una diagonale s’inclina in basso, verso l’estremità destra del dipinto, da dove risale nuovamente fino alla casa incendiata. Sulla sinistra, anche se meno distintamente, si può individuare il corrispondente lato del triangolo e la relativa diagonale ascendente. Questi elementi rimasero costanti, costituendo la solida struttura della composizione. La fotografia successiva mostra tuttavia un sole con i raggi simili a petali dipinto dietro il pugno chiuso, che ora stringe qualche spiga di grano. Nella terza il sole è stato sostituito da un ovale appuntito e bianco; il braccio (già più corto nell’ultima versione) è scomparso, perché il soldato, rivolto nuovamente con la testa a sinistra, giace adesso supino.
L’abolizione di questa verticale produsse un’enorme differenza nella composizione, nelle potenzialità del dipinto, e dopo qualche altro cambiamento, importante ma meno vitale, Picasso afferrò subito l’opportunità offerta dallo spazio al centro, come era probabilmente nelle sue intenzioni più o meno consapevoli fin dall’inizio. Non si conosce esattamente la data della decisione definitiva; probabilmente fu raggiunta dopo una pausa a Le Tremblay o dopo che Picasso si fu concesso qualche ora libera per aggiungere quattro acqueforti, composte nello spirito di Guernica, alla serie Sogno e menzogna di Franco. Con lo spazio centrale libero a sua disposizione fu infine in grado di tornare per il cavallo all’idea primitiva, riportando la testa in alto e all’indietro così come appare adesso, facendone di nuovo una delle figure più significative dell’opera: in questo modo però veniva a coprire la parte posteriore del toro, con la coda rivolta alla donna. Picasso all’improvviso decise di rovesciare la figura, lasciando la testa com’era: ora solo il corpo, non la testa, era rivolto verso la donna.
Tornando al cavallo, ne dipinse la superficie con pennellate regolari e leggere rendendolo simile a un collage: il soldato fu smembrato, come se fosse veramente una statua, volgendone il viso verso il cielo, con la bocca spalancata, e accentuando l’importanza del fiore (tutto ciò che restava di una figura di donna precedente) che ora toccava la mano con la spada. Infine, al grande occhio, che era stato nelle versioni precedenti un sole, aggiunse una lampadina elettrica come pupilla; qualche altro piccolo cambiamento e il dipinto fu completo.
Si era a giugno inoltrato. Poco tempo dopo la tela fu collocata nel padiglione spagnolo. Fin dal primo momento in cui fu visto dal pubblico Guernica suscitò ammirazione, avversione, stupore, discussioni, spiegazioni; in effetti Guernica è uno dei pochi quadri di Picasso per il quale le parole non sono del tutto inutili, essendo uno dei rari esempi della sua produzione matura ad avere un chiaro contenuto narrativo e simbolico, che può essere, almeno in parte e in modo approssimativo, trascritto.
Molto si può dire, ed è stato detto, sul suo aspetto puramente estetico, sulle fonti della tradizione alle quali Picasso ha forse attinto, sul posto che il quadro occupa nella storia dell’arte in generale e di Picasso in particolare; in gran parte si tratta di commenti di notevole interesse, perché in Guernica si ritrova qualcosa del periodo blu, parecchio del Picasso cubista, molto del disegnatore straordinario, dell’amico dei surrealisti, del pittore della Crocifissione e dei quadri metamorfici, dell’autore della Minotauromachia: una specie di epitome dei Picasso degli ultimi trent’anni, dato che tutte le sue esperienze e tutte le sue scoperte vi rientrano in qualche misura. E nonostante siamo ancora tanto vicini all’evento commemorato che pochi, tranne i più giovani, riescono a dissociare il dipinto dal suo contesto storico e dalla carica emotiva che vi è implicita, molto è stato scritto sui suoi pregi squisitamente pittorici: io non aggiungerò altro se non che concordo con la maggioranza nel ritenere Guernica un quadro nobilissimo, un atto di purificazione attraverso la pietà e il terrore.
Guernica è però anche un’allegoria, con un uso del tutto consapevole di simboli. È dunque ragionevole domandarsi fino a che punto e a che livello questa parte del «messaggio» sia stata recepita. Siamo qui su un terreno in una certa misura meno soggettivo; infatti se alla domanda: «Commuove questo quadro?» si può rispondere con un sì o con un no, all’interrogativo: «Che cosa esprime?» è possibile dare una risposta assai più significativa.
Tutti concordano nell’ammettere che si tratti essenzialmente di una denuncia della guerra come crimine, della crudeltà insensata, dell’odio, del massacro degli innocenti; al di là di questo però le opinioni cominciano a differire. Alcuni scorgono in Guernica un preciso atto di accusa contro i nazionalisti spagnoli, il che lo scredita agli occhi di altri come mera propaganda. Si tratta certamente di un punto di vista errato: Picasso condannava Franco e lo espresse chiaramente in Sogno e menzogna, ma in Guernica trasferì la protesta su un piano superiore, facendone un grido appassionato contro ogni guerra, ogni oppressione. Sarebbe stato semplice moltiplicare i pugni chiusi nel saluto repubblicano: al contrario, li abolì. Evitò ogni riferimento specifico all’uno o all’altro degli schieramenti e, sebbene il cavallo e il toro simboleggino la Spagna, proprio in quanto simboli trascendono l’allusione specifica.
Insieme alla donna con la lampada costituiscono i simboli principali, e l’efficacia dell’allegoria sembrerebbe apparentemente dipendere dalla loro interpretazione da parte del pubblico di tutto il mondo. Le spiegazioni fornite sono state diverse, generalmente in relazione diretta con la guerra civile spagnola: per alcuni il toro è il fascismo, che teme la donna con la lampada, una versione della fanciulla con la candela della Minotauromachia; la luce dovrebbe respingere il mostro, mentre il cavallo sarebbe simbolo della Repubblica; per altri invece i ruoli sono capovolti e il cavallo, secondo un’interpretazione abbastanza sorprendente, rappresenterebbe il nazionalismo spagnolo. Altri ancora si sono rifatti ai primi lavori di Picasso per far luce sui simboli di Guernica, in particolare alle molte scene di corrida, e sono rimasti stupiti e al contempo dispiaciuti dall’atteggiamento ambivalente di Picasso verso il toro e il minotauro, di volta in volta eroe o mostro: in Sogno e menzogna è il toro che affronta Franco, incornandolo a morte.
Per quanto concerne il toro di Guernica, tuttavia, conosciamo esattamente ciò che Picasso aveva in mente. Dopo la liberazione di Parigi un soldato americano, Jerome Seckler, lo andò a trovare e gli chiese di spiegargli il quadro. Il giovane soldato doveva essere accattivante quanto ingenuo perché, sebbene Picasso fosse stato perseguitato per più di trent’anni da continue domande di quel genere, lo condusse nel suo studio al piano superiore, ascoltò pazientemente il giovane mentre analizzava a briglia sciolta i vari quadri, compreso Guernica, e gli parlò a lungo, molto gentilmente e credo senza la consueta malizia che sfoderava quando veniva importunato. Il giovane ricorda: «Gli parlai del simbolo del toro, del cavallo, delle mani con la linea della vita, eccetera e dell’origine dei simboli nella mitologia spagnola. Picasso continuava ad accennare col capo mentre parlavo. ‘Sì’, disse, ‘il toro qui rappresenta la brutalità, il cavallo rappresenta il popolo. Sì, qui ho usato dei simboli, ma non negli altri’».
Durante la medesima conversazione osservò, a proposito delle sue convinzioni politiche: «Nella mia pittura non c’è una propaganda intenzionale».
«Tranne che in Guernica», osservò Seckler.
«Sì, tranne che in Guernica. Lì c’è un appello deliberato alla gente, un deliberato richiamo propagandistico.»
L’atteggiamento di Picasso riguardo ai simboli variava: una volta affermò che era compito dell’osservatore crearli, a partire dal materiale che il pittore gli forniva, e poi interpretarli, ma nel caso di Guernica è forse meglio attenersi a quanto ha affermato lo stesso Picasso e accettare il toro come segno della brutalità e il cavallo come simbolo del popolo: l’allegoria assume allora un significato universale. Il crimine non è più commesso dai fascisti in un preciso momento della guerra civile spagnola, ma da ogni potere stupidamente brutale e fondamentalmente malvagio, e il dipinto diventa un’immane protesta contro la sofferenza universale che ne deriva. Può anche essere letto non come un’esortazione morale, ma come un disperato riconoscimento dell’impossibilità di una vit­toria, della sconfitta inevitabile di ogni contendente, così che dopo ogni guerra non rimangono che esseri abbrutiti in un campo di battaglia desolato e apocalittico, colmo di odio, privo di decenza, di arte, di umanità. Questa chiave di lettura è avvalorata dal fatto che Picasso, mentre dipingeva Guernica, fece qualche esperimento con il papier collé: uno dei collage era una lacrima di sangue che egli spostò da un volto all’altro, indugiando più a lungo sul toro, quasi fosse una creatura da compiangere al pari delle altre. Alla fine eliminò la lacrima, ma disse al poeta José Bergamín: «La metteremo in una scatola e andremo almeno ogni venerdì ad attaccarla sul toro».
Si è detto che i simboli di Guernica sono privati, oscuri, persino ermetici, che il messaggio perciò non riesce e non può riuscire a raggiungere l’osservatore, e che la grande varietà di interpretazioni esistenti ne è una dimostrazione; ma si tratta di una critica più appropriata a un manifesto pubblicitario inteso a esaltare un prodotto o un avvenimento: può essere applicata a Guernica? Al di fuori delle scienze esatte, quasi nulla che valga la pena di essere espresso può essere detto se non in via indiretta; per il fatto stesso di esistere, un simbolo efficace assume una sorta di potere magico e anche se, in senso letterale, non può essere compreso se non oscuramente (chi «capisce» le statue dell’isola di Pasqua o le sculture africane antiche? Eppure, chi non ne rimane turbato?), viene tuttavia accolto a un livello di sensibilità profonda, una sensibilità che non ha niente a che vedere con la logica e che reagisce con forza primordiale. È possibile che il latino della messa, percepito forse confusamente come semplice suono e probabilmente non inteso affatto nel suo significato letterale, avesse un effetto assai più profondo delle chiare parole del vernacolo quotidiano usate nel rito odierno, con le loro associazioni tristemente banali. E così come è possibile affermare che la vitalità e la verità dei più riusciti quadri cubisti di Picasso scaturiscano da un fondamento legato a una realtà osservata, allo stesso modo il valore dei suoi simboli deriva innanzitutto dalla loro validità per il pittore stesso.
Un’altra critica rivolta a Guernica riguarda l’elemento propagandistico insito nel quadro: vi è chi sostiene che, come gli slogan non sono letteratura, così la propaganda non è arte, la quale non deve aver nulla a che vedere con la politica né con la morale. Tenendo presenti le parole dello stesso Picasso, è impossibile negare che si trovi in Guernica un elemento propagandistico: nella sua furia iniziale lo avrà probabilmente concepito come un’accusa diretta ai fascisti, così come aveva già fatto per Franco, ma nel corso dell’opera ogni intenzione particolare e ogni riferimento a eventi immediati furono certamente sublimati.
In quanto all’universalità di Guernica, soltanto gli anni futuri, l’obiettività dei posteri, potranno consentire un giudizio; quanti però credono in essa, e chi scrive è fra questi, hanno trovato a conferma un alleato nello stesso governo spagnolo, che, lungi dal sentirsi giudicato, ha fatto di tutto per riportare il dipinto a Madrid. Forse l’arte non ha nulla a che fare con la politica e con la morale, ma certamente ha molto a che vedere con la distinzione fra il vero e il falso. A un certo livello la differenza fra verità estetica e menzogna si fonde con quella fra luce e tenebre: e di fronte a tale scelta, non c’è dubbio da quale parte Picasso intendesse schierarsi.

Minotauromachia
acquaforte e raschietto su carta vergata
incisa da Lacourière, autunno 1935


Sogno e menzogna di Franco
acquatinta su carta di China
prima lastra, incisa da Lacourière, primavera 1937


Sogno e menzogna di Franco
acquatinta su carta di China
seconda lastra, incisa da Lacourière, 7 giugno 1937

Testa di cavallo
olio su tela
Parigi, 2 maggio 1937
Guernica, stato 1
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937

Guernica, stato 2
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937

Guernica, stato 3
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937

Guernica, stato 4
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937

Guernica
olio su tela
Parigi, maggio 1937

Guernica, dettaglio
olio su tela
Parigi, maggio 1937

Donna che piange
Puntasecca, acquatinta, acquaforte e raschietto su rame
Parigi, 1 luglio 1937
Donna che piange con fazzoletto
olio su tela
Parigi, 17 ottobre 1937

martedì 26 agosto 2014

La liberazione di Parigi, versione Cocteau



Jean COCTEAU. Diario (1942-1945)
A cura di Jean Touzot
Traduzione dal francese di Giovanna Parodi
Note redazionali a cura di Fernanda Littardi
Mursia 1993, pp. 358-363
Titolo originale: Journal 1942-1945
1989 Éditions Gallimard

25 agosto 1944 - Liberazione di Parigi
Mi ero ripromesso di non scrivere niente prima del grande giorno che abbia­mo appena vissuto.
C’era stata l’attesa. C’era stato il panico dei collaborazionisti preceduto da segni di morte. Quella di Fernandez[1] (arresto cardiaco), il suicidio di Drieu La Rochelle (viene salvato),[2] la morte di Saint-Exupéry[3] (aviazione inglese) e la notizia ancora dubbia su Malraux, fucilato dalla Milizia.[4] La fuga di Bonnard, di Brinon, di «Je suis partout», battezzato «Je suis parti», il treno con la famiglia Luchaire, le mogli e le figlie dell’ambiente filotedesco. (Il treno era partito per la Germania con quarant’otto ore di ritardo. Doveva essere convogliato da Fontenoy. È stato convogliato da gangster di Marsiglia, Costantini,[5] se non sbaglio.)
C’era stato il segreto formarsi dei gruppi delle F.F.I.[6] che occupavano i teatri ufficiali, l’Union des artistes, il C.O.I.C., ecc., dato che i comunisti avevano occupato tutti i posti ufficiali e tutti i monumenti pubblici dopo battaglie rapide e decisive. C’era stato lo spettacolo delle bandiere alle finestre e i giornali nuovi che escono durante le operazioni militari tedesche. (I tedeschi occupavano gli Invalides, l’École militaire, la Concorde, il Senato, il Luxembourg, dieci nuclei di resistenza zeppi di munizioni, di truppe S.S. e di esplosivi.) C’era stata l’apertura delle porte di Drancy, di Fresnes, e della Santé, grazie all’incessante mediazione del ministro di Svezia.
C’era stato il cambiamento di stile alla radio, le buone e le false notizie, l’America e l’Inghilterra che festeggiavano la nostra completa liberazione, mentre Parigi si batteva ancora. C’erano state le barricate, le raffiche di mitragliatrice, i miliziani nascosti che sparavano dalle finestre o dai tetti. L’altro ieri, andando a pranzo alla Concorde da Sert nel bel mezzo della difesa tedesca, attraversavamo, Marais, io e Moulouk, una avenue de l’Opéra completamente deserta e assai sospetta. All’angolo con rue des Petits-champs, una raffica di fucile-mitragliatore ci fa voltare. A un metro da noi, l’unico passante visibile incespica e un enorme fiotto di sangue schizza dalla sua schiena. Cade. Perché lui e non noi? È impressionante sapere che forse eravamo presi di mira da un occhio misterioso e che l’abbiamo scampata bella. Il capitano Delrue[7] dirà poi: «Eravate proprio voi ad essere presi di mira. A cento metri, un fucile mitragliatore è sbandato. Avete sentito fischiare la pallottola? No. Vuol dire che sparavano su di voi». I parigini non danno segno di paura. Nonostante il pericolo dei cecchini e delle macchine che sbucano e spazzano la strada, le donne passeggiano come al 14 luglio. Splendida idea di questa folla libera che partecipa al dramma, rischiando di ostacolare le operazioni. (I primi carri armati di Leclerc sparavano in boulevard des Invalides, carichi di donne e bambini che vi si aggrappavano.) C’erano state le visite e le telefonate degli uni e degli altri (come va dalle vostre parti?), ecc. Il telefono non ha mai smesso di suonare. C’era stato perfino l’imbarazzo dei piccoli comitati dei teatri che volevano fare la parte del tribunale rivoluzionario e mettevano le crocette davanti ai nomi delle vedette.
Finalmente l’altro ieri, a mezzogiorno, c’è stata la telefonata di Jacques Fano, l’addetto stampa del generale Leclerc, che annunciava che il generale sarebbe arrivato in giornata. Abbiamo saputo poi che il cerimoniale tra francesi e americani (i francesi diffidano del metodo americano di demolire tutto) aveva fatto ritardare le truppe. I francesi sapevano soltanto che la città si difendeva ancora molto e sarebbe stata a corto di munizioni. Furono informati con esattezza da due gendarmi che andarono in bicicletta ad Antony. La Resistenza non aveva avuto ordini. I comunisti hanno scatenato la sommossa senza aspettare gli ordini. La Resistenza di destra non ha partecipato. Da ciò il ritardo delle truppe che aspettavano. Le truppe hanno fatto duecento chilometri per andare in soccorso delle F.F.I.
Non appena abbiamo saputo che i primi americani arrivavano a Notre-Dame, corsi a dirlo ai Puget.[8] Avevo appena dato la notizia che le campane di Notre-Dame e di Notre-Dame-des-Victoires cominciarono a diffonderla ovunque. Spettacolo sublime: il Palais-Royal illuminato dalle finestre spalancate. Campane, risate, canti. La radio, ancora male organizzata, di nascosto, sotto l’occhio dei tedeschi, trasmette testimonianze di giovani sfiniti, che balbettano per la stanchezza e l’emozione. Il servizio è interrotto continuamente da porte che sbattono. Sono gli inviati delle ultime novità della strada che entrano ed escono, e le voci si confondono con quelle dei reporter ufficiali.
Il giorno dopo, aiutata dai carri armati, l’insurrezione diventa decisiva. In tutti i quartieri ci si batte sulle barricate. Il primo giorno avevo lasciato Roger Stéphane[9] davanti al Municipio, dopo aver visto issare la bandiera francese sulle torri di Notre-Dame, tra una folla che vendeva e comprava distintivi tricolori. Stéphane, in tre giorni, ha combattuto al Municipio, è stato ferito al braccio e nominato capitano della Resistenza (comandante del Municipio). Io non finisco di correre a destra e a sinistra. Cercando di arrivare dai Labourdette, arrivo in place Notre-Dame, dove è difficile muoversi. La folla vuol vedere i prigionieri che vengono condotti in questura. Purtroppo li insultano e i soldati non possono impedire che la collera del popolo si scateni alla cieca. Mi allontano da questo spettacolo che non mi piace e mi rimprovero di non essere abbastanza semplice da trovarlo legittimo. Sul selciato di Notre-Dame scorgo improvvisamente Moulouk, solo, seduto, abbandonato come nelle Due orfanelle. Paul forse l’aveva perso al Municipio. Per lui è molto naturale ritrovarmi e lo porto dai Labourdette.[10]
Vado a vedere De Gaulle che arriva al Municipio. Arriva su una piccola macchina scoperta, con grande semplicità. Compare alla finestra sull’estrema destra, perché il Municipio non ha balconi né finestre tra le colonne. La folla lo distingue male. Sale sul parapetto della finestra e fa dei grandi gesti familiari con le braccia. Applausi. Lo stile è perfetto, antidittatoriale e mi fa pensare alla frase che mi ha detto una volta Lyautey: «Non sono un militare. Sono un soldato». Difficoltà di non essere né legittimato né dittatore, né nominato dal suffragio universale. Difficoltà di arrivare da fuori, solo, sostenuto soltanto da un sogno.
De Gaulle è altissimo, molto magro, in lui tutto si vede: il naso, gli occhi, le orecchie, i gesti. È un divo. Un pezzo grosso. Non c’è dubbio. Porta la divisa kaki con due stelle.
Nulla di più strano di questa città in festa e che si batte. A Parigi, le cose vanno a fasi, a mode: la guerra dei tetti. Le donne rasate, ecc... Fantomas, Belfagor e i film hanno educato una generazione violenta. I nostri amici vanno in giro con fucili o mitra. Ci si separa, ci si ritrova, ci si riperde. Paul, il mio segretario, che rifiuta di portare bracciali e armi, si intrufola in tutti gli attacchi ai monumenti ed entra per primo all’hôtel Crillon e all’Ambasciata americana. Il Crillon, crivellato dalle granate, resta in piedi, tranne una co­lonna (la gente la chiama la quinta colonna).
La guerra dei tetti si fa sempre più subdola. Sparano ovunque. (Era una di quelle cicogne funeste[11] che l’altro giorno ci aveva presi di mira in avenue de l’Opera.) Sparano dai tetti del Palais-Royal. Quelli che rispondono sparano a caso nei vetri.
Il giorno dopo,[12] mattinata di sole e di bandiere. L’aria leggera, la folla leggera. Si rivedono dei volti. Non se ne vedevano più. Andiamo da Maxim’s a mettere le bandiere e a prenderne per la casa. Nel pomeriggio assistiamo a una sfilata da una finestra dell’hôtel Crillon. De Gaulle cammina tra i carri armati e i ragazzi del popolo che si tengono per mano. E il simbolo del suo programma. Una folla immensa (quasi tutte le donne vestite di bianco, blu e rosso) brulica in piace de la Concorde fin sulle statue.
Improvvisamente si scatena il dramma. I tiratori dei tetti cominciano. I carri armati allineati davanti all’hotel rispondono e bombardano. La mia sigaretta è spezzata a metà in bocca. Jeannot e Paul rifiutano di andare via dalla camera sulla facciata. Si buttano a terra, si rialzano e lasciano spuntare la testa dal balcone. Vengono scambiati per cecchini e i carri armati rispondono. Nello stesso momento, a Notre-Dame sparavano sul generale De Gaulle e su alcuni punti del corteo.
Come mai non erano state ispezionate le torri di Notre-Dame da cui i misteriosi cecchini sparavano da tre giorni? Il custode delle torri, interrogato, risponderà: «Le torri sono delle catacombe» (sic). Parigi è attraversata da macchine F.F.I. con la croce di Lorena; sono state più o meno requisite e sono cariche di giovani con bracciali e rivoltelle. E così vedo sbarcare a casa Goddet (capitano) e il figlio dei Capgras.
Le false notizie circolano in fretta come queste automobili pericolose: le teste di tutte le attrici sono state rasate a zero. Hanno arrestato tutti gli scrittori, ecc. Arresto di Sacha Guitry,[13] condotto al municipio della VII circoscrizione parigina, poi alla polizia giudiziaria, poi alla prigione della Santé!
Titayna[14] e Desmarets[15] sono stati arrestati.
Le donne rasate, tutte nude, trascinate con una catena al collo, insultate, picchiate da altre donne che di certo hanno fatto di peggio. Spettacolo vergognoso.
Donne innocenti e rasate vengono condotte al Municipio. Non hanno il coraggio di rimetterle fuori. Le ospita Roger. Vi resteranno sino a quando i capelli saranno ricresciuti.
Immagino un prigioniero che ritorna con i capelli lunghi e trova la moglie con i capelli a spazzola.
Parigi ribolle, fermenta, prepara gli esplosivi. Lo slancio viene meno e lascia il posto ai piccoli rancori, ai garbugli, ai numerosissimi asti individuali.
Prima ondata. I nostri compagni, tanto liberi nell’oppressione, si trovano oppressi in libertà. La loro resistenza segreta diventa un regime sottomesso a leggi, bolli sui manifesti. Tra poco si metteranno di nuovo a lavorare segretamente contro un ordine che li paralizza. Verrà un’altra ondata e li sommergerà. Éluard - perfetto nella sua nobiltà, ma con una gioia infantile per il trionfo della sua causa - mi dice: «Hemingway ha mandato una macchina e lei è stato a fargli visita al Ritz. Non doveva andarci. Ha scritto contro la Spagna. Se i comunisti sapessero che è andato a trovarlo, se la prenderebbero con lei».[16] Non ho quindi tanto torto a temere un rimprovero di «collaborazione americana».
Dai miei conciliaboli con gli uni e con gli altri, risulta che l’unica posizione nobile è l’estremo riserbo, il silenzio, le vecchie e fedeli amicizie.

Da Picasso. È il re, e giustissimo. Dopo la tempesta, lo trovo nei suoi magnifici antri da leone. Sta finendo una testa di donna sul libro che gli scrittori della Resistenza offrono al generale De Gaulle. «Le cose non cambiano mai» mormora strizzando un occhio, «il nostro regno non è di questo mondo.» Parla sottovoce, perché la minima cosa detta viene ripresa, ripetuta, volta a nostro danno. «Dare un colpo di spugna» fra tutte le frasi è quella che viene perdonata più difficilmente. Ed è giusto. Troppi hanno sofferto, troppi hanno subito le torture tedesche.
La Milizia sparava dai tetti. Le F.F.I. sparano alle gambe. Ieri, trentuno agosto, Fargue mi telefona che è appena uscito un omaggio di fedeltà al regime, firmato dai sette membri rimasti francesi dell’Académie Mallarmé. I nostri nomi non ci sono.[17]
Mondor, Charpentier cedono. Dicono che non è colpa loro, e accusano il giornale di aver travisato il testo. Suppongo che, improvvisamente imbarazzati dall’enormità di questo gesto criminale che equivale, in negativo, a una denuncia, tentino di circondare questo verdetto di un ridicolo mistero. Il giorno dopo[18] hanno aggiunto il mio nome e quello di Fargue.

Ho preso una decisione. Ho detto a Jacques Fano, venuto a cena con me ieri, e ad Éluard, stamattina, che non farò mai neanche un passo, non farò neppure una telefonata e metterò tra le mani di Éluard e di Sartre il mio nome, che stanno cercando di disonorare.
Cosa mi viene rimproverato? Di essere amico di Arno Breker. Certo, conosco Breker da molto tempo. Ha continuamente messo a disposizione di Hitler il suo potere, a servizio della Francia. Ha salvato moltissimi prigionieri, perorato la nostra causa, ha impedito che ci trattassero come la Polonia. Non mi aspettavo niente da quell’articolo su Breker, perché ho sempre rifiutato che intervenisse per interrompere la campagna stampa che mi ha infangato. Giraudoux doveva il silenzio a Ribbentrop. Spesso mi consigliava di imporre il silenzio stampa mediante Breker. Breker si era offerto di farlo. Avevo rifiutato rispondendo che la fierezza me l’impediva e che mi rallegravo di essere in­fangato dalla stampa collaborazionista.
Per di più trovavo nobile parlare di un amico nemico come di un amico alleato. Attualmente l’articolo sovrasta tutto. Nessuno tiene conto degli insulti, della rovina dei Parents terribles e delle bombe lacrimogene in sala, della censura della Machine à écrire, del mio rifiuto di salutare la bandiera della L.V.F. e dell’aggressione che per poco non mi ha reso cieco. Conta solo Breker, l’articolo su Breker, l’amicizia con Breker, il solo atto che riuscirà a farmi impiccare.
Meraviglia di un’amicizia nata da un lungo odio. Éluard si accanisce a difendere la mia causa e, nonostante la lettera così dura dopo l’articolo su Breker, pensa che pochi dei nostri amici avrebbero avuto il coraggio di non togliersi il cappello in mezzo ai membri del P.P.F. Ecco a che punto siamo. La coerenza profonda di un individuo non lo discolpa, importa solo mettere dei fatti sulla bilancia.
Perché dovrebbe cambiare il destino di un poeta? Il mio regno non è di questo mondo e il mondo ce l’ha con me perché seguo male le regole. Soffrirò sempre per la stessa ingiustizia. Scateneranno sempre gli scandali, che detesto, accusandomi di desiderarli ed esserne l’istigatore. Di certo il mio angelo mi protegge facendomi commettere degli sbagli che mi salvano dall’azione diretta e dalla vertigine dell’attualità![19]
Ed eccoci al 31 agosto. Le piccole Gip[20] degli americani trasportano le donne, come le carrozze delle giostre. I nostri amici organizzano dei cocktail. Al Ritz liberato, gli ufficiali americani pranzano con donne da marciapiede. Una grande gioia che si doveva provare non riesce a superare, dentro di me, strati di imbarazzo e tristezza. Hanno guastato la gioia. I parigini credono che la guerra sia finita. Incomincia. Sarà feroce. Due notti fa, i tedeschi hanno bombardato Parigi con le bombe al fosforo e hanno incendiato la Halle aux vins.[21] Ce lo ha raccontato Picasso, più vicino di noi al disastro.[22] Bruciava tutto, alberi, pietre, acqua, in un incredibile silenzio. Tutta la città era illuminata da una luce d’alba, e il calore minerale, sconosciuto, del fosforo accompagnava questo grande bagliore immobile, piatto, color rosa tea.
Nel Palais-Royal c’era l’ombra degli alberi immobili e questo bagliore al suolo. E durava. Non cambiava intensità. Durava tutta la notte. Il disordine organizzato degli americani si oppone allo stile della disciplina tedesca, la sconvolge, la disorienta. I combattimenti terminano nello sbandamento, ma le perdite, ancora ieri, alle porte di Parigi sono state pesantissime.






[1] Ramon Fernandez (1894-1944), romanziere (Le Pari, 1932), saggista (Marcel Proust, 1943, e Balzac, 1944), membro influente della «N.R.F.» e delle edizioni Gallimard. Apparteneva al Co­mitato politico del P.P.F. doriotista e collaborava al «Cri du Peuple».
[2] Riproverà, con esito positivo, il 15 marzo 1945.
[3] Il 31 luglio, durante un volo di ricognizione tra la Corsica e le Alpi.
[4] Ferito e fatto prigioniero il 22 luglio, viene imprigionato a Tolosa.
[5] A proposito di Pierre Costantini (nato nel 1899), cfr. Pascale Ory, Les Collaborateurs, 1940-1945, Parigi, Ed. du Seuil, collana «Points», 1976, pp. 96-98. Fondò la Lega francese di epurazio­ne (nel 1941), un piccolo gruppo che si alleò con il P.P.F.
[6] Le F.F.I. sono le «Forces francaises de l’Intérieur». (N.d.T.)
[7] Ufficiale della divisione Leclerc, Jacques Delrue determinò l’arruolamento di Jean Marais nella seconda divisione blindata.
[8] Vicinissimi: abitavano in rue de Montpensier.
[9] Pseudonimo di Roger Woorms, nato nel 1919. R. Stéphane, che conosceva Jean Cocteau già da qualche anno, non ha ancora pubblicato nulla. Giornalista e produttore televisivo, realizzerà nel 1963 un eccellente Portrait-Souvenir dedicato a Cocteau.
[10] I genitori di Elina Labourdette (nata nel 1919; fu protagonista della Dames du Bois de Boulogne); abitava in rue Chanoinesse.
[11] La cicogna era una specie di aeroplano da ricognizione. (N.d.R.)
[12] II 26 agosto.
[13] Il 23 agosto.
[14] Romanziere (La Japonaise, 1931) e giornalista; Jean Cocteau l’aveva incontrato alla fine del suo giro del mondo (Mon premier voyage, p. 366). Scriveva sui giornali collaborazionisti tra cui «La France au travail».
[15] «Desmarets liberato questa sera» (nota di Jean Cocteau).
[16] Giunto a Parigi il 25 agosto, con l’avanguardia della 2a Divisione blindata, nonostante la proibizione del generale Leclerc fattagli a Rambouillet, Ernest Hemingway (1899-1961), corri­spondente di guerra, si stabilisce al Ritz e riprende contatto con i suoi amici. Sul «rapimento» di Cocteau, possiamo citare la testimonianza di R. Lannes: «Quando arriviamo da Cocteau, ve­diamo la polizia che irrompe e lo stesso Cocteau sequestrato dentro una macchina assai misterio­sa. Abbiamo un momento di grande emozione, ma, una volta tornato a casa, Marie-Laure de Noailles mi telefona dicendo che ha incontrato Jean che giocava al soldatino su un carro americano in compagnia dei divi del cinema» (frammento del 27 agosto 1944).
[17] In un foglio del diario, datato 31 agosto, Lannes designa quali responsabili di questa «manovra perfettamente ignobile, gli elementi più ridicoli dell’Académie Mallarmé: gli Charpentier e i Fontainas che hanno fatto firmare a Valéry e a Mondor un manifesto detto dei “cinque rimasti francesi”».
[18] Questa frase sembra un’aggiunta, messa di traverso sulla pagina di sinistra. Ne «Le Figaro» del 2 settembre, il comunicato dell’Académie Mallarmé porta infatti i nomi di Jean Cocteau e di L.-P. Fargue. Il testo è riportato nella biografia di J.-J. Khim, E. Sprigge e H.C. Béhar, p. 290.
[19] Nel manoscritto è stata cancellata una riga: «Mauriac nelle lettere, Salacrou nel teatro, mi perseguitano».
[20] Oltre a testimoniare uno sforzo immediato di assimilazione, questa grafia - meglio di Jeep - permette di conoscere la sigla originale «G.P.», iniziali di general purpose, cioè «macchina tuttofare».
[21] Nella notte tra il 26 e il 27, la Luftwaffe aveva bombardato Parigi. Oltre alla Halle aux vins, era stato duramente colpito l’ospedale Bichat.
[22] Nelle ultime settimane dell’Occupazione, Picasso, per prudenza, aveva lasciato l’atelier della rue des Grands-Augustins, per sistemarsi da Marie-Thérèse Walter, sua ex amante e madre di Maïa, che abitava in boulevard Henri IV.