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martedì 18 agosto 2015

Indagine su Guernica di Picasso


Su Google ho digitato “picasso guernica no, l’avete fatto voi” e una tonnellata di imbecillità si è riversata sul mio monitor. Tutti a scrivere di tutto, copiando dai copiatori dei copiatori - e mai nessuno che legga un documento o uno scritto originale.
Per la precisione qui mi riferisco alla celeberrima risposta che Pablo Picasso avrebbe dato a un ufficiale tedesco di fronte al quadro Guernica: “questo l’ha fatto lei? No, l’avete fatto voi!” - domanda e risposta da me recentemente ascoltata in televisione per bocca di Philippe Daverio nell’ennesima riproposizione di Passepartout, dunque panzana resa verità.

Tutto inizia nell’anno 1941. Parigi è occupata dalle truppe naziste, posti di controllo sono allestiti in ogni angolo di strada. Per ridurre ogni possibile pericolo, Picasso decide di chiudere la casa-studio di rue La Boétie e di trasferirsi nei due piani d’una vecchia casa del Settecento affittata al numero 7 di rue des Grands-Augustins, allora chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino. Il caso vuole che proprio tra quelle mura Balzac abbia immaginato l’ambiente del suo Chef-d’œuvre inconnu, ma di questo ho già raccontato altrove.
Integro con quanto Jean Cocteau ha scritto nel suo Diario (1942-1945), Éditions Gallimard 1989, Mursia 1993, pp. 28 e 29:

Lunedì 23 marzo [1942]. Pranzo con Picasso e Dora. Dopo il pranzo, in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi, andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato delle soffitte le une sulle altre, le une vicine alle altre, con angolini e scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale - abitato dai mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste di bronzo, tele, oggetti di legno e di latta. Picasso si è anche ricordato di avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve valere parecchi milioni.

Aggiunge qualche giorno dopo: Giovedì 26 marzo. […] Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina nera è ora la Camera sindacale degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.

* * *

Come la Storia insegna, senza ragione alcuna (se non per mettere a punto la strategia d’attacco aereo da utilizzare nella programmata occupazione tedesca dell’Europa, meglio nota come Seconda guerra mondiale) il 26 aprile 1937 la cittadina basca di Guernica viene distrutta dai bombardieri tedeschi, la popolazione deliberatamente massacrata - e perché non si dimentichi, aggiungo che i bombardamenti sulle città (la guerra psicologica) è stata “pensata” da Giulio Douhet, generale Italiano. Le prove furono fatte in Africa nella guerra del 1935 (bombardamenti su villaggi con armi chimiche) e poi in Europa, durante la guerra civile spagnola. Oggi a Douhet é dedicata la scuola dei cadetti a Firenze.

Scrive lo storico Giorgio Bonaccina, Le bombe dell’apocalisse, Fratelli Fabbri editori, Milano 1972, pag. 101 in poi:

È stato detto che nei paraggi di Guernica c’era un ponte che bisognava distruggere. Frottole, nel modo più assoluto: i ponti si attaccano (se si può, e la Legione Condor lo poteva) con i bombardieri in picchiata, in ogni caso le caratteristiche selvagge dell’incursione dimostrano di per se stesse che il bersaglio non era affatto il ponte. È stato detto anche che Guernica era un centro di ferventi repubblicani e che aveva remotissime tradizioni di libertà. E questo è vero, ma a Sperrle non importava assolutamente nulla del livore dei falangisti per Guernica. Egli scelse Guernica solo perché si addiceva topograficamente al suo scopo di pura distruzione: un agglomerato non troppo vasto di case, separate da vie strette e tortuose in centro, un po’ più sparso ‑ ma non troppo ‑ in periferia.
La barbarica aggressione della Legione Condor ebbe luogo il 26 aprile 1937. Un lunedì, giorno di mercato. Alla popolazione abituale s’erano aggiunti 3 o 4 000 agricoltori dei dintorni che portavano alla fiera il bestiame, l’olio e il vino. Le strade erano affollatissime, il sole splendeva alto, i ragazzi giocavano a pelota lanciando la palla contro le fiancate della Cattedrale. Dapprima, in qualità di ricognitori, comparvero su Guernica due caccia Heinkel 51. Alle 16.30 in punto ne arrivarono in formazione una trentina, che si gettarono in picchiata e mitragliarono all’impazzata. I corpi di un centinaio di uomini, donne, bambini s’ammucchiarono uno sull’altro. Buoi e cavalli, folli di terrore, fuggirono per ogni dove calpestando i feriti. Passò un’ora. Sulla città già sconvolta comparvero 20 Heinkel 111 da bombardamento in quota, muniti di bombe da 100 e da 250 chilogrammi. Sganciarono “a salvo”, cioè contemporaneamente. La piccola Guernica sembrò spazzata via. Passò un’altra ora e gli Heinkel 111 tornarono, lanciando pressappoco 10.000 spezzoni incendiari. Alle sette e mezzo di sera non rimasero che cumuli informi di rovine annerite, su un fondale di fuoco.
A Guernica ‑ letteralmente assassinate ‑ morirono 1654 persone. I feriti e i mutilati furono 889. La propaganda nazista cercò di far credere che Guernica era stata distrutta dai “dinamiteros” delle Asturie, ma nel 1939 lo stesso Sperrle si vantò in pubblico di averla personalmente condannata. E Göring, prima di suicidarsi a Norimberga nel 1946, dichiarerà ai giudici delle Nazioni Unite: “Guernica fu per la Luftwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un luogo più adatto per far compiere un test ai nostri bombardieri”.

La notizia della strage degli innocenti arriva a Parigi due giorni dopo, il 28 aprile. Picasso, che ha ricevuto l’incarico di realizzare un’opera per il padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi scarta ogni precedente lavoro e riprendendo alcuni suoi vecchi studi (sono i lavori del 1933 sul tema Minotauro che preparano il terreno a Guernica) già il primo maggio realizza cinque schizzi preparatori per una tela che vuole di grandi dimensioni - 349,3 x 777,6 mm secondo il MOMA di New York, 351 x 782 mm per altri - su cui raccontare a modo suo l’orrore per quel massacro.
All’apertura, a giugno, il ricordo della tragedia di Guernica non piace ai politicanti filotedeschi - non solo francesi - e di conseguenza non può piacere ai leccaculo attivi nel settore della carta stampata. Il gelo cade su quella tela: meglio ignorarla (la porta dell’oblio) e deviare l’attenzione altrove.

Chiusa l’Esposizione di Parigi per gli amici dei criminali tedeschi l’incubo finisce - o meglio, come Roma antica insegna: quando hai un problema interno, esportalo. E così è per Guernica, che con grande sollievo dei politicanti francesi e spagnoli prende la via dell’esilio. Nel 1938 è a Londra, ma qui tira tutt’altra aria e per Guernica è un vero trionfo, tanto che i rappresentanti dei lavoratori ottengono che l’opera sia esposta nel quartiere operaio di Whitechapel, a Leeds e a Liverpool prima di essere imbarcata sulla nave che la porterà a New York dove rimarrà, per volere di Picasso, fino al giorno in cui “le libertà pubbliche della Spagna saranno ristabilite”.

* * *

Già da quanto fin qui raccontato si deduce che nel 1941 nessun “ufficiale tedesco” può aver posto a Picasso quella domanda - in tutte le fantasiose varianti leggibili in rete e sui libri di storielle - visto che da tre anni la tela era custodita tra le mura del MOMA di New York.

Quanto alla celebrata botta e risposta mi affido a quanto scritto da tre importanti biografi di Picasso (e la Vallentin, esperta d’arte, scriveva praticamente sotto gli occhi del pittore, di cui era amica). Ecco le loro versioni, in ordine cronologico:

Antonina VALLENTIN, Pablo Picasso
Éditions Albin Michel, Paris 1961
Edizione italiana: Storia di Picasso
Traduzione di Renzo Federici
Giulio Einaudi editore 1961
pp. 362-63

Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germaine Hugnet, Jacquest Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera, press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».

Patrick O’BRIAN
Pablo Ruiz Picasso. A Biography, 1976
Edizione italiana: Picasso
Traduzione dall’originale inglese di Paola Merla
Longanesi & C. 1989
pp. 414-15

Fu nell’estate che seguì L’Aubade che i tedeschi e la polizia francese rastrellarono Parigi, arrestando nei mesi di luglio e di agosto del 1942 migliaia di ebrei. Cominciarono allora le grandi deportazioni: treni carichi di résistants, di comunisti, di ebrei, di sospetti provenienti da tutto il paese, molti dei quali vittime di delazioni, attraversarono la Francia diretti a Buchenwald, Auschwitz, Dachau, Mauthausen. La fucilazione degli ostaggi era cominciata da tempo, ma ora, appena fuori Parigi, i nazisti ne uccisero duecento nei soli mesi di agosto e settembre. Furono i giorni delle delazioni, quando per una semplice telefonata o una lettera anonima la Gestapo bussava alla porta a notte fonda; furono i giorni in cui i tedeschi vennero più volte in Rue des Grands-Augustins a chiedere di Lipchitz (naturalmente non c’era: era in America, come essi sapevano perfettamente) e a informarsi se Picasso fosse ebreo, perquisendo lo studio. Non so se, a parte il bronzo, ci fosse qualcosa di illecito da scoprire, ma se c’era non fu trovato; può darsi che il disperato disordine di Picasso abbia scoraggiato anche i più zelanti poliziotti tedeschi. Costoro si comportarono «correttamente» con Picasso, il quale da parte sua fece in modo di avere sempre i documenti perfettamente in regola, in modo da non offrire nessun appiglio: nel suo caso, forse per ignoranza o forse per un certo disagio provocato dalla sua fama, la Gestapo non tentò quei ricatti che aveva adottato con tanto successo in altri casi. Tuttavia non tutti i tedeschi venivano per perquisire lo studio: alcuni si presentavano in veste di intermediari semiufficiali, facendo balenare la prospettiva di privilegi, carbone, razioni supplementari, mentre altri sostenevano di essere amanti dell’arte. Le loro lusinghe non ebbero comunque alcun effetto, e da lui i tedeschi non ottennero mai niente se non alcune cartoline di Guernica che Picasso ficcò loro in mano, ripetendo: «Souvenir, souvenir». C’è l’episodio di Abetz, l’ambasciatore tedesco, che era venuto un giorno a trovarlo con l’intenzione di rendersi simpatico: osservando una riproduzione del grande quadro, domandò con un sogghigno: «E così, questo l’ha fatto lei, monsieur Picasso?» «No», rispose Picasso, «l’avete fatto voi.» L’episodio non è vero, alla lettera, ma era sulla bocca di tutti ed è significativo della stima di cui godeva Picasso. Nessuno, nemmeno le lingue più velenose di un ambiente noto per le maldicenze, lo accusarono mai della minima concessione ai Tedeschi o a Vichy.

Jacques PERRY, Yo Picasso
Éditions J.-C. Lattès, Paris 1982
pp. 327-28

Tout de suite, il faut froid. Mon énorme poêle, qui ressemble à une sculpture maya, dévore et reste toujours sur la faim. Des Allemands viennent me voir. L’ambassade et Jünger me proposent de me faire avoir des bons de chauffage, des bons d’essence. Je refuse : «un Espagnol n’a jamais froid ». Très vite, je décide de ma conduite : ne rien demander, ne rien accepter, ne pas mettre à la porte les visiteurs allemands s’ils se présentent avec politesse. Et je mets au point une distribution gratuite de reproductions de Guernica. Vous trouverez dans tous les livres qui m’ont été consacrés une anecdote drôle. Un officier allemand regarde une reproduction de Guernica et me dit : « C’est vous qui avez fait ça ? » Je réponds : « Non, c’est vous. » Je ne jurerais pas que cette histoire est vraie. C’est une bonne réplique et j’en suis capable. Mon doute vient de ceci : j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel.

Conclusione: dopo aver letto non meno di trenta biografie su Picasso, un’opinione in merito me la sono fatta: quel botta e risposta, almeno così come raccontata, è un’invenzione “popolare” e questo lo si capisce chiaramente anche, ma non solo, dalle parole che Perry fa recitare a Picasso: j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel. Che tradotto vuol dire: se nei momenti più tristi questa storia è servita a tenere alto il morale del popolo francese …va bene così. Si stampi.

giovedì 18 giugno 2015

Balzac e Picasso in Rue des Grands-Augustins



«C’è crisi. Nonostante il suo ottimismo di fondo, Kahnweiler era preparato. Ormai la si deve affrontare. Il 25 ottobre 1929, la borsa di New York crolla secondo uno schema tutto sommato banale, poiché lo riscontriamo nella crisi che ha colpito la Francia nel 1882 e in quella degli Stati Uniti del 1907. Ma questa sarà più lunga e più ampia.
Si prospettano anni di vacche magre. Il cosiddetto commercio del lusso, qual è il mercato dell’arte, come potrà non soffrirne? ... Kahnweiler ha la sgradevole impressione che niente valga più niente. Nessuno compera. ... Tutti sono nella stessa barca. Ogni tanto il morale risale. Si parla di una leggera ripresa. ... Kahnweiler esprime queste opinioni nelle lettere al cognato Michel Leiris che sta percorrendo l’Africa come segretario-archivista della missione Dakar-Gibuti. Anche le opinioni di quest’ultimo sulla crisi, vista da Dakar o da Yaoundé, sono interessanti: “Ho una gran fretta di essere nella savana, lontano dagli europei imbecilli e dai negri truccati. ... Vista da lontano la situazione europea mi sembra più che mai insensata. In ogni caso essa costituisce la prova più schiacciante dell’inutilità della nostra civiltà”.
Alla galleria ci si annoia a morte. È un deserto. ... Fra il 1929 e il 1933 la galleria Simon non organizza neppure una mostra. Anche l’attività editoriale è considerevolmente ridotta: escono solo le poesie di Carl Einstein e L’anus solaire di Georges Bataille. Gli altri aspetteranno. Non si può ingozzare un pubblico restio.»
Pierre Assouline. Il mercante di Picasso
Traduzione dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti Editore 1990, pp 275-277



Certo, sono anni difficili, aiutati dalla vecchia regola della coperta corta: se la massa ha i piedi al freddo è perché pochi hanno le spalle al caldo. Le gallerie d’arte cercano di sopravvivere e le loro attività collaterali, quali l’edizione di libri da collezione, boccheggiano per mancanza d’ossigeno.
È proprio in questo momento storico che un ricco mercante di quadri, Ambroise Vollard, lancia il guanto e sfida il destino - e qui mi fermo per fare un balzo indietro nel tempo di cent’anni, quando il 31 luglio e il 7 agosto 1831 il periodico L’artiste pubblica Le chef-d’œuvre inconnu di Honoré de Balzac,[1] che inizia così:

Vers la fin de l’année 1612, par une froide matinée de décembre, un jeune homme dont le costume était de très-mince apparence, entra dans une maison de la rue des Grands-Augustins, ...&tc. &tc.



Ritorno all’anno 1931. Come detto sopra, la crisi morde i polpacci ai poveri e al ceto medio, ma non sono queste masse ad aver reso ricco Vollard. Il mercato ristagna, è vero, ma lui, che ama il rischio (calcolato), chiede a Picasso se ha dei disegni utili ad illustrare una nuova edizione de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac, tirata in poche copie e in grande formato. Roba di lusso, per collezionisti ricchi.
Scrive Patrick O’Brian in Picasso (pp. 320-321), una biografia già citata in altri miei post:

Un artista al lavoro, talvolta un pittore, talaltra uno scultore, spesso con una modella, fa ora la sua comparsa tra i personaggi di Picasso: una figura che ritroveremo spesso nei suoi quadri, in varie forme, mai però ispirata a un sentimento di autostima.
Spesso si tratta di un uomo tarchiato, con barba, abbastanza «classico» non fosse per i calzoncini corti, dall’aria sbalordita se non stupida, quale a volte può avere un toro; in una delle prime acqueforti l’uomo è seduto davanti al cavalletto e fissa attentamente la modella o qualcosa attraverso di lei; intanto con la destra traccia una mirabile serie di curve e di piani rettilinei che non sembrano avere molta attinenza con la donna: costei, d’aspetto gradevole, di mezz’età, lavora a maglia in grembiule ed è disegnata, al pari dell’uomo, con il perfetto realismo descrittivo che Picasso, quando voleva, sapeva produrre.
Sarebbe interessante sapere se l’acquaforte fu eseguita prima che Vollard parlasse a Picasso della sua intenzione di realizzare un’edizione illustrata del Chef d’oeuvre inconnu di Balzac, poiché il libro narra di un pittore il cui capolavoro non può essere capito da nessuno se non dal suo stesso autore, ma in proposito gli studiosi hanno pareri contrastanti e anche i ricordi di Vollard sono vaghi. Altrettanto interessante sarebbe sapere se Picasso avesse letto il romanzo o no. Dalla descrizione che ne fece a Geneviève Laporte molti anni più tardi sembrerebbe di no, eppure poche opere gli sarebbero maggiormente piaciute. Molto succintamente la storia, ambientata nel 1612, è questa: il giovane Nicolas Poussin va a trovare il noto pittore Pourbus in Rue des Grands-Augustins e, dopo qualche esitazione, entra nello stesso istante in cui sopraggiunge anche un ricco signore anziano, di nome Frenhofer: Frenhofer critica il lavoro di Pourbus con grande libertà, esprimendo alcune opinioni molto interessanti in fatto di pittura. Poussin, sconosciuto a entrambi, si intromette ed è riconosciuto da ambedue quale un vero artista. Pourbus è gentile con il giovane, lo incita a lavorare, gli dice che Frenhofer era stato allievo di Mabuse e che adesso è pittore dilettante giacché, essendo ricco, non è obbligato a vendere, ma capace al punto che Pourbus ha scambiato i suoi dipinti per quelli di Giorgione. L’amicizia si fa più stretta, grazie anche al fatto che Poussin ha una giovane amante molto bella («una di quelle anime nobili e generose capaci di soffrire accanto a un grand’uomo, condividendone angosce e difficoltà e facendo tutto il possibile per comprenderne gli umori, sopportando l’indigenza e attingendo forza all’amore»), una donna che a Frenhofer piacerebbe avere come modella. Un giorno si trovano tutti nello studio di Frenhofer, dove Poussin vede alcuni quadri di mirabile fattura, che tuttavia Frenhofer giudica di poco conto a paragone del suo capolavoro, un dipinto che egli è estremamente riluttante a mostrare; infine si decide e lo fa vedere agli amici. Poussin non riesce a capire nulla in quel caos di colori, in quelle «gradazioni incerte, in quella specie di bruma informe», tranne «un solo piede, vivo e squisito». Dice però che non riesce a distinguere alcuna figura femminile nel dipinto. Frenhofer piange, per un attimo cerca di confortarsi immaginando che i due siano ladri, ma finisce per bruciare il quadro quella stessa notte, e muore.
Nel 1931, quando finalmente fu pubblicato, il libro conteneva acqueforti e disegni di Picasso puntiformi e cubisti, certamente precedenti all’idea del libro, oltre a qualche acquaforte realizzata per l’occasione; in tutto ottanta illustrazioni.

Sebbene Picasso abbia scelto le incisioni “a naso”, l’unità dell’opera non ne esce alterata. Il successo di critica e di vendita premiano il coraggio dell’editore.



Potrei fermarmi qui, se non fosse che il bello è ancora da venire.
Siamo ai primi giorni di gennaio del 1937 e Picasso, privato del grande studio di Boisgeloup che il tribunale ha assegnato a sua moglie Olga, da cui si è separato, cerca una nuova sistemazione per lavorare. Gli viene incontro Vollard che gli affitta una vecchia casa da lui comperata a Le Tremblay-sur-Mauldre, col granaio trasformato in studio; come abitazione, a Parigi il pittore mantiene i due piani acquistati in Rue La Boëtie, mentre la sua nuova fiamma, Dora Markovich - in arte Dora Maar - vive in un appartamento in Rue de Savoie, vicinissimo al complesso di studi che Picasso ha preso in affitto da alcuni anni, ma che finora ha poco o nulla frequentato.
Lo fa verso la fine di marzo, quando decide di occupare saltuariamente i due piani della vecchia casa del Settecento al n. 7 di Rue des Grands-Augustins, chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino - e il caso vuole che questa fosse proprio la casa in cui Balzac aveva ambientato Le chef-d’œuvre inconnu, una storia che ruota attorno a un pittore ...cubista.
Poche settimane dopo, il 26 aprile, la città di Guernica è distrutta dai bombardieri tedeschi, ma la notizia arriva a Parigi il 28. Nello studio di Rue des Grands-Augustins il primo maggio Picasso esegue i primi cinque schizzi preparatori della tela che a giugno sarà esposta al Padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi, da allora nota col nome della città martire, Guernica.
Ma è solo nel mese di giugno del 1939 che Picasso si insedia definitivamente al numero 7 di Rue des Grands-Augustins, seppur continuando a conservare l’appartamento di Rue de la Boëtie, dove lascia parte delle sue pitture. Per l’occasione, l’artista decide di far mettere il riscaldamento centrale per rendere abitabili i due piani dell’ex granaio Barrault. Decide anche di impiantare in casa un laboratorio d’incisione e fa venire da Boisgeloup il vecchio torchio e tutto il materiale necessario. Verso la fine di giugno ogni lavoro è terminato e Picasso può iniziare la sua ennesima vita, entusiasmando Vollard con i suoi progetti di stampe per edizioni future. Purtroppo il sogno di Vollard è di breve durata: il 21 luglio, a causa di incidente d’auto, muore dopo essere stato colpito alla nuca da una pesante scultura di Maillol che stava trasportando.



Anno 1940, anno di guerra. Picasso continua ad abitare in Rue La Boëtie, ma i tragitti tra la casa e lo studio divengono difficili. Decide così di trasferire la residenza in Rue des Grands-Augustins, installandovi una camera da letto. Per i pasti, capita spesso in un ristorante che porta un nome suggestivo, Le Catalan - 25, Rue des Grands-Augustins. Ed è qui che una sera di maggio del 1942, mentre sta cenando con Dora Maar, Marie-Laure de Noailles e altri amici, nota due giovani belle donne sedute a un tavolo in compagnia di Cuny, un attore allora in auge. Dopo le presentazioni e scambiata qualche battuta Picasso invita le ragazze a fargli visita nella sua casa-studio e molti anni dopo una delle due, Françoise Gilot, scriverà nelle sue acide memorie (pp 12-15):

Il lunedì seguente, verso le undici, Geneviève e io ci arrampicavamo per una buia e stretta scala a chiocciola, nascosta nell’angolo del cortile acciottolato del numero sette di rue des Grands-Augustins, e bussavamo alla porta dell’appartamento di Picasso. Dopo una breve attesa, la porta si aprì di pochi centimetri per rivelare il naso lungo e sottile del suo segretario, Jaime Sabartés. Non l’avevamo mai incontrato prima di allora, ma sapevamo chi era. Avevamo visto riproduzioni dei disegni che Picasso gli aveva fatto e Cuny inoltre ci aveva avvertito che sarebbe stato lui ad accoglierci. Ci guardò con aria sospettosa e chiese: «Avete un appuntamento?» Risposi affermativamente. Ci lasciò entrare. Aveva un aspetto inquieto e ci scrutava dietro le spesse lenti.
Entrammo in un vestibolo pieno di uccelli - c’erano delle tortore e un certo numero di uccelli esotici dentro a gabbie di vimini - e di piante. Le piante non erano belle; verdi e spinose come se ne vede spesso nei vasi di rame delle portinerie. Là invece erano disposte in un modo più attraente, e facevano un bell’effetto di fronte alla finestra spalancata. Avevo visto una di quelle piante un mese prima, in un ritratto recente di Dora Maar, esposto, a dispetto dei nazisti che avevano messo al bando le opere di Picasso, in un angolo della galleria di Louise Leiris, in rue d’Astorg. Era un magnifico ritratto in rosa e grigio. Sul fondo della tela c’era una vetrata a piccoli riquadri, che riconobbi nella vecchia e grande finestra, una gabbia d’uccelli e una di quelle piante verdi.
Seguimmo Sabartés in una seconda stanza, molto lunga. Disposti su vecchi divani e su sedie Luigi XIII si trovavano chitarre, mandolini ed altri strumenti musicali che pensai Picasso avesse usato per i suoi quadri del periodo cubista. Egli mi raccontò più tardi che aveva acquistato quegli strumenti dopo aver dipinto i quadri, non prima, e che li conservava a ricordo degli anni del Cubismo. La stanza era bella e ampia, ma vi regnava un disordine indescrivibile. La lunga tavola che si stendeva fino a noi e due banchi da falegname, uno a prolungamento dell’altro, ridosso alla parete di destra, erano coperti da pile di libri, di riviste, di quotidiani, di fotografie, di cappelli e di oggetti di vario genere. Sopra uno di questi banchi era posato un pezzo di cristallo grezzo d’ametista, grande quanto una testa umana. Al centro di questo blocco c’era una piccola cavità, totalmente chiusa, piena di qualcosa che sembrava acqua. In un ripiano sotto al tavolo si trovavano una pila di vestiti da uomo e tre o quattro paia di scarpe.
Mentre costeggiavamo la grande tavola centrale, notai che Sabartés girava attorno a un oggetto di color bruno scuro, posato sul pavimento, vicino alla porta che dava nella stanza accanto. Quando mi avvicinai, mi accorsi che si trattava di una scultura: un cranio in bronzo.
La stanza successiva era uno studio quasi totalmente stipato di sculture. Vidi così L’uomo col montone, ora fuso in bronzo e collocato nella piazza del mercato di Vallauris, e che, a quel tempo, era semplicemente di gesso. C’erano inoltre numerose grandi teste di donna che Picasso aveva eseguito a Boisgeloup, nel 1932, un ammasso di manubri di bicicletta, rotoli di tele, un Cristo spagnolo di legno policromo del XV secolo, e una bizzarra e affusolata scultura, rappresentante una donna che teneva in una mano una mela e nell’altro braccio qualche cosa che assomigliava a una borsa dell’acqua calda.
La cosa più sorprendente, tuttavia, era costituita da uno squillante Matisse, una natura morta del 1912, che rappresentava una fruttiera piena d’arance posata sopra una tovaglia rosa e contro un fondo oltremare e color rosa di Tiro. Ricordo anche un Vuillard, un Doganiere Rousseau e un Modigliani; ma in quello studio avvolto d’ombra, lo splendore del Matisse squillava fra le sculture. Non potei trattenermi dall’esclamare: «Oh, che bel Matisse!» Sabartés si volse e disse, austero: «Qui non c’è che Picasso!»
Per un’altra scaletta a chiocciola, all’estremità della stanza, salimmo al secondo piano dell’appartamento di Picasso. Là il soffitto era molto più basso. Passammo in un grande studio. Sul fondo, circondato da sette od otto persone, scorsi Picasso. Indossava un vecchio paio di pantaloni che gli stavano larghi e una maglia da marinaio a righe bianche e blu. Quando ci vide il suo volto si illuminò di un sorriso. Lasciò il gruppo e ci venne incontro. Sabartés brontolò qualcosa circa il nostro appuntamento e scomparve.
«Volete vedere lo studio?» chiese Picasso. Rispondemmo di sì. Speravamo che ci mostrasse dei quadri, ma non osavamo chiederlo. Ci ricondusse al piano inferiore, nello studio di scultura.
«Prima che m’installassi qui,» disse, «questo primo piano era il laboratorio di un tessitore, quello di sopra, lo studio di Jean-Louis Barrault. In questa stanza ho dipinto Guernica.» Si era seduto su una tavola Luigi XIII, davanti alle finestre che davano sul cortile interno. «A parte questo, non lavoro quasi mai in questa stanza. Ho scolpito qui L’homme au mouton,» disse indicando il grande gesso dell’uomo che tiene fra le braccia la pecora, «ma dipingo lassù e, di solito, eseguo le sculture in un altro studio che si trova poco più avanti su questa strada. «La scala a chiocciola che avete preso per venir qui è quella che il giovane pittore de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac saliva per andar a trovare il vecchio Pourbus, l’amico di Poussin che dipingeva tele non comprese da nessuno. Oh, tutto il luogo è ricco di fantasmi storici e letterari. Bene, torniamo su.» Scivolò giù dalla tavola e lo seguimmo per la scaletta a chiocciola. Ci condusse attraverso il grande studio, attorno al gruppo dei visitatori, nessuno dei quali alzò la testa al nostro passaggio, fino a una piccola stanza, proprio in fondo.
«Qui lavoro alle mie incisioni,» disse. «Guardate qui.» Si diresse verso l’acquaio e aprì il rubinetto. Dopo un po’ l’acqua prese a fumare. «Meraviglioso, vero? Nonostante la guerra ho l’acqua calda. Del resto,» aggiunse, «potete venire a fare il bagno quando volete.» Ma non era l’acqua calda che ci interessava, nonostante che allora fosse scarsa. Guardando Geneviève pensai: «La smettesse di parlare dell’acqua calda e ci facesse vedere almeno dei quadri!» Invece cominciò a tenerci un piccolo corso sulla tecnica dell’acquaforte e stavo proprio pensando che con tutta probabilità ce ne saremmo dovute andare senza vedere alcuna delle sue opere e che non saremmo mai più ritornate, quando, finalmente, ci condusse nel grande studio e ci mostrò alcuni quadri. Ricordo un gallo, ricco di colore e forte nell’impostazione, che lanciava un vigoroso chicchirichì. Ricordo anche un altro quadro, dello stesso periodo, molto rigoroso e tutto in bianco e nero.
Verso l’una, il gruppo dei visitatori ci lasciò e ciascuno prese congedo.
Ciò che mi colpì in modo curioso fin da quel primo giorno fu il fatto che lo studio sembrava il tempio di una specie di «religione picassiana», e che tutti i presenti apparivano completamente immersi in quel culto - tutti, eccetto quell’uno cui quell’attenzione era rivolta. Egli sembrava prender tutto per scontato, senza dare importanza a nulla in particolare come se volesse mostrarci che non intendeva affatto essere al centro di un culto.
Mentre ci apprestavamo ad andarcene, Picasso ci disse: «Se volete ritornare, fatelo. Ma non come pellegrini che vanno alla Mecca. Venite perché trovate interessante la mia compagnia e perché volete avere con me uno scambio semplice e diretto. Se volete vedere soltanto i miei quadri, potete benissimo andare in un museo.»
Non presi troppo seriamente quest’osservazione. Prima di tutto perché a quel tempo non c’era quasi alcun Picasso nei musei parigini. Secondo, perché egli si trovava nella lista dei pittori proibiti dai nazisti e nessuna delle gallerie private poteva esporre apertamente le sue opere e in una certa quantità. E a un pittore non basta vedere le opere di un altro pittore riprodotte in un libro. Per conoscere meglio i suoi lavori, ed era il mio caso, la cosa più semplice era di recarsi al numero 7 di rue des Grands-Augustins.

Per essere la prima visita, i fin troppo precisi dettagli rendono poco credibile questo racconto. Comunque sia, per alcuni anni i due si frequentano come amici, finché, scrive ancora la Gilot, «una sera sul presto, verso la fine di maggio 1946, mentre mi preparavo a lasciare Rue des Grands Augustins per tornare dalla nonna, Pablo ricominciò a insistere … e rimasi lì, senza dire addio e senza dare una spiegazione a nessuno … Non uscii di casa per un mese intero dal giorno in cui ero andata a vivere con Pablo.»
Risultato: da questa relazione il 15 maggio 1947 nasce un figlio, Claude. Il mese dopo la famiglia si sposta al Sud, a Golfe-Juan, dove abitano la casetta di Louis Fort. Nell’autunno Picasso comincia a lavorare nella fabbrica Madoura di Vallauris condotta dagli amici Ramié: un nuovo amore, una nuova casa è la costante di Picasso.


Françoise Gilot e Pablo Picasso
by Robert Doisneau, 1952

Gran finale. A Milano, sotto i portici di piazza Diaz, una volta al mese si tiene una ricca fiera del libro usato. Domenica scorsa, 14 giugno 2015, vengo attratto da una custodia marroncina, quadrata. La prendo, sfilo il libro e che mi ritrovo tra le mani? La riedizione de Le chef-d’œuvre inconnu curata nel 1966 dalle Éditions L.C.L. Il colophon recita (in francese, qui da me tradotto): Questo volume della collezione «Les Peintres du Livre» composto in carattere Bodoni corpo 18 è stato tirato dallo stampatore Firmin-Didot, Parigi - Mesnil - Ivry su carta Blanchemer delle Papeteries Prioux. La stampa delle illustrazioni è stata curata dall’Imprimerie Genése di Parigi. La rilegatura è stata realizzata da Bonnet-Madin a Dreux. La tiratura è stata limitata a 3000 esemplari numerati da 1 a 3000 e a 50 esemplari fuori commercio marcati H. C. destinati ai fondatori e ai collaboratori della collana.
Questa copia porta il numero 1490. Dentro vi sono le incisioni di Picasso, mentre il Pittore osservato dalla modella nuda è stampato e inserito a parte, su cartoncino bianco, fuori dal libro.
Domando: «Quanto chiede per questo libro?».
«Dieci euro.»
È in casa.

[1] Racconto inserito lo stesso anno 1831 nel terzo tomo dei Romans et contes philosophiques par M. Balzac, Paris, Charles Gosselin Libraire, poi ripubblicato con leggere modifiche nel 1847 col titolo Gillette ne Le provincial à Paris par H. de Balzac, Paris, Gabriel Roux et Cassanet Éditeur.



Atelier di Rue des Grands-Augustins
Guernica, dettaglio, 1937
by Dora Maar


Picasso e la stufa
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1939



Kazbek
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944

Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944


Pittore osservato dalla modella nuda, 1927






  

domenica 28 dicembre 2014

Picasso - Guernica, nelle parole di Patrick O'Brian


PICASSO, di Patrick O’Brian
Traduzione dall’originale inglese
Pablo Ruiz Picasso. A Biography
di Paola Merla
Longanesi & C. Milano 1989
pp. 366-380

Dora non viveva con lui, ma gli aveva trovato uno studio magnifico a Parigi e si era trasferita in un appartamento vicinissimo, in Rue de Savoie.
Lo studio, o meglio il complesso di studi e di altre stanze, occupava gli ultimi piani e i solai di un palazzo nobiliare, ormai cadente, che era stato costruito nel diciassettesimo secolo per la famiglia Savoia-Carignano: sorgeva abbastanza incongruamente in Rue des Grands-Augustins, dove Balzac aveva ambientato l’inizio del suo Chêf-d’œuvre inconnu; a giudicare dalla descrizione della scala a chiocciola, poteva trattarsi proprio dello stesso edificio dove si trovava lo studio di Picasso, al numero sette. Leggermente arretrato rispetto all’antico vicolo, con un cortile cinto da un muro sul fronte della casa, fino a pochi anni fa vi si sarebbero potuti immaginare Poussin, Watteau o Balzac stesso affacciati sul portone. Oggi l’edificio è stato ristrutturato: bianco, pulito, severo, poco accogliente e un po’ falso, appare del tutto diverso da come era al tempo di Picasso, il quale scoprì con sua grande delizia che la parte da lui occupata ricordava molto il Bateau-Lavoir.
Anche prima di trasferirvisi aveva lavorato moltissimo. Stimolato da Dora Maar e dalla guerra civile in Spagna, il flusso creativo aveva ripreso a scorrere copioso: eppure sorprende notare come il primo quadro del 1937 sia una Marie-Thérèse dalla cromia vivace, seduta su una poltroncina, in uno spazio ristretto dove non c’è quasi posto per il suo allegro cappello. Indossa un abito multicolore, solcato da fitte linee nere, cosicché le diverse superfici ricordano il cartone ondulato che Picasso usava per le sue figure in gesso: la figura appare perfettamente serena, con i dolci occhi posti sullo stesso lato del volto, un artificio che permise a Picasso di conservare la linea del profilo e che sollevò grande scalpore a quel tempo, mentre oggi è universalmente accettato.
La guerra in Spagna volgeva al peggio; sebbene l’attacco a Madrid fosse stato respinto dopo un terribile corpo a corpo per le strade e nell’università, era ormai chiaro che la neutralità delle grandi potenze era una crudele farsa; la Francia e l’Inghilterra agirono probabilmente in buona fede, pur con idee molto confuse, ma si perdettero in un mare di parole mentre Hitler e Mussolini facevano affluire rinforzi in aiuto di Franco. C’erano ormai circa diecimila tedeschi e quarantamila italiani schierati a fianco delle truppe nazionaliste, per non parlare dei nordafricani, mentre Hugh Thomas calcola che il numero totale dei russi fosse di circa cinquecento, anche se naturalmente l’Unione Sovietica inviò anche aeroplani, armi e carri armati, in parte usati dai volontari delle Brigate internazionali. Le truppe tedesche e italiane erano forze regolari e addestrate e tra i tedeschi si contavano molti comandanti e piloti della Luftwaffe, ansiosi di migliorare il proprio rendimento e di sperimentare tecniche e armi su bersagli veri, in vista della più grande guerra che si andava preparando.
Con slancio appassionato Picasso scrisse una poesia, Sogno e menzogna di Franco, un poema surrealista in cui parole rabbiose si affastellano l’una sull’altra raggiungendo quasi quel delirio ritenuto un tempo da Eluard come l’espressione della ragione all’apice della sua purezza: «fandango de lechuzas escabeche de espadas de pulpos de mal aguero estropajo de pelos de coronillas de pié en medio de la sartén en pelotas - puesto sobre el cucurucho del sorbete de bacalao frito en la sarna de su corazon de cabestro - la boca llena de la jalea de chinches de sus palabras». Una traduzione letterale di questo frammento «Fandango di civette salamoia di spade di polpi di malaugurio strofinaccio di peli di tonsure ritto nel centro di un tegame a coglioni nudi posto sul cono del gelato di merluzzo fritto nella rogna del suo cuore di bue la bocca piena della gelatina di cimici delle sue parole» non rende la sonorità violenta e gli echi dell’originale spagnolo: la poesia era però rivolta a un pubblico di spagnoli ed era accompagnata da illustrazioni secondo la tradizione spagnola e catalana, come fosse un’aleluya o un’auca, ossia da una serie di piccoli quadri, ognuno in sé conchiuso ma tutti collegati fra loro. Sono acqueforti, qualcuna con scene ispirate agli orrori della guerra - donne uccise, case incendiate, l’innocenza violata - altre relative a Franco, rappresentato di volta in volta come un essere amorfo e ributtante, una sorta di ascidia piena di protuberanze setolute, ma umana quel tanto che basta a farla riconoscere come tale, in procinto di distruggere con un piccone un busto di marmo; o come un fallo con gli stivali che cammina sulla fune sventolando un vessillo sacro; o ancora, circondato da filo spinato, in preghiera davanti a un ostensorio sul quale è scritto «1 duro» (cinque pesetas: simbolo del denaro); nell’atto di uccidere Pegaso o come una specie di meschino centauro sventrato da un toro. La figura del toro compare tre volte, due volte mentre attacca il Caudillo e un’altra nell’atto di spaventarlo. Inizialmente le scene erano quattordici, ma in giugno Picasso ne aggiunse altre quattro: donne urlanti, bambini massacrati, una ragazza uccisa.
La sequenza non è chiara, ma non è necessario che lo sia: il complesso di incisioni accompagnate dalla poesia esprime il caos mostruoso, la follia, l’assurda crudeltà della guerra e il rifiuto assoluto da parte di Picasso non soltanto della guerra ma anche dei valori della destra. È forse significativo che non vi compaia la croce.
Il Sogno e menzogna di Franco fu l’enunciazione più chiara dell’atteggiamento di Picasso in un momento in cui correvano voci sul suo scarso appoggio alla causa repubblicana, a favore della quale ora si schierava senza incertezze e senza possibilità di ripensamenti; e dal momento che il 1937 avrebbe dovuto essere l’anno di un’altra grande esposizione internazionale a Parigi, il governo iberico gli chiese di contribuire dipingendo un’intera parete del padiglione spagnolo.
Picasso accettò, certo; ma in Spagna ciò significa molto spesso il contrario ed è probabile che i funzionari che gli avevano trasmesso la richiesta, anche se ignari della riluttanza di Picasso ad accettare ordini e commissioni che inevitabilmente lo avrebbero condizionato, se ne ripartissero in preda a un certo sconforto.
In effetti Picasso si dedicò ad altre opere: un ritratto di Marie-Thérèse, con una ghirlanda di fiori sul grazioso capo, altre nature morte, una Marie-Thérèse seduta sul pavimento con le gambe ripiegate sotto di sé, la schiena rivolta a una finestra che si apre su un balcone, uno specchio semiaperto a lato e un vaso da fiori di fronte. L’incisivo ritratto di Dora Maar risale anch’esso all’incirca allo stesso periodo, anche se il mese non è noto con sicurezza: il colore è assai più carico e l’atmosfera emotiva completamente diversa, ma anche qui ritroviamo gli occhi (uno azzurro chiaro, uno arancione) sullo stesso lato del viso, visto di fronte e di profilo, e anche qui la figura è seduta in una piccola poltrona, all’interno di uno spazio compresso e indicato con precisione da linee verticali e orizzontali.
Dopo l’innaturale e prolungato periodo di riposo Picasso stava lavorando a ritmo accelerato; ancora nature morte e un gruppo di dipinti molto curiosi. Dei quattro o cinque della serie quello riprodotto più frequentemente è la Baignade, che a prima vista sembra dipinto nello stesso periodo della terribile bagnante dalla testa di mantide del 1929. Il vasto spazio di mare e di cielo è lo stesso e le grandi forme di legno levigato dall’apparenza quasi ossea presentano un ovvio richiamo a quel mostro, ma lo spirito è del tutto diverso e le figure - in questo caso due fanciulle dalla struttura architettonica con facce appena accennate, ventre a forma di uovo, seni ovali e appuntiti, intente a giocare con una barchetta sulla riva, sono miti, innocue; e persino la prodigiosa testa che si fa loro incontro all’orizzonte e le guarda ha soltanto un’espressione di benevola curiosità. La calma non cela la minaccia, l’incubo si è allontanato.
Eppure, proprio in quei giorni Málaga si trovava sotto l’incubo più terribile della sua lunga storia di assedi, assalti, incendi, massacri. Fin dai primi giorni della guerra, Málaga e il territorio circostante erano stati un’isola repubblicana in zona nazionalista, unita al resto della Spagna quasi solo dalla strada costiera. A metà gennaio del 1937 l’attacco ebbe inizio: ai primi di febbraio i fascisti, inclusi nove battaglioni di italiani con automezzi blindati e carri armati, entrarono nella città, semidistrutta dai cannoni e dai bombardamenti. Immediatamente ebbe luogo un’epurazione feroce e la morte avanzò lungo la strada di Almeria, dove mezzi corazzati e aerei inseguirono e raggiunsero gli innumerevoli fuggitivi.
La caduta di Málaga coincise quasi esattamente con una delle più serene fra le nuove tele «ossee», una donna seduta sulla spiaggia che si toglie una spina di riccio dal piede, e con il quadro di Marie-Thérèse accanto allo specchio. Non c’è dubbio che le notizie raggiungevano Parigi in ritardo, incomplete e poco sicure, ma comunque arrivavano. In un primo momento mi era sembrato che l’assenza di una reazione immediata da parte di Picasso stesse a indicare il suo distacco dalla città natale e il suo identificarsi con la Catalogna; ma, riflettendoci, credo di aver capito che il furore covava già, si gonfiava man mano che giungevano le notizie, incapace però, per alcune settimane, di trovare espressione, finché un’altra tragedia agì da catalizzatore, liberando le emozioni in un’esplosione che abbracciò non soltanto quell’avvenimento, ma la guerra civile spagnola intera.
Verso il mese di marzo o di aprile Picasso si era trasferito in Rue des Grands-Augustins. Non aveva intenzione di rimanervi, tanto che aveva conservato l’appartamento in Rue de La Boëtie, ma il trasloco dei cavalletti, delle tele, degli attrezzi e di tutti gli oggetti che voleva avere con sé nello studio generò un certo trambusto. La sua attività comunque non si interruppe e quasi subito gli ampi locali si riempirono del familiare odore di colori e trementina e i quadri cominciarono ad allinearsi lungo le pareti.
Adesso finalmente aveva spazio a volontà. Dall’esterno la casa non appare tanto grande, ma all’interno gli spazi assumono proporzioni diverse e i due ultimi piani abitati da Picasso disponevano di locali vasti, come cattedrali dalle basse volte, ancor più sorprendenti perché vi si accedeva da una buia scala a chiocciola. Nel corso dei secoli l’edificio era stato rimaneggiato in modo caotico e c’erano perciò numerose stanzette aggiunte, oltre a scale e scalette, ma notevoli erano soprattutto gli studi: grandi locali polverosi con vetrate affacciate sul cortile. Erano esposti a ovest, ma Picasso non si era mai preoccupato molto della luce: da ragazzo quando la luce del giorno era scarsa usava una candela o una lampada e adesso quando il ciclo era scuro o quando, come spesso accadeva, voleva lavorare di notte si avvaleva dell’illuminazione elettrica.
Al secondo piano della casa un ampio locale si apriva su una piccola anticamera in cui Picasso riceveva i visitatori meno intimi; un altro locale comunicante, che un tempo era stato adibito a laboratorio di tessitura, fu in seguito conosciuto come lo studio delle sculture, mentre quello al piano superiore, dove un tempo Jean-Louis Barrault provava i suoi copioni, fu adibito a studio di pittura. Aveva le pareti spioventi e attraverso le tavole del basso soffitto filtrava la polvere del solaio. Annesso vi era un piccolo ripostiglio con acqua corrente, che gli serviva per le incisioni, e nel complesso lo spazio era più che sufficiente; all’inizio comunque Picasso lavorò soltanto nello studio al piano inferiore.
Qui, nel maggio del 1937, dipinse uno dei suoi quadri più importanti, forse il più grande di tutta la sua vita.
Il 26 aprile alcuni aerei tedeschi bombardarono per ordine di Franco la città di Guernica: stormi di Heinkels e di Junkers lasciarono cadere bombe incendiarie e ad alto potenziale e mitragliarono le strade dalle quattro e mezzo del pomeriggio fino al tramonto. Dei settemila abitanti 1654 furono uccisi e 889 feriti: la cittadina fu virtualmente distrutta.
Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, dopo Hiroshima e Nagasaki, per non parlare di Londra, di Dresda, della Ruhr, duemila morti in un pomeriggio purtroppo non suscitano più grandi emozioni: nel 1937, tuttavia, l’evento sconvolse il mondo intero. Era il primo esempio di sterminio sistematico, a sangue freddo, della popolazione civile, un nuovo vertice di barbarie e di disumanità, una vittoria delle tenebre sulla luce. Corrispondenti di guerra indipendenti e fotografi erano presenti a smentire i nazionalisti, secondo i quali erano stati gli stessi abitanti di Guernica a far saltare la città ponendo delle cariche di dinamite nelle fognature, e non ci fu il minimo dubbio su ciò che era successo: la notizia si diffuse quasi immediatamente, autentica e tragicamente convincente. Giunse a Parigi il 28 aprile.
Picasso questa volta reagì istantaneamente, con tutto se stesso, e la sua risposta fu naturalmente un quadro. Il 1° maggio eseguì cinque schizzi, tre di figure singole e due dell’intera composizione come la concepiva in quel momento; fin dall’inizio erano presenti le tre forme essenziali: il cavallo morente, il toro, la donna che regge una lampada fuori della finestra. Dall’inizio di maggio a metà giugno lavorò febbrilmente: Zervos rivela che «la prima versione del quadro fu concepita in uno stato di estrema tensione emotiva». Picasso trovò persino il tempo di scrivere una ponderata dichiarazione che cominciava così: «Il conflitto spagnolo è la lotta della reazione contro il popolo, contro la libertà. Tutta la mia vita di artista non è stata altro che una lotta continua contro la reazione e contro la morte dell’arte. Come si potrebbe pensare per un solo momento che io possa essere d’accordo con la reazione e con la morte?... Nel quadro al quale sto lavorando in questo momento e che chiamerò Guernica e in tutte le mie opere recenti esprimo chiaramente il mio odio per la casta militare che ha sprofondato la Spagna in un oceano di sofferenza e di morte».
Nonostante la collera e l’amarezza, Picasso lavorò con grande meticolosità. Guernica non fu buttato giù, sull’immensa tela, nell’eccitazione di un giorno, ma fu il risultato di settimane di continua tensione e, come tutte le sue opere di maggiore impegno, fu preceduto da decine di studi preliminari che misero a fuoco le sue emozioni, la sua capacità di visione originale, la sua vasta esperienza. Doveva essere un atto d’accusa contro il male e se voleva essere efficace le armi dovevano essere usate nel modo migliore: non c’era spazio per l’improvvisazione e la fretta.
Gli studi sono stati conservati e molti di essi si possono ammirare al Casón del Buen Retiro di Madrid, insieme al grande dipinto. Grazie a essi, alle precise datazioni e alla presenza di Dora Maar che scattò alcune belle fotografie di Picasso al lavoro, lo sviluppo di Guernica può essere seguito dal primo schizzo a penna alla tela finita; è un panorama completo e affascinante del lavorio mentale di Picasso portato al vertice estremo della creatività. Prima di accennare ai successivi stadi dell’opera, bisognerebbe forse tentare di descrivere il quadro stesso, la versione finale quale oggi la vediamo. È una tela immensa, più di sette metri per tre e mezzo; eppure non sono le dimensioni che colpiscono immediatamente, ma piuttosto la sensazione improvvisa di trovarsi in presenza di un mondo nel quale è l’emozione a essere immensa. Né si nota la totale assenza di colore; nero, grigio, bianco sono i colori naturali di questo universo silenzioso, silenzioso nonostante le urla: lo stordimento senza suoni dell’estremo dolore, del disastro, degli istanti successivi all’esplosione della bomba.
Alta, quasi al centro del dipinto, una lampada elettrica splende nel buio, simile a un occhio, l’occhio onniveggente di tanti affreschi primitivi; al di sotto un cavallo magro, la bocca aperta in un nitrito selvaggio, barcolla trafitto da una lancia, la cui punta fuoriesce da un fianco; sotto gli zoccoli giace il corpo di un uomo, frantumato in blocchi come una statua, un braccio teso fino al bordo sinistro del dipinto, mentre l’altro afferra una spada spezzata la cui elsa sfiora un piccolo fiore appena abbozzato. A destra del cavallo, la testa dolente di una donna si affaccia da una finestra, il braccio irrigidito a reggere una lampada a olio che si allunga fin quasi a toccare la testa del cavallo: la lampada non illumina la casa dalla quale la donna si sporge, ma un’unica area nettamente definita, il petto del cavallo e il busto di un’altra donna, seminuda, che si muove a fatica, come stordita, verso il centro del dipinto: la gamba che si trascina, con il piede e il ginocchio enormi, si spinge fino al limite inferiore destro del quadro. Dall’oscurità, a sinistra del cavallo ma su un altro piano, emergono la testa minacciosa, le spalle e una zampa di un grande toro, mentre sotto il toro una donna urlante è accovacciata con un bambino morto tra le braccia. All’estrema destra il suo urlo è riecheggiato da un altro, quello di una donna intrappolata in un groviglio in fiamme, le bianche braccia protese verso l’alto e la testa anch’essa bianca gettata all’indietro nella stessa atroce agonia. Il riquadro illuminato della finestrina, sovrastata da pallide fiamme, corrisponde alla coda bianca del toro sulla sinistra del quadro, che s’innalza dalla parte posteriore della bestia contro un piano rettangolare grigio, mentre il collegamento fra la testa illuminata e il corpo immenso nel buio rimane oscuro: e, indistinto, dietro quella testa paurosa, un volatile - colomba, gallo, oca - certamente domestico, leva il suo canto stridulo nelle tenebre.
Tutte le figure sono fortemente distorte: tranne che nel caso del bambino morto (il cui naso è posto sopra il livello degli occhi sul volto capovolto con un effetto sconvolgente, come in alcuni studi per la Crocifissione), gli occhi si trovano entrambi sullo stesso lato del viso e le superfici sono piatte, prive di modulazione chiaroscurale. Un accenno di profondità si trova nei contorni appena accennati della finestrina e della casa, nello scorcio del muso del cavallo e della spada spezzata, ma per il resto lo spazio fra le figure è organizzato in piani angolari sovrapposti.
Superata la prima impressione ci si rende conto che c’è un ordine in quel caos apparente e che, sebbene a un’occhiata superficiale il dipinto possa sembrare un polittico, composto di diversi pannelli contenenti ognuno il toro, il cavallo, la donna con la lampada e infine la donna intrappolata, l’insieme è invece legato non soltanto dai piani che si compenetrano e dalla sequenza quasi continua di membra nella parte bassa del dipinto, ma anche, e assai più saldamente, da un triangolo dalla base ampia, formato da linee e da piani sovrapposti, con il vertice collocato appena al di sopra della lampada centrale, e da diagonali, un po’ meno evidenti, che si innalzano dalla base fino ai bordi esterni.
Lo stadio finale, apparentemente così spontaneo, non fu raggiunto se non dopo moltissimo lavoro; le tre figure principali erano presenti fin dall’inizio, quasi sempre nella sequenza toro-cavallo-donna con la lampada, ma dovettero essere ricollocate più volte insieme alle altre figure e forme perché l’insieme potesse esprimere tutte le proprie potenzialità espressive. Prima che fosse stabilita la versione definitiva ci vollero circa cinquanta studi, disegni, dipinti e forse altri cinquanta durante e dopo la realizzazione.
Il 2 maggio fece la sua apparizione l’uomo morto, un guerriero classico: in questo disegno la testa e l’intero corpo del toro non sono rivolti verso la donna con la lampada e la testa del cavallo s’impenna all’indietro verso la parte posteriore del toro, mentre dalla ferita nel ventre spunta un piccolo Pegaso; in un altro studio dello stesso giorno il toro in movimento si allontana dalla donna e si volge indietro verso la lampada, il cavallo è crollato a terra e il guerriero volge la testa a sinistra. Sempre il 2 maggio Picasso dipinse una versione ingrandita della testa del toro, quasi un’immagine speculare di quello adottato nella versione finale, ma ancor più tesa: è la testa di un vecchio ronzino, con la lingua che sporge appuntita, come nei suoi primi lavori.
Man mano comparvero le altre figure: alcune sarebbero rimaste, altre sarebbero state scartate. Il 9 maggio la composizione era arrivata a uno stadio pressoché definitivo. A quel punto le figure essenziali erano la donna che regge la lampada (scomparsa per qualche tempo) e il toro che la guarda; il cavallo è crollato a terra accanto a un carro, ci sono più figure di morti o di esseri che piangono e si lamentano e il fuoco sulla destra divampa più alto che nelle versioni successive, mentre dalle rovine si leva un braccio, il pugno chiuso nel saluto repubblicano.
Il giorno successivo Picasso attribuì al toro un benevolo e alquanto stolido volto umano, che però non adottò nella versione definitiva, come accadde anche per la scala che in un abbozzo aveva collocato contro la parete della casa incendiata, con una donna che ne discendeva tenendo un bambino in braccio.
Infine, l’11 maggio, montò l’enorme tela. Entrava di misura fra le pareti del grande studio, ma sebbene toccasse il pavimento non si incastrava perfettamente sotto le travi del soffitto; per dipingere la parte inferiore Picasso dovette quindi sedersi per terra, mentre per quella superiore usò una scaletta, pur essendo comunque obbligato a dipingere su una superficie inclinata; ma nessuna di queste difficoltà lo preoccupò minimamente. Le fotografie scattate da Dora Maar durante le varie fasi del lavoro rivelano la posizione scomoda della tela, le pile di giornali che usava come tavolozza, i barattoli, i tubetti strizzati e gli innumerevoli mozziconi di sigaretta: Picasso aveva sempre fumato molto, ma in quel momento, sottoposto a una tensione quasi continua, dovette certamente superare il numero abituale. Tensione quasi continua; perché nel lavoro Picasso era capace di una straordinaria autodisciplina, ma, nonostante la pressione e l’impulso a continuare, non smise di recarsi fino a Le Tremblay per dipingere le sue nature morte in un’atmosfera del tutto diversa. Senza queste pause gli sarebbe stato impossibile conservare una capacità di giudizio distaccato e puntuale per più di un mese continuato di sforzo creativo intensissimo.
La prima fotografia che Dora Maar scattò a lavoro ultimato mostra il toro rivolto decisamente dalla parte opposta rispetto alla donna, il cavallo abbattuto al suolo con la testa arcuata verso il basso in uno spasimo convulso e il guerriero, una figura quasi neoclassica paragonata al resto, steso a terra sul dorso, con il braccio destro racchiuso in uno stretto rettangolo e levato nel saluto repubblicano: questo braccio verticale, lungo due metri e che quasi sfiora la lampada, è uno degli elementi più importanti del quadro, mentre la lampada stessa presenta una seconda verticale, simile alla rocca di un arcolaio, che scende verso il basso fino alla zampa del cavallo. Dalla cima della lampada una diagonale s’inclina in basso, verso l’estremità destra del dipinto, da dove risale nuovamente fino alla casa incendiata. Sulla sinistra, anche se meno distintamente, si può individuare il corrispondente lato del triangolo e la relativa diagonale ascendente. Questi elementi rimasero costanti, costituendo la solida struttura della composizione. La fotografia successiva mostra tuttavia un sole con i raggi simili a petali dipinto dietro il pugno chiuso, che ora stringe qualche spiga di grano. Nella terza il sole è stato sostituito da un ovale appuntito e bianco; il braccio (già più corto nell’ultima versione) è scomparso, perché il soldato, rivolto nuovamente con la testa a sinistra, giace adesso supino.
L’abolizione di questa verticale produsse un’enorme differenza nella composizione, nelle potenzialità del dipinto, e dopo qualche altro cambiamento, importante ma meno vitale, Picasso afferrò subito l’opportunità offerta dallo spazio al centro, come era probabilmente nelle sue intenzioni più o meno consapevoli fin dall’inizio. Non si conosce esattamente la data della decisione definitiva; probabilmente fu raggiunta dopo una pausa a Le Tremblay o dopo che Picasso si fu concesso qualche ora libera per aggiungere quattro acqueforti, composte nello spirito di Guernica, alla serie Sogno e menzogna di Franco. Con lo spazio centrale libero a sua disposizione fu infine in grado di tornare per il cavallo all’idea primitiva, riportando la testa in alto e all’indietro così come appare adesso, facendone di nuovo una delle figure più significative dell’opera: in questo modo però veniva a coprire la parte posteriore del toro, con la coda rivolta alla donna. Picasso all’improvviso decise di rovesciare la figura, lasciando la testa com’era: ora solo il corpo, non la testa, era rivolto verso la donna.
Tornando al cavallo, ne dipinse la superficie con pennellate regolari e leggere rendendolo simile a un collage: il soldato fu smembrato, come se fosse veramente una statua, volgendone il viso verso il cielo, con la bocca spalancata, e accentuando l’importanza del fiore (tutto ciò che restava di una figura di donna precedente) che ora toccava la mano con la spada. Infine, al grande occhio, che era stato nelle versioni precedenti un sole, aggiunse una lampadina elettrica come pupilla; qualche altro piccolo cambiamento e il dipinto fu completo.
Si era a giugno inoltrato. Poco tempo dopo la tela fu collocata nel padiglione spagnolo. Fin dal primo momento in cui fu visto dal pubblico Guernica suscitò ammirazione, avversione, stupore, discussioni, spiegazioni; in effetti Guernica è uno dei pochi quadri di Picasso per il quale le parole non sono del tutto inutili, essendo uno dei rari esempi della sua produzione matura ad avere un chiaro contenuto narrativo e simbolico, che può essere, almeno in parte e in modo approssimativo, trascritto.
Molto si può dire, ed è stato detto, sul suo aspetto puramente estetico, sulle fonti della tradizione alle quali Picasso ha forse attinto, sul posto che il quadro occupa nella storia dell’arte in generale e di Picasso in particolare; in gran parte si tratta di commenti di notevole interesse, perché in Guernica si ritrova qualcosa del periodo blu, parecchio del Picasso cubista, molto del disegnatore straordinario, dell’amico dei surrealisti, del pittore della Crocifissione e dei quadri metamorfici, dell’autore della Minotauromachia: una specie di epitome dei Picasso degli ultimi trent’anni, dato che tutte le sue esperienze e tutte le sue scoperte vi rientrano in qualche misura. E nonostante siamo ancora tanto vicini all’evento commemorato che pochi, tranne i più giovani, riescono a dissociare il dipinto dal suo contesto storico e dalla carica emotiva che vi è implicita, molto è stato scritto sui suoi pregi squisitamente pittorici: io non aggiungerò altro se non che concordo con la maggioranza nel ritenere Guernica un quadro nobilissimo, un atto di purificazione attraverso la pietà e il terrore.
Guernica è però anche un’allegoria, con un uso del tutto consapevole di simboli. È dunque ragionevole domandarsi fino a che punto e a che livello questa parte del «messaggio» sia stata recepita. Siamo qui su un terreno in una certa misura meno soggettivo; infatti se alla domanda: «Commuove questo quadro?» si può rispondere con un sì o con un no, all’interrogativo: «Che cosa esprime?» è possibile dare una risposta assai più significativa.
Tutti concordano nell’ammettere che si tratti essenzialmente di una denuncia della guerra come crimine, della crudeltà insensata, dell’odio, del massacro degli innocenti; al di là di questo però le opinioni cominciano a differire. Alcuni scorgono in Guernica un preciso atto di accusa contro i nazionalisti spagnoli, il che lo scredita agli occhi di altri come mera propaganda. Si tratta certamente di un punto di vista errato: Picasso condannava Franco e lo espresse chiaramente in Sogno e menzogna, ma in Guernica trasferì la protesta su un piano superiore, facendone un grido appassionato contro ogni guerra, ogni oppressione. Sarebbe stato semplice moltiplicare i pugni chiusi nel saluto repubblicano: al contrario, li abolì. Evitò ogni riferimento specifico all’uno o all’altro degli schieramenti e, sebbene il cavallo e il toro simboleggino la Spagna, proprio in quanto simboli trascendono l’allusione specifica.
Insieme alla donna con la lampada costituiscono i simboli principali, e l’efficacia dell’allegoria sembrerebbe apparentemente dipendere dalla loro interpretazione da parte del pubblico di tutto il mondo. Le spiegazioni fornite sono state diverse, generalmente in relazione diretta con la guerra civile spagnola: per alcuni il toro è il fascismo, che teme la donna con la lampada, una versione della fanciulla con la candela della Minotauromachia; la luce dovrebbe respingere il mostro, mentre il cavallo sarebbe simbolo della Repubblica; per altri invece i ruoli sono capovolti e il cavallo, secondo un’interpretazione abbastanza sorprendente, rappresenterebbe il nazionalismo spagnolo. Altri ancora si sono rifatti ai primi lavori di Picasso per far luce sui simboli di Guernica, in particolare alle molte scene di corrida, e sono rimasti stupiti e al contempo dispiaciuti dall’atteggiamento ambivalente di Picasso verso il toro e il minotauro, di volta in volta eroe o mostro: in Sogno e menzogna è il toro che affronta Franco, incornandolo a morte.
Per quanto concerne il toro di Guernica, tuttavia, conosciamo esattamente ciò che Picasso aveva in mente. Dopo la liberazione di Parigi un soldato americano, Jerome Seckler, lo andò a trovare e gli chiese di spiegargli il quadro. Il giovane soldato doveva essere accattivante quanto ingenuo perché, sebbene Picasso fosse stato perseguitato per più di trent’anni da continue domande di quel genere, lo condusse nel suo studio al piano superiore, ascoltò pazientemente il giovane mentre analizzava a briglia sciolta i vari quadri, compreso Guernica, e gli parlò a lungo, molto gentilmente e credo senza la consueta malizia che sfoderava quando veniva importunato. Il giovane ricorda: «Gli parlai del simbolo del toro, del cavallo, delle mani con la linea della vita, eccetera e dell’origine dei simboli nella mitologia spagnola. Picasso continuava ad accennare col capo mentre parlavo. ‘Sì’, disse, ‘il toro qui rappresenta la brutalità, il cavallo rappresenta il popolo. Sì, qui ho usato dei simboli, ma non negli altri’».
Durante la medesima conversazione osservò, a proposito delle sue convinzioni politiche: «Nella mia pittura non c’è una propaganda intenzionale».
«Tranne che in Guernica», osservò Seckler.
«Sì, tranne che in Guernica. Lì c’è un appello deliberato alla gente, un deliberato richiamo propagandistico.»
L’atteggiamento di Picasso riguardo ai simboli variava: una volta affermò che era compito dell’osservatore crearli, a partire dal materiale che il pittore gli forniva, e poi interpretarli, ma nel caso di Guernica è forse meglio attenersi a quanto ha affermato lo stesso Picasso e accettare il toro come segno della brutalità e il cavallo come simbolo del popolo: l’allegoria assume allora un significato universale. Il crimine non è più commesso dai fascisti in un preciso momento della guerra civile spagnola, ma da ogni potere stupidamente brutale e fondamentalmente malvagio, e il dipinto diventa un’immane protesta contro la sofferenza universale che ne deriva. Può anche essere letto non come un’esortazione morale, ma come un disperato riconoscimento dell’impossibilità di una vit­toria, della sconfitta inevitabile di ogni contendente, così che dopo ogni guerra non rimangono che esseri abbrutiti in un campo di battaglia desolato e apocalittico, colmo di odio, privo di decenza, di arte, di umanità. Questa chiave di lettura è avvalorata dal fatto che Picasso, mentre dipingeva Guernica, fece qualche esperimento con il papier collé: uno dei collage era una lacrima di sangue che egli spostò da un volto all’altro, indugiando più a lungo sul toro, quasi fosse una creatura da compiangere al pari delle altre. Alla fine eliminò la lacrima, ma disse al poeta José Bergamín: «La metteremo in una scatola e andremo almeno ogni venerdì ad attaccarla sul toro».
Si è detto che i simboli di Guernica sono privati, oscuri, persino ermetici, che il messaggio perciò non riesce e non può riuscire a raggiungere l’osservatore, e che la grande varietà di interpretazioni esistenti ne è una dimostrazione; ma si tratta di una critica più appropriata a un manifesto pubblicitario inteso a esaltare un prodotto o un avvenimento: può essere applicata a Guernica? Al di fuori delle scienze esatte, quasi nulla che valga la pena di essere espresso può essere detto se non in via indiretta; per il fatto stesso di esistere, un simbolo efficace assume una sorta di potere magico e anche se, in senso letterale, non può essere compreso se non oscuramente (chi «capisce» le statue dell’isola di Pasqua o le sculture africane antiche? Eppure, chi non ne rimane turbato?), viene tuttavia accolto a un livello di sensibilità profonda, una sensibilità che non ha niente a che vedere con la logica e che reagisce con forza primordiale. È possibile che il latino della messa, percepito forse confusamente come semplice suono e probabilmente non inteso affatto nel suo significato letterale, avesse un effetto assai più profondo delle chiare parole del vernacolo quotidiano usate nel rito odierno, con le loro associazioni tristemente banali. E così come è possibile affermare che la vitalità e la verità dei più riusciti quadri cubisti di Picasso scaturiscano da un fondamento legato a una realtà osservata, allo stesso modo il valore dei suoi simboli deriva innanzitutto dalla loro validità per il pittore stesso.
Un’altra critica rivolta a Guernica riguarda l’elemento propagandistico insito nel quadro: vi è chi sostiene che, come gli slogan non sono letteratura, così la propaganda non è arte, la quale non deve aver nulla a che vedere con la politica né con la morale. Tenendo presenti le parole dello stesso Picasso, è impossibile negare che si trovi in Guernica un elemento propagandistico: nella sua furia iniziale lo avrà probabilmente concepito come un’accusa diretta ai fascisti, così come aveva già fatto per Franco, ma nel corso dell’opera ogni intenzione particolare e ogni riferimento a eventi immediati furono certamente sublimati.
In quanto all’universalità di Guernica, soltanto gli anni futuri, l’obiettività dei posteri, potranno consentire un giudizio; quanti però credono in essa, e chi scrive è fra questi, hanno trovato a conferma un alleato nello stesso governo spagnolo, che, lungi dal sentirsi giudicato, ha fatto di tutto per riportare il dipinto a Madrid. Forse l’arte non ha nulla a che fare con la politica e con la morale, ma certamente ha molto a che vedere con la distinzione fra il vero e il falso. A un certo livello la differenza fra verità estetica e menzogna si fonde con quella fra luce e tenebre: e di fronte a tale scelta, non c’è dubbio da quale parte Picasso intendesse schierarsi.

Minotauromachia
acquaforte e raschietto su carta vergata
incisa da Lacourière, autunno 1935


Sogno e menzogna di Franco
acquatinta su carta di China
prima lastra, incisa da Lacourière, primavera 1937


Sogno e menzogna di Franco
acquatinta su carta di China
seconda lastra, incisa da Lacourière, 7 giugno 1937

Testa di cavallo
olio su tela
Parigi, 2 maggio 1937
Guernica, stato 1
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937

Guernica, stato 2
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937

Guernica, stato 3
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937

Guernica, stato 4
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937

Guernica
olio su tela
Parigi, maggio 1937

Guernica, dettaglio
olio su tela
Parigi, maggio 1937

Donna che piange
Puntasecca, acquatinta, acquaforte e raschietto su rame
Parigi, 1 luglio 1937
Donna che piange con fazzoletto
olio su tela
Parigi, 17 ottobre 1937