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giovedì 18 settembre 2014

Picasso visto da Man Ray

Testa di toro, 1942

Man Ray [Emmanuel Radnitzsky]
Autoritratto
1963 Man Ray
1975 Gabriele Mazzotta editore
Traduzione dall’inglese di Maura Pizzorno
pp. 182-189

Picasso mi dava l’impressione di un uomo consapevole di tutto ciò che accadeva intorno a lui e nel mondo in generale, un uomo che reagiva violentemente a tutte le avversità, ma aveva un solo strumento per esprimere i suoi sentimenti: la pittura. Le brevi frasi epigrammatiche o enigmatiche che di tanto in tanto pronunciava evidenziavano solo la sua impazienza di fronte agli altri mezzi espressivi. E queste poche parole, quasi esclusivamente relative alla pittura, esprimevano chiaramente, a rifletterci un poco, la sua filosofia e il suo atteggiamento verso la vita.
La prima volta che m’incontrai con lui fu per fotografare le sue ultime opere, agli inizi degli anni Venti. Come sempre quando avevo una lastra in più, la utilizzai per il ritratto dell’artista. La fotografia in sé non era niente di speciale, ma colpiva per lo sguardo intenso e intransigente di quell’uomo, per quegli occhi neri che ti soppesavano. Era basso di statura e piuttosto tarchiato, non praticava in genere esercizi fisici, ma amava nuotare e passeggiare con il cane. In città lo si incontrava soltanto subito dopo pranzo, quando usciva per la sua passeggiata. Evitava con la massima cura gli appuntamenti precisi, fissati per un’ora stabilita.
Venni invitato a colazione, e portai la macchina per fotografare la moglie Olga, un’ex ballerina russa, e il figlioletto Paul. Quando il loro matrimonio fallì, smise di lavorare in quella casa, che rimase chiusa, coi sigilli alle porte, per tutta la durata della causa di divorzio. I suoi avvocati erano disperati perché non tentava neanche di aiutarli a ottenere la separazione legale. Per un paio d’anni dovette rinunciare a dipingere giacché, fino a quando il procedimento legale era in corso e non si raggiungeva un accordo, era previsto il sequestro di ogni suo nuovo quadro. Per lui fu una privazione tremenda. Si mise a scrivere, riempiendo pagine e pagine d’incoerenti frasi in spagnolo, con una scrittura che sembrava aggredire la carta e somigliava al suo modo di disegnare. Anche lo scritto, come qualsiasi sua produzione, apparve immediatamente su una rivista d’arte, insieme a uno degli ultimi ritratti eseguiti da me. Quando il direttore di una grande rivista americana chiese l’autorizzazione a pubblicare parte del manoscritto, a qualsiasi prezzo, rifiutò. Mi pregarono di intercedere presso di lui, e alla fine acconsentì, ma solo a condizione che venisse pubblicato anche il ritratto che gli avevo fatto, e per il quale dovevo poi ricevere un lauto compenso; lui soldi non ne voleva. Dopo qualche tempo apparve la mia foto, ma non il manoscritto. Mi dissero poi che l’avevano fatto tradurre in inglese, ma era così pieno di oscenità che era impossibile pubblicarlo.
Picasso promise di farmi un ritratto a penna per il mio album di ritratti, ormai in via di pubblicazione. Andai a posare da lui in una stanza priva di riscaldamento - era gennaio - e mi tenni il cappotto.
Lui stava accovacciato su uno sgabellino, con una bottiglia d’inchiostro sul pavimento e un album sulle ginocchia. Immergeva la penna nell’inchiostro, incurante delle macchie sulle dita, e il pennino strideva sulla carta. Lavorò per circa un’ora con fare maldestro, come uno studente per la prima volta alle prese con un disegno. Conoscendo la sicurezza e la rapidità con cui sapeva lavorare, ero veramente stupito. A un certo punto mise album e penna da parte, si alzò e cominciò a prepararsi una sigaretta; mi disse intanto di riposarmi. Si rimise al lavoro con la stessa aria incerta, borbottando ogni tanto tra sé. Si inumidì il dito con la lingua e lo strofinò sul disegno, ripetendo più volte l’operazione: alla fine lingua, labbra e dita erano tutte macchiate d’inchiostro. Dopo un ultimo tocco borbottò che non sapeva se avrei potuto servirmi di quel disegno; per lui, potevo anche buttarlo via. Protestai: l’avrei dato al tipografo senza neanche guardarlo; la sua firma mi bastava; se non aveva obiezioni alla pubblicazione, non ne avevo nemmeno io. A volerlo giudicare in base a criteri accademici, quel disegno era un vero pasticcio. E dire che sapeva disegnare meravigliosamente con un solo tratto di penna. Ma quel disegno lo aveva fatto faticare, e l’idea mi piaceva molto. Inoltre dentro c’era molto, moltissimo di me, colto lì in piedi col mio cappotto addosso, e qualsiasi occhio inesperto se ne sarebbe accorto, soprattutto un occhio inesperto. Presi dunque il disegno, che apparve sul frontespizio del mio album, con la stessa accettazione acritica con cui Picasso accettava la mia persona e il mio lavoro. Non si discute la firma su un assegno se il firmatario ha un solido conto in banca, pensavo, e così non si discute la reputazione di Picasso. Alcuni anni dopo, avendo bisogno di denaro, vendetti quel disegno a un collezionista. Sono convinto che lo comprò per la firma; e forse anche, oso sperare, perché era il mio ritratto.
Durante gli anni Trenta conobbi la bellissima Dora Maar, un’abilissima fotografa che in certi lavori dava prova di molta originalità e di un approccio un po’ surrealista. Picasso se ne era innamorato. Un giorno vide nel mio studio un suo ritratto e mi supplicò di darglielo, promettendomi qualcosa in cambio. Lusingato dall’interesse che manifestava per quella foto, gliela regalai e dimenticai l’episodio. Un mese dopo arrivò con un rotolo sotto il braccio: era una delle prime copie numerate della sua acquaforte, Tauromachia, con dedica autografa. Picasso non dimenticava mai nulla.
A quel tempo lavorava nel solaio di un vecchio convento sulle rive della Senna. In Spagna infuriava la guerra civile. Quando ci giunse la notizia del bombardamento di Guernica, Picasso ne fu sconvolto. Dai tempi della prima guerra mondiale, mai fino a quel momento aveva reagito con tanta violenza agli avvenimenti del mondo esterno. Ordinò una grande tela e cominciò a dipingere la sua versione della strage di Guernica. Lavorava febbrilmente tutti i giorni, usando solo il nero, il grigio e il bianco: troppo grande era la sua collera per curarsi di finezze cromatiche o di problemi di armonia e di composizione. Ogni giorno ritornava sulle zone già dipinte non per migliorarle, ma per esprimere una nuova idea su quell’unica tela. Quando ebbe sfogato in parte la sua rabbia e considerò terminato il dipinto, continuò a fare disegni brutali: volti di donne in lacrime, teste di animali agonizzanti. Alcuni anni dopo, quando Guernica fu esposta in un museo, provai una sofferenza quasi fisica a sentire un professore di storia dell’arte che con tutta calma spiegava agli alunni come una certa verticale fosse compensata da una certa orizzontale. E i disegni furono esposti come studi per la tela, mentre in realtà il rapporto era stato capovolto. Picasso non accettava nessuna regola fissa.

Nei tre anni che precedettero l’ultima guerra, d’estate ci riunivamo sempre sulle spiaggie del sud della Francia, come una famiglia felice: io e la mia amica Adrienne, il poeta Paul Eluard e la moglie Nusch, Roland Penrose e la futura moglie Lee Miller, Picasso con Dora Maar e il suo afgano Kasbech. Alloggiavamo tutti alla pensione Vastes Horizons, nella campagna del Mougins sopra Antibes. Dopo la mattinata al mare e la lenta piacevole colazione consumata all’ombra di un pergolato d’uva, ci ritiravamo nelle nostre stanze per riposare o magari fare all’amore. Ma non trascuravamo il lavoro. Alla sera Eluard ci leggeva la sua ultima composizione, Picasso ci mostrava un ritratto di Dora con gli occhi stellati, io ero impegnato in una serie di disegni stravaganti ma realisti, raccolti poi, con le poesie di Paul Eluard, in un volume intitolato Les Mains Libres. Dora, che a Parigi aveva fotografato Picasso mentre dipingeva Guernica, aveva abbandonato la fotografia per la pittura, facendo cioè esattamente il contrario di quanto raccontò poi un biografo di Picasso, secondo il quale un pittore, dopo aver visto l’opera di Picasso, aveva abbandonato i pennelli e si era dato alla fotografia.
Il disegno e la pittura erano una sorta di pausa rispetto alla fotografia, a cui non avevo tuttavia intenzione di sostituirli. È stato sempre irritante per me sentirmi chiedere, secondo l’attività del momento, se avevo deciso di abbandonare l’una per dedicarmi all’altra. Non esisteva nessun conflitto tra le due attività: perché la gente non riesce a capire che una persona può impegnarsi in due attività nel corso della sua esistenza, alternativamente o simultaneamente? Ciò che c’è sotto è indubbiamente il giudizio che la fotografia non è allo stesso livello della pittura, non è un’arte. È un argomento controverso dai tempi dell’invenzione della fotografia, e la questione mi lasciava del tutto indifferente. Per evitare discussioni, avevo apertamente dichiarato che la fotografia non è arte, e avevo pubblicato un opuscolo con questa dichiarazione per titolo, tra la costernazione e la riprovazione dei fotografi. Quando più di recente mi hanno chiesto se ero ancora dello stesso parere, ho dichiarato che avevo leggermente modificato la mia posizione: secondo me, l’arte non è fotografia.
Non mi piaceva dipingere in un luogo estraneo, e per questo presi ad Antibes un appartamentino con una bella terrazza, ove potevo rifugiarmi a dipingere quando il mio lavoro di fotografo a Parigi mi lasciava un po’ di respiro. Le nostre estati idilliche non durarono a lungo. Si andavano addensando le nuvole della guerra. Con toni sempre più arroganti Mussolini minacciava d’invadere il sud della Francia e di riprendersi un territorio che secondo lui spettava di diritto all’Italia. Poi gli accordi di Monaco rimandarono di un anno lo scoppio della guerra. Intanto mi ero comprato una casetta in campagna, nei pressi di Parigi, per evitare di trascurare il lavoro con assenze troppo prolungate dallo studio. Poiché l’avvenire era così incerto, rinunciai al progetto di passare gran parte del mio tempo nel sud, e Picasso, quando glielo dissi, si offerse di subentrare nel mio appartamento di Antibes. Gli girai il mio contratto e imballai le mie cose, compresi tele e colori. Stavo per staccare dal muro una composizione di carta gualcita e ripiegata, sugheri e pezzi di spago, quando Picasso mi chiese di lasciargliela, se potevo, perché gli piaceva molto. Proprio nulla di quel che faccio va perduto, pensai, c’è sempre almeno una persona al mondo cui interessa. Per conservare una testimonianza di quella composizione, prima di partire ne feci una copia esatta, a olio, che intitolai Trompe-l’oeil.
Pochi giorni dopo andai a salutare Picasso, che si era sistemato nell’appartamento mentre io mi ero trasferito in una camera d’albergo. Si era già messo al lavoro. Tutti i mobili della stanza più spaziosa erano scomparsi, e una grande tela era fissata alla parete. L’aveva divisa in una ventina di quadrati, come una scacchiera, e in ognuno di essi dipingeva una natura morta, variazioni d’uno stesso tema. Arrivò intanto anche il gallerista di Parigi, per gli ultimi accordi sulla prossima mostra. Guardò le nature morte, osservò i vasetti di colore, ciascuno con un pennello dentro, e alla fine domandò se erano resistenti - chiaramente non erano colori di marca, li aveva acquistati nel negozietto più vicino. Picasso si strinse nelle spalle e disse che non era affar suo; riguardava semmai i collezionisti e quelli che investivano denaro in opere d’arte. Non era una posa. Una volta gli vidi comprare in un negozio l’intera gamma dei colori migliori e più costosi. Per lui era soltanto una questione di disponibilità, di non perdere tempo quando era posseduto dal desiderio di dipingere.

[...]

Non rividi Picasso che dopo il mio ritorno in Francia, negli anni Cinquanta. Era rimasto nel sud mentre io ero a Parigi, occupato dal mio lavoro, finché, quando la Francia fu invasa, me ne tornai negli Stati Uniti. Quindici anni dopo andai a trovarlo nella nuova villa nei dintorni di Cannes. Gli telefonai il mattino stesso del mio arrivo, e mi chiese di raggiungerlo senza perdere un minuto, perché doveva recarsi subito a Nizza, dove giravano un film su di lui. Risalii la collina e suonai al cancello della villa. Mi abbracciò affettuosamente, come se non fossero passati tutti quegli anni: nulla era cambiato. La casa era immensa, costruita da un pretenzioso commerciante di vini, che aveva fatto fortuna. Il giardino, tenuto con molta cura, era costellato dei bronzi più provocatori di Picasso, che sembravano schernire il gusto barocco del vecchio proprietario. L’interno era tutto dipinto di bianco, così da nascondere i pesanti elementi decorativi. Dappertutto casse ancora chiuse, tele voltate contro la parete, alla quale era appeso un unico dipinto senza cornice: un ritratto di Jacqueline, la nuova moglie di Picasso. Vicino alla porta che dava sul giardino c’era un vecchio divano e, al centro della stanza, una poltrona a dondolo di legno, gli unici sedili disponibili. Una collezione di sculture africane era ammassata alla rinfusa sopra un grande tavolo. In quel museo d’arte primitiva Picasso riuscì a scovare un piccolo pastello, un nudo disteso, racchiuso in una cornice dorata, e mi chiese se me ne ricordavo. Gli dissi di no, e lui mi spiegò che l’avevo lasciato nella casa di Antibes prima della guerra. Quel pastello l’avevo fatto in un momento di ozio, senza attribuirgli alcuna importanza. Decisamente Picasso non dimenticava mai nulla. (A questo punto credo che sarebbe conforme alle buone maniere scusarmi della mia apparente immodestia. Devo tuttavia ricordare che sto facendo un autoritratto, e gli autoritratti, ad esclusione di rari esemplari impressionisti, sono sempre lusinghieri.)
Durante il breve soggiorno a Cannes Picasso mi invitò a pranzo insieme a mia moglie Juliet. Alla fine del pasto, semplice e casalingo, tirò fuori una bottiglia di vodka e qualcuna di champagne. Non beveva mai, ma prese una coppa di champagne per brindare all’avvenimento, mentre Juliet dava fondo alla vodka. Maya, una bionda adolescente, figlia di Picasso e di una sua antica amante, mise un disco di musica da ballo, e Juliet prese a danzare da sola, miniando e mettendo in caricatura le movenze di una ballerina classica. Picasso, sprofondato nella sua poltrona in muta contemplazione, mi rammentava una delle sue prime acquaforti, con il re Erode che ammira la danza di Salomé. Passammo con Picasso un altro pomeriggio, in giardino, insieme a Maya e a un vecchio amico, un torero a riposo. Scattai delle foto di gruppo, poi tornammo a Parigi

Ormai Picasso non viene più a Parigi. L’ho rivisto durante uno dei miei recenti viaggi nel sud, in occasione di una corrida in suo onore, a Vallauris. Ci siamo stretti la mano. Era attorniato da personalità e da fotografi, ma il suo sguardo penetrante sembrava dire: arrivederci al nostro prossimo incontro, in un momento più tranquillo. Sembra non invecchiare mai; il tempo può ancora aspettare finché non avremo occasione d’incontrarci di nuovo. Contrariamente a molti altri che l’hanno avvicinato, e lui si è sempre mostrato generoso, io non gli ho mai chiesto un piacere, né lui l’ha mai chiesto a me; se tra noi c’era anche solo il sospetto di un favore ricevuto, si cercava subito di ricambiare. Io, forse, mi sdebitavo per orgoglio, Picasso per la sua grande umiltà.

Ballo da Etienne de Beaumont
Picasso e Olga Khokhlova, 1924 ca
Picasso, by Man Ray (1932)
Picasso e Kazbek, 1935
Ady Fidelin, Myriam e Paul Cuttoli, Picasso e Dora Maar
davanti: Man Ray - Antibes, 1937

foto di Man Ray

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lunedì 15 settembre 2014

Picasso visto da Jean Cocteau (1942)

Jean Cocteau visto da Modigliani (1916)


Il diario che Jean Cocteau ha tenuto nel periodo dell’occupazione di Parigi da parte delle truppe naziste è ricco di spunti, informazioni e pettegolezzi.

Altrove la guerra imperversava, Parigi languiva, ma lui, il poeta, il regista cinematografico, il commediografo amato/odiato senza mezze misure (cosa abituale per le persone di genio; del resto: se dopo mezz’ora che parli nessuno si è sentito offeso vuol dire che non hai detto niente d’intelligente...) continua a vivere la sua vivace vita da bon-viveur destreggiandosi tra pranzi, cene e frequentando i salotti di ministri e di ambasciatori.
Questo Diario (1942-1945) è anche ricco di stringate annotazioni su uno dei suoi più grandi amici, Pablo Ruiz Picasso, e della sua compagna Dora Maar.
Le citazioni su Picasso sono tante e qui ne riporto soltanto alcune, le prime in ordine di data, intercalate da alcuni poetici camei: delizioso quello sul “vento” sfuggito a tavola da madame Chambrun: noblesse oblige.
PS: le note a piè di pagina sono di Jean Touzot, il curatore del libro.


Modigliani, Picasso e Salmon fotografati da Cocteau (1916)

Marzo 1942 - Prestigio del giornale. Come vivrebbe la folla senza false notizie?

Mercoledì 11 marzo 1942 - Incontrato ieri Picasso, sotto i portici del Palais-Royal. Era un leone incanutito, un qualcosa schiacciato da una leggera montagna. Quegli occhi che divorano tutto. Mi dice: «Vado in banca per incontrare mia moglie.[1] - Ti chiederà dei soldi. - Certo non me ne darà, mia moglie! La banca! Aspettare! Discutere! Non so proprio come si potrà dipingere con tutto ciò».
Straordinaria battuta di un uomo che non sopporta di perdere un minuto e che tributa ad ogni cosa l’onore di essere utile.
Picasso si è anche ricordato di avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve valere parecchi milioni.
Arrivo di Léonce Rosenberg[3] e naturalmente si parla ancora dell’epoca. Grande stanchezza. Léonce mi dice: «Lei non cambia.» Gli rispondo: «Sono troppo distratto per cambiare». Anche se ci si ribella contro l’universo di Picasso, dovremmo essergli riconoscenti di spingere all’estremo il dramma delle forme e di affrettare così la contraddizione dei giovani. Il primo che uscirà dai suoi tranelli dimostrerà la sua forza. Gli altri o vengono sedotti dalle sue trappole, o girano alla larga.
In arte ci sono solo battaglie o tombe.
Picasso dice: «Si può scrivere e dipingere qualsiasi cosa, perché vi saranno sempre persone che capiranno (e vi troveranno un senso)».
Picasso e suo figlio. Un simile ideatore è uomo e donna. Il risultato sono le opere. Scegliere una donna e, per giunta, farci un figlio, è come se Picasso potesse infondere la vita a un suo quadro. Sarebbe una catastrofe. Suo figlio ha certamente il naso al posto dell’orecchio, un occhio al posto del naso. Ecco la sua anima.
Prima di pranzo, sono andato a portare il discorso su Mallarmé a Delange.[4]
Pare che Sert[5] dica: «Come mai non ci sono libri su di me?» Picasso risponde: «Dato che è tanto ricco, dovrebbe pagare degli autori per scrivere una gran quantità di libri su di lui».
Picasso dice: «Vorrei vedere il disegno di tutti i percorsi di una stessa persona durante la vita. Forse verrebbe fuori il suo ritratto».
Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina è ora la Camera sindacale degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.
Pranzo da Gaffner.[7] Picasso detesta le visite. Vorrebbe che vivessimo insieme, «avessimo lo stesso odore», e che non si dovesse andare da un’estremità all’altra di Parigi per vederci. Ha ragione; arrivavo al punto di preferire gli incontri d’albergo che si ripetono ogni giorno, ogni minuto, alle amicizie sparse qua e là (esempio: Villefranche).
Da Dora. Ho fatto il disegno. Un gran disegno a carboncino su tela. Beviamo del vero caffè e smettiamo di posare e disegnare tra un occhio e l’altro, tra le narici e la bocca, ecc. Penso che il disegno sia bello e le assomigli molto.[8] Cerco di buttarmi nelle linee. Devo fare delle smorfie orribili, e l’insieme delle linee vive senza di me e senza di lei. Dora ha occhi da scimmia (stupendi), un naso di cui una narice fa piegare all’insù il labbro a sinistra, una bocca come un fiore strappato. Arriva Picasso e mi dice che pensa che Éluard desideri che io faccia il suo ritratto. Mi piacerebbe stabilirmi da Dora e fare ritratti come gli artisti di place de la Concorde. Dovrebbero procurarmi solo la tela e i colori secchi. Dove potrei stare meglio che da questi amici, dove la stupidità, la bruttezza, la volgarità, l’attualità, non penetrano da nessuna fessura? Basta entrare da Picasso per provare vergogna di tutto quello che si pensa o si fa superficialmente.[9]
Esiste solo il mestiere. Veramente Picasso dice: «Il mestiere, è quello che non s’impara». Perfezionare il dono del mestiere con una continua osservazione.
Stato a trovare Chanel. «Non ho mai fatto vestiti, dice, ho fatto la moda. Per chi la farei oggi? Non lavoro più perché non ci sono più le belle donne che potrei vestire».
La gente è soffocata dalle inezie. Manca l’esprit de grandeur. I pettegolezzi sostituiscono lo spirito (già detestabile), il denaro sostituisce la ricchezza.
Olga Picasso. Misia mi dice: «Ho sopportato quest’idiota, per liberare un po’ da lei Picasso che adoro». Davanti alle ultime tele di Picasso, gli dice chiaro e tondo: «Sono dei peccati mortali».
Légion d’Honneur: Berthelot[12] mi diceva: «È comoda per i posti in treno. La compri».
Stupidità di Stendhal, l’astio quando parla di Racine, di Shakespeare. Lo spirito ha le sue mode. Pochissimi spiriti vi sfuggono. Baudelaire. E diventa di pubblico dominio.
Il cane di Picasso - un afgano - di una magrezza ed eleganza incredibili. La gente per strada ingiuria Picasso. Credono che sia un cane a cui non si dà da mangiare. Picasso dice: «È il cane più incompreso, e da tutti». Animale favoloso, tutto zampe, ossa e muscoli. Le sue pose minime sono firme ed arabeschi. Rassomiglianza col cane del disegno della camera.
Dopo tre ore di lavoro durante le quali mi esaurisco, la somiglianza viene fuori piano piano. Alle sei mi accorgo che mi sono intirizzito dal principio alla fine della posa. La tensione mi impediva di sentire il freddo.
Picasso parla delle «architetture naturali» a proposito di vecchi palazzi e di vecchi cortili come quello di Dora. Parla cioè delle architetture che si fanno a poco a poco, per necessità. Architettura progettata. Non c’è più niente di umano, di accidentale, di casuale. È il «filo a piombo» che Marais considera responsabile dell’architettura morta.
Asimmetria di un volto (quello di Éluard tra gli altri!). Asimmetria delle belle architetture, - quelle che vivono. Simmetria delle architetture moderne tristi come numeri.
Cena Picasso- Éluard da Zatoste.[15] Riso alla spagnola. Il cane. Picasso dice: «È un cane da grondaia». Il dolore ai reni si è fatto insopportabile. Picasso dice di Jünger (Falaises): «Si serve troppo di quello che sa».[16]
Il gran quadro, Olympia. Una donna sdraiata. Un’altra, ai piedi del divano, suona il mandolino. Questo è il suo regno. Picasso è un re. Può fare ciò che vuole purché non sbagli all’interno del suo registro. Per avvicinarsi al mondo e ai mostri sacri che inventa, bisogna conoscere la sua sintassi e la sua lingua. Altrimenti si è snob o ciechi. Conosco così bene l’una e l’altra che potrei riprodurre a memoria anche i più piccoli tratti con cui raffigura la donna seduta e quella sdraiata.
Picasso racconta ad amici spagnoli, come, tempo fa, avendo visto da lui un immenso disegno, fatto di papiers collés e carboncino, il giorno dopo gli avevo telefonato di venire da Chanel, in Faubourg Saint-Honoré, dove stavo allora, a vedere il disegno. L’avevo riprodotto, senza un errore, su un muro della mia camera. Lo firmò: «Jean ha fatto questo Picasso».
Ci fa vedere le osservazioni inviate da Éluard, copiate da un grafologo al quale[18] aveva dato l’inizio di una lettera di Picasso. È un ritratto impressionante. Tra le altre verità: «l’adulazione lo fa diventare falso». Da Dora, dopo pranzo, termino e firmo il disegno di Éluard. Ho scritto sopra: «Si avvicina con passo felpato. Va via a gambe levate». (La somiglianza.) «Non si muove». (Il mio cuore.)
L’esempio di Picasso. Non perderlo mai di vista. Impero senza limiti. Tutti i giorni distrugge città per sostituirle con altre. Non può toccare nulla senza creare. Un imbrattatele come V. osa insultare quest’uomo e indicare ai giovani delle associazioni la via degli scout del rogo di Savonarola. Leonardo vedeva bruciare la Leda sulla pubblica piazza. Non potremmo allontanare da noi questo calice? No. Chi perde vince.
I lati più neghittosi di noi stessi rischiano di aspirare ad una forma convenzionale di gloria.

Lunedì 23 marzo 1942 - Pranzo con Picasso e Dora.[2] Dopo il pranzo, in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi, andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato delle soffitte le une sulle altre, le une vicino le altre, con angolini e scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale - abitato da mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste di bronzo, tele, oggetti di legni e di latta.

Mercoledì 24 (sera) - Lapidi commemorative di sconosciuti nel quartiere dei Grands-Augustin. Picasso, giungendo davanti alla nuova casa di Dora, ne propone uno: «In questa casa, Dora Maar morì di noia».

Giovedì 26 marzo - Il vero lusso. Picasso. Questa mattina porto la mia tela, preparata col bianco, da Dora. Non è ancora a casa. Da Picasso, lo trovo che sta uscendo. Sua moglie si rifiuta sempre di partire per la Svizzera, per mancanza di denaro. Picasso: «Allora parto io». La incontra in un caffè all’angolo di rue Dauphine. Neppure da Picasso è cambiato niente. Soltanto, è vero lusso. Niente, e la magnificenza. È superbo, vestito come un povero.[6] Sprigiona genio da tutte le parti, come un serbatoio bucato. Ciò provoca getti di capelli grigi, di sguardi, di rughe.

Mercoledì 1° aprile - L’altra sera Marie de Chambrun a tavola si lascia sfuggire un vento. Chambrun:[10] «Lei parla senza dir niente!».


Sabato 4 aprile 1942 - Cena con Misia Sert[11] […] «Le persone che conservano tutto, non hanno niente. Si è ricchi solo sperperando».

Notte dal 4 al 5 aprile 1942 - «Ciò che importa, diceva il caro vecchio Satie, non è rifiutare la Légion d’Honneur, bisogna anche non averla meritata».

14 aprile 1942 - Alla Francia piace uccidere i poeti, poi imbalsamarli e ammazzare i nuovi poeti a colpi di mummie.

15 aprile 1942 - Paul Smara[13] cita una mia vecchia battuta su Goethe: «Se avesse avuto genio, lo si sarebbe saputo». E Gide mi diceva: «È un piffero enorme, delle dimensioni della colonna Vendôme».

Mercoledì 6 maggio 1942 - Nel periodo in cui tutta la stampa germanofila mi insultava, Arno Breker, lo scultore di Hitler, mi ha dato la possibilità di telefonargli sulla linea speciale a Berlino qualora capitasse qualcosa di grave a me o a Picasso.[17] Oggi, Breker è a Parigi. La Francia organizza la mostra. […] Il dramma è la sua scultura. Penso sia mediocre.

18 aprile 1945 - Sono sempre pronto a dare del tu, purché non venga dato a me.

28 aprile 1942 - Cena ieri sera con Lise[14] e gli Éluard. Farò il ritratto di Éluard lunedì prossimo da Dora.

Lunedì 4 maggio 1942 - Stamattina appartamento pieno di fotografi della zona libera. Pranzo con Picasso e Éluard. Dopo pranzo, da Dora, incomincio il ritratto di Éluard mentre Dora fa il caffè e Picasso fa un grande e meraviglioso disegno che raffigura tutta la stanza, con Éluard che posa e io che disegno.

Mercoledì 3 giugno 1942 - Pranzo Picasso. Da Picasso, non c’è più la testa di toro di cui mi avevano parlato. L’ha fatta fondere in bronzo, ma la descrive e la disegna sulla tela bianca dove era appesa con un chiodo. Poiché era fatta con un vecchio manubrio di bicicletta arrugginito e una sella, dimentica di aver partecipato lui al lavoro, e ne parla come di un oggetto magnifico. Avevo indovinato che l’oggetto non aveva più volume di un teschio dei naturalisti.

Giovedì 4 giugno 1942 - Picasso mi dice al telefono, che un articolo di Vlaminck sarà pubblicato contro di lui su «Comœdia».[19] Risposta di Lhoste. Temevo un articolo provocatore e pericoloso. Invece si tratta delle solite stupidaggini. Picasso aggiunge: «Una mano di V. Una mano di Lhoste sopra. Nessuna importanza». Comunque, ho telefonato a Delange di stare attento. Oggi tutto può essere una minaccia.

Sabato 13 giugno 1942 - L’articolo di Vlaminck contro Picasso ha suscitato un disgusto generale. Ci ritroveremo, Signori agenti provocatori, specialisti di cagnare, signori togliti-di-mezzo-che-mi-ci-metto-io. Non dimenticheremo i vostri putiferi. Ogni volta che credete di colpire delle opere, ferite un mucchio di amici sconosciuti e fate in modo che noi ne reclutiamo altri. Questa folla, un giorno, vi farà pagare la vostra stupidità. Questa folla punirà i vostri crimini. Approfittate in fretta del vento dell’imbecillità che tira in vostro favore. Più agirete e più la rivolta sarà profonda. Chi vince perde, chi perde vince. Basta saper aspettare.

[1] Olga Koklova (1896-1955), ex ballerina di Diaghilev, madre di Paul Picasso (1921-1975), curata in una clinica psichiatrica in Svizzera.
[2] La fotografa Dora Maar, compagna di Picasso tra il 1936 e il 1946, era nata in Iugoslavia nel 1909. L’appartamento che aveva affittato si trovava in rue de Savoie, perpendicolare a rue des Grands-Augustins.
[3] Celebre mercante d’arte, proprietario di una galleria.
[4] René Delange, direttore del settimanale «Comœdia», al quale Cocteau, dopo che fu ripubblicato nel 1941, collaborava regolarmente.
[5] Jesé-Marie Sert (1874-1945), pittore e scenografo spagnolo, ricco collezionista, tornava spesso in Spagna e, al contrario di Picasso, figurava come artista ufficiale del regime franchista. Ne era del resto ambasciatore presso il Vaticano.
[6] Il fotografo Brassaï riferisce queste parole di Picasso mentre osserva Cocteau in una foto di gruppo. «Guardate, cos’è che innanzi tutto attira lo sguardo? È la piega dei pantaloni di Jean Cocteau! […] Cocteau è nato con la piega dei pantaloni nella culla. È nato stirato…» (Conversation avec Picasso, Parigi, Gallimard, 1964, p. 159).
[7] Maurice Sachs cita questo ristorante tra quelli «del mercato nero allora di moda» e ne vanta la costata (secondo Gilles e Jean-Robert Ragache, La vie quotidienne des écrivans et des artistes sous l’occupation 1940-1944, Parigi, Hachette, 1988, p. 140).
[8] Questo non fu il parere di Picasso, che rifece, sopra il ritratto a carboncino, un ritratto di Dora Maar ad olio. Dora Maar ci ha detto di essere stata ritratta con un vestito a righe celesti e gialle. Il quadro poi entrerà a far parte di una collezione americana. Quando Cocteau venne a sapere la fine fatta dal suo disegno a carboncino, non osò dire nulla.
[9] Lo stesso 26 marzo, nel suo diario, Roger Lannes scrive: «Cocteau tiene un diario. Lo trovo appollaiato sul suo tavolo che prende appunti su appunti. Mi diverte. Quest’uomo che ha sempre abbondantemente dissipato il suo tempo, la sua vita, il suo linguaggio e i suoi amori, oggi, come tutti noi, revanscisti, quelli che non hanno nulla e accumulato le loro proteste in silenzio, si mette a prender nota della sua esistenza… Mi legge quello che ha scritto su Picasso».
[10] Il conte Charles de Chambrun (1875-1952), diplomatico e scrittore, entrò più tardi all’Académie Française.
[11] Misia Godebska (Pietroburgo, 1872-Parigi, 1950), sposò nel 1893, Thadée Natanson, direttore de «La Revue blanche», e diventò amica di Mallarmé, di Toulouse-Lautrec, di Renoir. Secondo matrimonio nel 1905 con Alfred Edwards, magnate della stampa. Nel 1909, lo lascia per il pittore José Maria Sert che sposerà nel 1920. Divenne l’eminenza grigia dei Ballets russes e intima di Jean Cocteau. La si riconosce nel personaggio di Clémence di Thomas l’Imposteur. Cfr. Misia di Arthur Gold e di Robert Fizdale, Parigi, Gallimard, 1981). Vi si legge a p. 80, un estratto di una quartina di Mallarmé che si è conservata e (p. 347) un commento illuminante del giudizio dato su Olga Picasso.
[12] Philippe Berthelot (1876-1934), segretario generale del Ministero degli Esteri (1920-1921 e 1924-1932), era un amico intimo di Misia Sert.
[13] Paul Smara, esteta, collezionista di larghe vedute.
[14] Anne-Marie Hirtz (detta Lise Deharme, 1898-1982), egeria del Surrealismo, gran dama delle lettere, apriva ancora un salotto frequentato soprattutto dagli scrittori della Resistenza.
[15] Ristorante basco, vicino a Notre-Dame des Victoires.
[16] Ricevendo Jünger nel suo atelier, il 22 luglio 1942, Picasso gli pone delle domande a proposito del suo libro Sugli scogli di marmo e osserva: «Noi due, seduti qui come siamo, negozieremmo la pace questo stesso pomeriggio. Questa sera gli uomini potrebbero accendere le luci». (Ernst Jünger, Primo diario parigino. Diario II, 1941-1943, cit. dall’ed. francese presso C. Bourgois, 1980, pp. 158-159).
[17] Arno Breker, nato nel 1900, conosceva Cocteau fin dagli anni del perfezionamento a Parigi. Il loro primo incontro risaliva all’inizio del 1925, in occasione di un ricevimento al Boeuf sur le toit cui parteciparono «due figli di Renoir, i pittori Fernand Léger e Rudolf Levy, tutti accompagnati dalle mogli». (Arno Breker, Paris, Hitler et moi, Parigi, Presses de la cité, 1970, p. 290). Dopo l’Occupazione, lo scultore riprese i contatti con Cocteau solo durante l’autunno 1940, desideroso com’era «di preservare un clima d’intesa, nonostante gli avvenimenti» (Ibid., p. 292). Senza citare Cocteau, Breker fa valere i buoni uffici che la sua amicizia con il colonnello Spiedel gli ha permesso di espletare: il colonnello comandava allora la piazza di Parigi: «fu a quel tempo che incominciai a aiutare di nascosto le persone minacciate, quali che fossero, che si rivolgevano a me». (Ibid.)
[18] Raymond Trillat.
[19] Maurice Vlaminck (1876-1958), definisce Picasso l’«impotenza fatta uomo» e gli dà dello «Stavisky della pittura». L’articolo, pubblicato su «Comœdia» il 6 giugno 1942, sarà ripreso nel Portrait avant décès (Parigi, Flammarion, 1943).


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mercoledì 25 giugno 2014

Picasso a Mougins


Parigi, 1936. Ai Deux Magots Picasso incontra Henriette Theodora Markovitch, in arte Dora Maar, fotografa, ed è (quasi) subito amore. Piccola, capelli scuri, intellettuale, Dora è l’esatto contrario di Marie-Théresè Walter, l’alta, bionda e giovanissima donna con cui vive dopo essersi separato da Ol’ga Kholkhova, la madre di Paul. Poi arriva l’estate e Dora Maar lascia Parigi per Saint-Tropez, dove i suoi hanno una casa, mentre Picasso, con Marie-Thérèse e la loro figlia Maya, prende casa a Mougins.
Parigi 1937. Ol'ga e Picasso si separano ufficialmente ma non possono divorziare: in Francia valgono le leggi in vigore nel Paese del marito e la Spagna non concede il divorzio, quindi i due saranno obbligati ad essere sposati fino al 1955, l’anno della morte di lei. Ma adesso Picasso ha un nuovo problema: il tribunale ha regalato il castello di Boisgeloup a Ol’ga e lui, privato di uno studio di grandi dimensioni, sui vede costretto ad affittare dal mercante d’arte Vollard la vecchia casa da lui comperata a Le-Tremblay-sur-Mauldre. Sistemate le questioni logistico-immobiliari, Picasso e la sua nuova fiamma possono scendere al Sud e godersi l’estate a Mougins.
Prevista, ecco arrivare una nuova guerra e ogni vita ne è sconvolta. Trascorsa l’estate del 1939 ad Antibes nell’appartamento lasciato libero da Man Ray, il 1° settembre Picasso e Dora sfollano a Royan, dove scendono all’Hôtel du Tigre. Quattro mesi dopo i due cambiano alloggio spostandosi all’ultimo piano della villa Les Voiliers e qui vi restano fino a marzo, quando Picasso decide di tornare a Parigi.
1945. La guerra è finita, Dora Maar è già un ricordo. Picasso ha una nuova compagna, la pittrice Françoise Gilot, ed è con lei che trascorre l’agosto e la maggior parte dell’anno successivo a Golfe-Juan, Antibes, Ménerbes. Dalla loro unione nasceranno due figli (Claude nel 1947 e Paloma nel 1949) e un trauma: nel 1953 la paranoica Gilot lascia Vallauris e ritorna a Parigi, dove Picasso le aveva comperato due piani di un palazzo, portandosi appresso i figli. La sua relazione con un greco conosciuto nella capitale durerà solo tre mesi... poi tornerà per l'estate nel Sud, ospite di Picasso.
A lenire i primi infelici momenti del pittore provvede Geneviève Laporte, ma è un amore di breve durata perché alla Madoura Pottery Picasso ha modo di conoscere Jacqueline Roque, una donna da poco divorziata da André Hutin - chi lo dice un ingegnere, chi un modesto impiegato statale - sposato nel 1946 e al momento residente in Sud Africa, da cui ha avuto una figlia, Kathy, detta Catherine. I due s’innamorano e lei lo segue nella casa di Vallauris.
Nel 1955 all’ospedale Beau-Soleil di Cannes muore Ol’ga Kholklova, fatto che libera Picasso dal vincolo matrimoniale. Lo stesso anno, alla ricerca di un nuovo studio (una costante, questa, di Picasso: una nuova donna, una nuova casa, un nuovo studio) il pittore è sedotto da una brutta villa che include nel prezzo una sua fetta di storia: agli inizi del Novecento Eugéne Tripet, console di Francia a Mosca, regala come dono di nozze a sua figlia Alexandra un terreno sulla collina de la Californie, quella che separa Cannes da Golfe-Juan. Nel 1903 il visconte de Salignac-Fénelon, marito di Alexandra, incarica l’architetto Piquart d’Epernay di progettare una residenza invernale per la coppia, ma - anche a causa della Grande guerra - solo nel 1920 e sotto la direzione di Louis Hourlier, architetto di Cannes, sarà innalzata Villa Fénelon, altrimenti nota come Villa de la Californie. Lo stile eclettico con ricchi ornamenti sulla facciata, opera dello scultore Vidal, le tegole del tetto verniciate di colore verde e un grande giardino di cactus seducono Picasso, che l’acquista nel 1955.
L’anno dopo, complice l’intermediazione di Robert Capa, Picasso accetta di ospitare per alcuni mesi il fotografo David Douglas Duncan, inviato da Life Magazine per fotografare tutti i quadri che il pittore ha sempre voluto tenere presso di sé, molti dei quali fino ad allora sconosciuti. La simpatia subito scattata tra Picasso e Duncan ha fatto sì che il padrone di casa abbia consentito di riprendere alcuni attimi della sua vita privata, scatti pubblicati nel ricercato volume Picasso’s Picassos edito nel 1961 (coedizione italiana: I Picasso di Picasso; stampatori: Imprimerie Centrale, Lousanne, e Officine Grafiche Garzanti, Milano) e ora anche su internet digitando David Duncan Picasso's Picassos.
La presenza dell'artista attira gli speculatori e in breve tempo la collina si riempie di nuovi immobili, col risultato che nel 1959 Picasso e Jacqueline si trasferiscono in un'altra proprietà del pittore, il castello di Vauvenargues.
Il 1961 è un anno decisivo. A causa della costruzione di un condominio che gli impedisce la vista sul mare Picasso abbandona al suo destino la Villa de la Californie (ribattezzato Pavillon de Flore, l’immobile e tutte le opere e l'arredamento in esso contenute saranno ereditate nel 1980 dalla nipote Marina). Lo stesso anno Picasso sposa Jacqueline Roque e insieme si trasferiscono al Mas de Notre-Dame-de-Vie, un casolare a mezza via tra Mougins e Le Cannet, messo in vendita da Loel, il figlio di Benjamin e Bridget Guinness, industriali della birra. Ed è tra queste mura che l’8 aprile 1973, all’età di 91 anni, Picasso trova finalmente pace. La sua, ovviamente.

* * * * *

“Quando sarò morto sarà il naufragio e molti saranno aspirati dal vortice” aveva predetto Picasso.
Il primo a cadere nel vortice è suo nipote Pablo Ruiz, figlio di Paul. Stando a quanto scrive sua sorella Marina in Grand-Père - “un libro che ripercorre la vita di stenti a cui il pittore più ricco del mondo ha costretto la sua famiglia” - il giovane, straziato per la decisione di Jacqueline di estromettere Marie Thérèse Walter, Françoise Gilot e i loro figli Maya, Claude e Paloma dai funerali di Picasso, ingerisce un’intera bottiglia di eau de Javel, più volgarmente nota come candeggina. Muore dopo tre mesi d’agonia e sepolto al Cimitière du Grand-Jas di Cannes accanto a sua nonna Ol’ga. Aveva 24 anni.
Due anni dopo suo padre, Paul Joseph, figlio di Ol’ga, muore all’età di 54 anni in un ospedale di Parigi distrutto dall’alcol e da un cancro al fegato. Co-erede con Jacqueline della preziosa collezione dell’artista, “Paulo” esce sconfitto dalla battaglia legale intentata contro i suoi fratellastri, ora i principali azionisti della Picasso Spa (e a proposito di una “vita di stenti”: una buona guida per avere un’idea degli immensi guadagni commerciali realizzati dagli eredi di Picasso è l’articolo Come funziona Picasso Spa, scritto da Michel Guerrin per Le Monde, tradotto in italiano e messo in rete da Il Giornale dell’Arte numero 323, settembre 2012. Da leggere).
Il 16 luglio 1977, all’età di 90 anni, muore nella sua casa provenzale di Ménerbes, dono di Pablo Picasso, Dora Maar. Nel già citato libro di ricordi, Marina scrive che Dora è “morta in miseria in mezzo alle tele di Picasso che si rifiutava di vendere per conservare tutta per sé la presenza dell’uomo che adorava”. In effetti, che altro ci si poteva aspettare da una donna che ebbe modo di dichiarare: Dopo Picasso soltanto Dio.

Les Deux Magots
La collina de La Californie vista da Cannes
La collina de La Californie vista da Antibes
Picasso's Picassos, edizione italiana

Pochi mesi dopo, 20 ottobre 1977 è la volta di Marie-Thérèse Walter “la musa inconsolabile, impiccata nel suo garage di Juan-les-Pins”. Picasso aveva sempre sostenuto finanziariamente sia lei che la loro figlia Maya, ma sempre si rifiutò di sposarla. E lei, Marie-Thérèse, solo un sogno la teneva in vita: diventare la signora Picasso. Morto lui, morto il sogno…
Finita la saga? Certo che no. “Suicida anche Jacqueline, la compagna degli ultimi giorni, con una pallottola nella testa” sparatasi il 14 ottobre 1986 all’interno del Mas di Notre-Dame-de-Vie. Da allora i suoi resti riposano accanto a quelli di Pablo, Diego, José Francisco de Paula, Juán Nepomuceno, Maria de los Remedios, Cipriano de la Santísima Trinidad (questo il nome completo di Picasso), sepolti nel parco del castello di Vauvenargues, 30 km a nord di Aix-en-Provence.

Castello di Vauvenargues (dal libro di Duncan)

Con la morte di sua madre, Catherine Hutin-Blay eredita sia il Mas de Notre-Dame-de-Vie che la proprietà di Vauvenargues, incluse tutte le opere di Picasso in esse custodite. Ma dopo quel fatidico giorno d’ottobre la casa di Mougins è sempre rimasta chiusa (avendo Catherine scelto di abitare a Vauvenargues) e nel più completo abbandono rimane fino al 2008, quando, nel mese di febbraio, un gruppo di operai entra nella proprietà dando inizio a sostanziali lavori di ristrutturazione. Le cronache ci informano che un anonimo “mercante d’arte belga di circa quarant’anni d’età, innamorato di Picasso e di cui desidera qui conservare l’anima” (come leggo su Nice matin del 10.02.2008), ha acquistato da Catherine l’intera proprietà in cambio di una cifra valutata tra i 13 e i 16 milioni di dollari, somma a cui l’anonimo acquirente dovrà aggiungere una cifra almeno equivalente per riportare il tutto ai vecchi splendori. Come sempre, nuovo proprietario nuovo nome: adesso è L’Antre du Minotaure.

E arriviamo al 2013. Finiti i lavori di restauro, costruite due piscine e un campo da tennis, il “conservatore dell’anima di Picasso” che a Mougins nessuno ha mai visto in faccia fa scoppiare una nuova bomba: L’Antre du Minotaure è di nuovo in vendita. Scrive Marion Marten Perolin per Le Nouvel Observateur del 28.8.2013:

Un mercante d’arte belga molto ottimista mette in vendita l’ultima dimora della figura emblematica dell’arte cubista. Aveva acquistato la proprietà di Picasso situata a Mougins presso Cannes tra i 10 e i 12 milioni di euro nel 2008. Dopo dei lavori di restauro e abbellimento, il prezzo di vendita è fissato all’attraente somma di 220 milioni di dollari, circa 165,7 milioni di euro! Un prezzo astronomico per questa dimora di 800 m2 con 35 stanze distribuite su tre livelli. La proprietà che si estende su 2 ettari comporta tre case in totale, la principale, la casa degli ospiti e quella del guardiano, per 10 camere e 8 sale da bagno. […] Resta da trovare un acquirente all’altezza… Scoprite la dimora in immagini sul nostro diaporama. 

* * * * *

Al village perché di Mougins, seduto davanti a un gustoso piatto di formaggi e salumi che accompagno con del buon rosè, discuto di questo “imperdibile affare” con la simpatica coppia che gestisce il minuscolo negozio di alimentari dove mi sono fermato per il pranzo. Lui, dalla vistosa barba che gli scende sul petto, è originario della Borgogna; lei, bassa e bene in carne, è spagnola; insieme hanno un sogno da realizzare: seguire a piedi il Camino francés che porta a Santiago de Compostella. Auguri sinceri (e che si mettano in tasca l’orario degli autobus).
“È in vendita per soli 167 milioni di euro?” ironizza il mio ospite. Prontamente aggiunge sua moglie: “Beh, se si pensa che qui nel villaggio un modestissimo studio non costa mai meno di 400 mila euro…”. “Un prezzo equo, che ti permette di far morire d’invidia gli amici raccontando di avere come vicino di casa Hollande…” chioso divertito. E si, anche il Presidente in carica è proprietario dal 1986 di una lussuosa villa con piscina, La Sapinière, annidata nel cuore del domaine di Saint-Basile. Argent oblige.
Il rosè è finito ed è tempo di saluti. Alle fotografie della casa che fu di Picasso pubblicate da Le Nouvel Observateur preferisco quelle esposte al Musée de la Photographie, istituzione nata dalla donazione fatta da André Villers alla municipalità di Mougins, la vera mèta di questa gita. Alle sue pareti sono appese tante immagini che riprendono Picasso al lavoro, scatti eseguiti da Clergue, Duncan, Doisneau e Lartigue – oltre che dallo stesso Villers, autore di non banali photo-collages.
Dentro fa caldo e mi affaccio alla finestra: proprio di fronte a me, sul tetto di una casa, si è fermata una colomba che tiene nel becco un piccolo legno che voglio immaginare sia d’ulivo. Che sia un messaggio del reincarnato Picasso per il “mercante d’arte belga di circa quarant’anni d’età, innamorato di Picasso e di cui desidera qui conservare l’anima?”

* * * * *

NOTA - Estraggo dal Fatto Quotidiano web del 28.08.2017: Andrà all’asta la maestosa residenza di Mougins, in Costa Azzurra, dove Pablo Picasso visse i suoi ultimi dodici anni, dal 1961 alla morte nel 1973. Con una base di partenza di 20,2 milioni di euro, come si legge nell’annuncio pubblicato su LuxuryEstate.com. Una storia travagliata quella della mastodontica proprietà immersa nel verde con vista sul mare che solo l’anno scorso la villa era stata venduta per circa 220 milioni di euro. Chissà a quanto se l’aggiudicherà il vincitore dell’asta, che si terrà il prossimo 12 ottobre.
Dopo la morte del pittore, la sua ultima moglie, Jacqueline, che non aveva più toccato nulla - neppure i suoi occhiali, rimasti dove lui li aveva lasciati - si sparò nella villa, togliendosi la vita, nel 1986. Per oltre 30 anni la casa rimase abbandonata, contenendo opere dell’artista dal valore di circa un miliardo di euro. Tra il 2007 e il 2008 la villa fu acquistata e ristrutturata a opera dell’architetto belga Axel Vervoordt. I lavori coinvolsero oltre cento operai che, sotto la sua guida, trasformarono la dimora in una proprietà di lusso contemporanea e preziosa. Oggi la villa si presenta con un arredamento moderno e ricercato, ma la struttura mantiene intatte le caratteristiche di quando Picasso trovava ispirazione nelle sue stanze.
Fu proprio l’artista a ingrandire la casa padronale con uno studio spazioso in cui lavorare, spesso di notte, senza distrazioni. Oggi gli interni contano circa 1.800 metri quadri, divisi fra l’edificio principale, quello per gli ospiti e un altro nel giardino, accanto alla bellissima piscina, dove sono ospitati un centro benessere, con sale massaggi e bagni turchi, spogliatoi e palestra. Gli otto acri di terreno che circondano la proprietà sono stati ugualmente restaurati nel rispetto dell’originale, con ulivi secolari, roseti, gradini in pietra, fontane e terrazze. La sapiente e lussuosa opera di ristrutturazione, aveva portato il vecchio proprietario a vendere la villa alla fine del 2016 per circa 220 milioni di euro a un finanziere del Brunei. Non sono note le cause per cui la proprietà sarà battuta all’asta.

Notizie più precise le fornisce Elisabetta Rosaspina (La Lettura #303, 17 settembre 2017): Allinizio di quellanno [2008] però qualcosa di era mosso: erano apparsi degli operai e iniziati i lavori di riabilitazione. Si parlava di un tycoon belga o olandese che aveva acquistato la casa per 10 o 12 milioni di euro. L'architetto Axel Vervoordt ha diretto la ristrutturazione per due anni, ma non si è mai visto insediarsi il padrone della casa, ribattezzata «LAntro del Minotauro». I costi eccessivi e un divorzio inatteso, si dice, hanno affondato il progetto fra i debiti. Ma allinizio di questanno il sindaco di Mougins annuncia che il finanziere di origini srilankesi Rayo Withanage, socio daffari del principe Abdul Ali Yil Kabier, della famiglia reale del Brunei, è il nuovo titolare della tenuta, destinata a iniziative benefiche. Nove mesi dopo casa Picasso è ancora in cerca del suo castellano.

Tutte le informazioni per lasta si trovano su LuxuryEstate.com e Residence365.com, con tante fotografie, interni inclusi. Chi è interessato si faccia avanti, ma in fretta perché ottobre s’avvicina.


LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI 















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