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mercoledì 11 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (1 di 4)


John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 196-205

[…] Non ricordo come ci siamo incontrati. Nonostante le sue preoccupazioni riguardo alla posizione sociale, Don riusciva a sembrare buffo qualsiasi cosa facesse. Noi ridevamo come matti tutte le volte che ci si vedeva.
La mia mancanza di orientamenti di carattere sociale gli sembrava deplorevole. Era deciso a farmi incontrare la gente giusta. Nonostante tutto gli sarò eternamente grato di avermi presentato a Gerald e Sara Murphy.
Deve essere avvenuto a Parigi. Avevo già perduto un bel po’ del mio appetito per la Ville Lumière, anche se amavo i concerti, i musei e il tè agli Championnière, rue de Clichy. Nella primavera del 1922 già scrivevo ad Arthur McComb che conoscevo Parigi troppo bene. «I ricordi mi fanno le boccacce da tutti gli angoli. Non mi rammento se si tratta di quest’anno o dell’anno precedente. Si può a mala pena sopportare il presente, ma incontrare a ogni passo il passato col suo eterno specchio infernale è insopportabile . . . una cosa che detesto.»
L’incontro con Don Stewart a Parigi significò vedere la città in una nuova fantasiosa visuale tipo commedia di Madison Avenue: Mr. and Mrs. Haddock Abroad. Quando mi condusse dai Murphy mi diede l’opportunità di conoscere qualcosa di ben diverso dalla mischia dei letterati espatriati che gravitava intorno a Montparnasse, dei quali già avevo orrore.

Naturalmente Hemingway costituiva un’eccezione, così come Cummings. In quel tale universo privato che stavo confezionando a mio uso, la gente di lettere in genere, in particolare il Greenwich Village e gli esuli di Parigi, stavano fra le categorie scomunicate.
Il loro atteggiamento verso la vita mi dava la nausea. Ma dal momento nel quale cominciavo a stringere amicizia con uno o con una di loro, immediatamente costui o costei diventava l’eccezione unica e intoccabile.
Don, Ernest ed io avevamo già cominciato a frequentarci con regolarità nel periodo nel quale conobbi i Murphy; credo comunque che Ernest ed io ci siamo conosciuti l’anno nel quale è stato pubblicato l’Ulisse,[1] mentre era a Parigi per il «Toronto Star».[2]
Ricordo vagamente una colazione con lui e con Hadley al Lippe, (sic!) prima che nascesse Bumby; Ernest parlava splendidamente di una qualche conferenza internazionale alla quale aveva recentemente partecipato.[3] Quando era giovane, possedeva un acume tale per le cose politiche che non incontrai mai più qualcuno che lo uguagliasse. La sua conoscenza del linguaggio delle palestre di boxe e dei posti di polizia, che aveva acquisito a Kansas City e a Toronto, gli aveva fornito quel mezzo di comunicare diretto il quale dava alle sue storie il tono della verità. Tutto era messo a fuoco con estremo nitore. Io trovavo molto stimolanti i suoi giudizi aspri su Clemenceau, su Lloyd George e su Litvinov. Ci trovavamo perfettamente d’accordo nell’avere per Liebknecht e per Rosa Luxemburg una specie di culto geloso. Deve avermi mostrato un breve pezzo,[4] che in seguito incluse in Our Time,[5] perché ricordo di averlo fin da quel momento giudicato scrittore dotato in alto grado del possesso della lingua inglese.
Comunque, in qualsiasi circostanza di tempo sia avvenuto questo nostro incontro, ne parlammo parecchio insieme, nel tentativo di ricostruirne gli estremi, riandando nella memoria a un tempo nel quale nessuno di noi due aveva neppure la minima idea che sarebbe divenuto in seguito ciò che, nonostante le nostre ironie, il povero Sherwood Anderson qualificava «personaggio mondiale». Un primo incontro fra noi può darsi fosse già avvenuto, a Schio, nel maggio 1918, quando Ernest era appena arrivato in Italia con la 4a Sezione Ambulanze della Croce Rossa, ed io stavo per lasciare la 1a Sezione di Bassano in un mare di guai. Fairbanks ed io avevamo spesso il compito di portare i feriti a una base ospedaliera vicino a Schio e il nostro incontro con la 4a Sezione può essere avvenuto appunto in uno di questi viaggi. Ernest ed io ci ricordavamo vagamente l’uno dell’altro.
Fu soltanto nel 1924, quando Hem, come eravamo in molti a chiamarlo, e Hadley vivevano nella segheria della rue Notre-Dame-des-Champs,[6] che iniziò fra noi due quel gioco reciproco di convivenza che si protrasse nelle nostre vite. Hadley mi fu simpatica fin dal primo incontro. Era nato Bumby.[7] Era stato durante una delle mie corse a Parigi da un treno all’altro.
Con Hem m’incontravo di tempo in tempo alla Closerie des Lilas all’angolo di Saint-Michel con Montparnasse a bere delle bibite innocue come vermouth-cassis mentre si parlava delle difficoltà di metter sulla carta i propri pensieri; tutti e due stavamo leggendo il Vecchio Testamento. Ci leggevamo dei brani a vicenda. I nostri passi preferiti erano il canto di Deborah, il Libro delle Cronache e il Libro dei Re.[8]
Era uscito In Our Time ed io lo sostenevo a spada tratta. Appoggiavo le mie asserzioni sulla constatazione che Hem, con i suoi acuti, brevi periodi, secondo il linguaggio telegrafico o alla King James Bible, sarebbe diventato il più grande stilista della lingua americana.
Doveva essere primavera, perché eravamo seduti in un piccolo giardino triangolare fra i due boulevards e ricordo che mi aveva divertito il fatto che, a dispetto del nome, un vero giglio fioriva nella Closerie.
Poi siamo tornati, attraverso la folla delle cinque, alla segheria, per aiutare Hadley a fare il bagno a Bumby. Bumby era un bambino grasso, pieno di salute, affabile, e si divertiva di tutto. Lo si metteva a letto e dopo lo lasciavamo alle cure di una piacente, vivace contadina francese che veniva alla segheria a questo scopo, e noi tre uscivamo per cena. Aiutare a mettere a letto i figli degli amici prima di uscire per la cena era diventato uno degli aspetti piacevoli della società dei giovani in America; io mi ci sono sempre divertito. Gli uomini, quando hanno accanto una donna, diventano meno egoisti. Allo stesso modo, sia i giovani uomini che le giovani donne, quando hanno da prendere cura dei loro marmocchi, finiscono per essere più autentici, meno sussiegosi.
Fin dal principio Hem fu sempre terribilmente predisposto agli incidenti. Non ho mai conosciuto un uomo che abbia provocato tanti danni quanto lui alla propria carcassa. È di questo periodo l’episodio del lucernario dell’abbaino esterno al suo appartamento, che gli cadde in testa e gli provocò un trauma cranico e un taglio nel cuoio capelluto per cui fu necessario un ricovero in ospedale di alcune settimane.[9] La cicatrice gli rimase per tutta la vita.
Quando non c’era l’incidente, c’era il mal di gola. Era come uno di quegli atleti professionisti i quali, nonostante siano forti come tori, hanno sempre qualcosa. Mi sono costantemente difeso dal battermi alla boxe con Hem; il fatto che io porto gli occhiali ha offerto una buona scusa al mio desiderio di non competere con lui in questo settore.
Io non sapevo neppure andare in bicicletta. Hem andava matto per le corse in bicicletta. S’infilava in un maglione a righe come quello dei corridori del Tour de France e pedalava lungo tutti i boulevards esterni con le ginocchia all’altezza delle orecchie e il mento fra i manubri. Io trovavo tutto ciò un po’ sciocco, ma a quel tempo Hem aveva il gusto di certe bambinate.
Aveva una sfumatura di spirito, evangelica, che lo spingeva a cercar di convertire i suoi amici a tutte le sue varie manie. Seguirlo alle Sei Giorni è stato per me un divertimento; la Sei Giorni al Vélo d’Hiver era una buffa storia. Gli eventi sportivi in Francia, per il loro aspetto piuttosto comico, mi divertivano molto. Facevamo la spesa in botteghine e spacci di una di quelle stradette dove ci sono i mercati che piacevano tanto a tutti e due: vino, formaggio, pagnottelle croccanti, pâté e qualche volta pollo freddo; ci sedevamo in galleria; Hem conosceva tutti i dati tecnici, e vita morte miracoli dei corridori. Il suo entusiasmo era contagioso, ma tendeva a fare della cosa un affare serio, mentre per divertirmi, a me bastava bere, mangiare e guardare.
Di tanto in tanto gli veniva in mente che noi due, nella nostra qualità di scrittori di fama internazionale, eravamo rivali; allora diventava silenzioso; oppure capitò anche che mi imponesse freddamente di non scrivere mai niente sulle corse di bicicletta; questa era zona sua. Lo rassicuravo che scrivere di sport non era il mio genere, e che d’altronde Paul Morand aveva già preceduto tutti in La Nuit des Six Jours.[10]
Poteva anche darsi che fosse proprio perché avevo letto Paul Morand che lo spettacolo mi divertiva. Come Hem, anch’io mi sforzavo di cogliere gli eventi e di portarli direttamente sulla pagina; però continuavo ad avere il dubbio che fosse la vita a copiare l’arte, e non viceversa. Hem forzava la povera Hadley a restare seduta là tutta la notte, ma io, quando mi veniva sonno, me la battevo e andavo a dormire a casa mia. Fin d’allora era duro con le sue donne. Eppure sono convinto che sia stato più un costruttore che un distruttore. Quando le lasciava, erano più agguerrite per la vita di quanto non fossero quando le aveva incontrate. Senza dubbio, nei giorni della giovinezza, la versatilità del suo carattere, il suo temperamento estroso avevano sugli altri, che gli capitassero intorno, un effetto stimolante. Nel periodo della nostra amicizia, mi permise un confronto con la vita sportiva che, senza di lui, non avrei mai potuto sperimentare.
Fin d’allora era irritabile. Provava pietà per se stesso. Una delle sue angosce era il non avere avuto una educazione da College. Io gli dicevo che invece questa era una grande fortuna. Che pensasse a tutta la fatica in meno che aveva dovuto fare per dimenticare la cultura della scuola. Gli dicevo, supponiamo che tu fossi andato a Yale e che avessi inciampato nella Skull and Bones come Don Stewart. Rideva e ammetteva che sarebbe stata una rovina.
Hem aveva una vista eccezionalmente buona. La fredda mira del cacciatore. Mi sembrava, in quei giorni, che vedesse cose e persone senza il colore che loro donano i sentimenti o la teoria. Tutto viveva per lui entro una fredda chiara luce bianca, la stessa luce che pervade i suoi migliori racconti. A Clean Well Lighted Place,[11] per esempio.
Aveva la medesima vista acuta riguardo alla pittura. Può darsi che Gertrude Stein, che era tutt’altro che ignorante anche in questo settore della cultura, lo avesse aiutato a sviluppare questa acutezza.
Riconosceva a vista l’eccellenza del colore e del disegno. La Scuola di Parigi era già fin d’allora abbastanza piena di mestieranti da dare la nausea, ma Hem non si lasciava mai ingannare. Si trattasse di politica o di letteratura o di pittura, metteva a punto la situazione con una sola parola di quattro lettere.
Ricordo perfettamente quando comperò The Farm di Mirò[12] - credo sia stato l’ultimo quadro oggettivo che Mirò abbia dipinto - perché ho dovuto correre da tutte le parti per mettere insieme i soldi. Ci si prestava continuamente danaro a vicenda. Aveva saputo che poteva portarselo via per duemila o forse per tremila franchi (una cifra terribilmente piccola in dollari, al cambio allora corrente) e aveva la febbre al pensiero che qualcuno glielo soffiasse. Si portò a casa, alla segheria, il quadro, trionfante. Resta uno dei più bei quadri di Mirò.
Mi domando che valore abbia oggi. In genere, sulla pittura, eravamo sempre d’accordo.
L’entusiasmo di Hem era contagioso. Sebbene io avessi una inveterata inibizione contro qualsiasi gioco, riuscì a condurmi alle corse dei cavalli. Hem dichiarava di vincere grandi cifre e una primavera lo seguii a Longchamps e a Auteuil. Io, come al solito, badavo più allo spettacolo che al danaro. Degas mi aveva insegnato, attraverso i suoi quadri, ad amare i cavalli da corsa e le corse.
Harold Stearns ci passava le informazioni. Harold era un tipo straordinario. Dopo essersi fatto una reputazione come giornalista nel «The New Republic» e in altri giornali liberali e dopo aver pubblicato uno dei primi saggi di maggior successo sulla civiltà americana, era venuto a Parigi.
A Parigi aveva smesso di scrivere e aveva lasciato andare tutto. Perfino il piacere del bere e delle donne sembrava si fosse in lui attenuato. Manteneva un certo fascino. Restava un parlatore piacevole. Tirava avanti, pateticamente, la vita, frequentando i bar e raggranellando i quattro soldi che gli servivano vendendo informazioni sui cavalli ai turisti americani che avvicinava nei vari caffeucci dove era di famiglia.
C’era una corsa ad ostacoli in uno degli ippodromi che si annunciava molto elettrizzante, e Harold ci aveva indicato un cavallino che doveva essere un campione eccezionale; la valutazione al totalizzatore era bassa, trenta a uno, o qualcosa di simile. Agli amici non faceva mai pagare le informazioni, e questa volta giurava su tutto che avremmo sbancato.
Hem ed io riuscimmo a mettere insieme qualche centinaio di franchi e ci avviammo verso l’ippodromo. Harold aveva combinato con un ragazzo di scuderia che ci fosse permesso di dare un’occhiata in privato al cavallo. Era un piccolo baio scuro, piuttosto nervoso. Il fantino ci confidò che puntava su lui tutte le sue risorse. Sbirciammo il cavallo, accarezzammo il suo naso, ci prodigammo in francese e in inglese nel dire un bel po’ di sciocchezze di carattere tecnico. Al totalizzatore il nostro morale era al massimo: facevamo già progetti sul come spendere la vincita, una parte della quale per un pantagruelico pranzo al Foyot.
Il cavallo era senza dubbio un buon saltatore, ma alla rivière mancò, disarcionò il fantino e partì come una palla di fucile nella direzione sbagliata. Prima che lo potessero riprendere saltò un certo numero di ostacoli a ritroso. La corsa fu un disastro. Noi si moriva quasi dal ridere. Per conto mio, ritornato a Parigi ero più che mai convinto che il gioco è una pazzia. Incontrandoci di nuovo all’Henry’s Bar, Harold fece finta di non vederci.
Nessuno di noi due poteva permettersi di perdere una simile somma, eppure tutti e due non riuscivamo a far altro che ridere. Hem aveva appena rinunciato al suo incarico di corrispondente o stava per farlo. Campare con la sola attività di scrittore significava certo andare incontro a tempi duri. L’edizione dell’Our Time che Robert McAlmon aveva fatto uscire a Digione, gli aveva procurato successo nei circoli recherchés ma neppure un soldo. La sua unica sorgente di mezzi era lo scrivere poesiole spinte per una rivista tedesca, il «Der Querschnitt»; non è difficile cogliere il lato scherzoso del nome.

NOTE
di Giancarlo Mauri


[1] Ulysses ¦ by ¦ James Joyce ¦ Shakespeare and Company ¦ 12, Rue de l’Odéon, 12 ¦ Paris ¦ 1922. Sul frontespizio si legge: Printed for Sylvia Beach by Mauruce Darantiere at Dijon, France. - Dal 9 gennaio 1922 Ernest e Hadley abitano al 74 di rue du Cardinal Lemoine, terzo piano.
[2] L’8 gennaio 1920 Ernest prende il treno per Toronto e si stabilisce a casa Connable - 153 di Lyndhurst Avenue - e dopo neppure una settimana chiede a Mr Connable di trovargli un posto nel principale quotidiano dell’Ontario, il Toronto Star, che pubblica un’edizione quotidiana e una settimanale. Connable lo presenta a Arthur Donaldson, capo dell’ufficio pubblicità di entrambi i giornali, che lo porta alla sede di 20 King Street West e lo presenta a due redattori. Dopo aver dichiarato di aver lavorato al Kansas City Star, un modello per i giornalisti del tempo, gli propongono un lavoro pagato a righe per la prima edizione del settimanale. Il 27 dicembre 1923 EH si licenzia dal The Toronto Star Weekly.
[3] Si veda l’articolo intitolato Picked Sharpshooters Patrol Genoa Streets di Hemingway, uscito sul The Toronto Star Weekly del 13 aprile 1922 (Cfr.: La Conferenza di Genova, in By-line, pp 35-37).
[4] The Little Review “Exiles’ Number”, n. 9.3, Spring 1923, è interamente dedicato agli scritti di Statunitensi “attualmente in esilio in Europa” (sic!). Hemingway vi compare con alcuni brevi racconti, poi inseriti in our time.
[5] Con tiratura di 170 copie, in our time - tutte lettere minuscole - esce nel 1924 per conto della Three Mountains Press, Paris. Le Tre Montagne che danno il nome alla Casa editrice sono Montmarte, Mont Sainte-Genevieve e Montparnasse.
[6] Il 10 febbraio 1924 Hemingway scrive ad Ezra Pound d’aver trovato un appartamento semi ammobiliato sopra una segheria al 113 di rue Notre-Dame-des-Champs. Ezra Pound abita non molto lontano, al 70bis. Si tratta della segheria di Pierre Chautard, il padrone di casa e l’appartamento degli Hemingway è al piano superiore. Lo lasciano agli inizi del 1926, quando partono per Schruns (al rientro, gli Hemingway alloggiano all’Hotel Vénétia, Boulevard de Montparnasse).
[7] Il 10 ottobre 1923 a Toronto nasce John Hadley Nicanor detto Bumby: Hadley come la madre e Nicanor in onore al torero Villalta.
[8] Hemingway ricercava tra le pagine della Bibbia i titoli da dare ai suoi racconti: un’ottima operazione di marketing, visto che si rivolgeva per lo più ad un pubblico anglo-americano.
[9] Qui Dos Passos sbaglia: il 10 maggio 1927, con rito cattolico nella chiesa di Passy, Hem sposa la 32enne (4 anni più di lui) Pauline Pfeiffer e i due vanno ad abitare al 6 di rue Férou, vicino alla chiesa di Saint-Sulpice. È in questa casa che nel marzo 1928 avviene l’incidente del lucernario caduto in testa a Hemingway, danno riparato con sette punti di sutura.
[10] Storia inserita nella raccolta Ouvert la nuit, pubblicata da Gallimard nel 1922.
[11] Un posto pulito, ben illuminato, pubblicato la prima volta nel 1933 da Scribner’s Magazine.
[12] La fattoria, olio su tela, 1921-1922, oggi conservato nella National Gallery of Art di Washington che lo ha ricevuto in donazione da Mary Welsh, l’ultima moglie di Hemingway.

sabato 15 novembre 2014

27, rue de Fleurus




L’annuale blitz a Parigi è ormai alle spalle.
Sono rientrato con tante fotografie e un nuovo piacevole ricordo: lo scorso 6 novembre, attraversato il giardino del Lussemburgo, ho preso in direzione di rue de Fleurus, dove al civico 27 vi era la residenza dei fratelli Leo e Gertrude Stein, poi diventava la casa matrimoniale (Leo se n’era andato nel 1913) di Gertrude e di sua “moglie” Alice Babette Toklas.
Un’attrazione fatale, la mia, verso questo portone, con la lapide che ricorda il tempo che fu. Un portone varcato da tutta l’intellighenzia dei primi decenni del secolo scorso e dove, in una dependance isolata, separata dalle stanze da letto, i fratelli Stein prima, Gertrude e la Toklas dopo, tenevano appesi al muro i loro Cézanne, Matisse, Renoir, Picasso e altre future ricchezze economiche portate a casa per pochi soldi e …che mai nessuno pensò di rubare, tanto erano incompresi.
E poi le serate con Hemingway e tutti gli scrittori della sua generazione, che non era di certo “perduta”, frase della Stein sempre raccontata in maniera equivoca dai troppi che scrivono senza saper leggere e dai taglia-incolla di mestiere.
Ma ogni volta, arrivato davanti al portone non potevo far altro che scattare l’immancabile “nuova” fotografia e andarmene in cerca di altri ricordi.

La mattina del 6 tutto cambia: mentre sono pronto all’ennesimo scatto ecco arrivare un’auto che si ferma in mezzo alla strada e davanti al portone. Ne scendono due donne in tenuta da imbianchino e rapide prendono a scaricare i pesanti recipienti del colore, appoggiandoli al muro.
Mentre una delle due continua a scaricare il veicolo, l’altra pigia un tasto del citofono, si presenta, le aprono.
Rapido m’infilo nell’apertura del cancello, ritrovandomi nell’androne d’ingresso e davanti ad un armadio muscoloso con tanto di distintivo “da sceriffo” sul petto.
Profilo basso e subito provo a chiedergli il permesso di poter guardare dalla vetrata di fondo il giardino agognato, ma proprio in quel preciso istante il muscoloso guardiano ha cose più importanti da fare: si porta all’orecchio il cellulare e inizia a parlare.
Nello stesso istante vedo uscire da una porta laterale una giovane donna: punto su di lei, le dico che sono uno scrittore (ehm ehm) e che intendo scrivere della Stein e dei suoi amici artisti.
La ragazza sorride e mi risponde: lei parla inglese?
Ripeto la richiesta nella lingua voluta, chiedendo la cortesia di poter accedere al mitico giardino.
“Perché no?” risponde lei, aprendomi la porta del desiderio.
Ed eccomi li, tutto solo, davanti alla casa e al salone a suo tempo preso in affitto dagli Stein - però i quadri adesso sono ben custoditi in un museo di New York.
Scatto un po’ di foto, poi mi decido a lasciare quel luogo a lungo sognato.
Un breve momento di gioia che è valso tutto il viaggio.

Ripresomi, ho deciso che quello doveva continuare ad essere un giorno speciale, in cui potevo strafare, ed ho subito ripreso a camminare sulle orme di Camille Claudel, di Picasso, di Joyce e (irrinunciabile) di Hemingway, regalandomi un meritato riposo al tavolino de L’Époque, una piccola ed economica trattoria dirimpettaia al 74 di rue du Cardinal Lemoine, la prima casa parigina di Ernest.

E poi via, verso la stanza dove morì Paul Verlaine, locale in seguito affittato da Hemingway per farne il suo studio di lavoro.
Di certo non poteva mancare il consueto giro tra i librai di strada, dove ho trovato alcune biografie su Picasso, prime edizioni da me inutilmente cercate su internet, portate a casa per pochi euro ciascuna.
Una giornata piena, vissuta con gioia, come dovrebbero essere tutte. Sempre.

PS: qui sotto ho inserito alcune fotografie depoca, riprese da internet o da libri di mia proprietà, utili a ricostruire l'avvicendarsi (o il diminuire, dopo la partenza di Léo) delle tele appese alle pareti.


© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri

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27, rue de Fleurus nelle parole di Alice B Toklas
27, rue de Fleurus raccontato da Dan Franck

Jardin du Luxembourg



27, rue de Fleurus





Lo stesso angolo in tre scatti: 1905 (con Leo Stein),
dopo il 1920 e 2014








Alice B Toklas e Gertrude Stein, by Man Ray, 1922

Alice B Toklas e Gertrude Stein, by Man Ray, 1922
Place de la Contrescarpe

74, rue du cardinal Lemoine
La prima casa di Hemingway a Parigi vista
dal numero 81 di rue du cardinal Lemoine

 Paul Verlaine ed Ernest Hemingway hanno coabitato,
in tempi diversi, la stessa stanza


giovedì 18 settembre 2014

Picasso visto da Antonina Vallentin (1939-1944)






Antonina Vallentin. Storia di Picasso. Giulio Einaudi editore 1961, pp. 350-377.
Titolo originale: Pablo Picasso. Editions Albin Michel, Paris, 1957.
Traduzione di Renzo Federici

XIV.    La deriva dell’umano. 1939-1944

Per il 1939 è prevista una di quelle mostre retrospettive che si risolvono in un’apoteosi per un artista. Il 15 novembre dovrebbe aprirsi al Museo d’Arte Moderna di New York la mostra intitolata «Quarant’anni della sua arte», destinata a consacrare definitivamente la fama di Picasso negli Stati Uniti. L’Art Institute di Chicago collabora con New York; tutti i musei americani, tutte le gallerie, tutti i collezionisti hanno inviato opere; molti quadri di collezionisti europei sono già arrivati, altri, nell’autunno, sono in viaggio per gli Stati Uniti. La mostra è stata preparata da tempo. Picasso ha trovato nel direttore del Museo d’Arte Moderna, Alfred H. Barr jr, che prepara il catalogo, il suo interprete più scrupoloso e penetrante, e il lavoro di Barr servirà di guida a tutti i lavori del genere che verranno in seguito. Picasso stesso ha spedito molti quadri di sua proprietà, anche certi dai quali si separa solo a malincuore. Certe sculture sono state fuse in bronzo apposta per la circostanza. Ma al momento dell’inaugurazione certi quadri non sono ancora arrivati: l’Europa è precipitata nella guerra.
Sempre in questo anno muore sua madre. Muore a ottantatre anni, lontano da lui, a Barcellona, dove Picasso, per la posizione politica da lui assunta, non può andare a trovarla. Sono passati più di quindici anni da quando ha dipinto il suo ultimo ritratto, raffigurandola ormai con l’aria di vecchia signora, maestosa e tuttavia con lo sguardo pieno di vivacità e penetrazione. Picasso era rimasto in corrispondenza con lei. Le scriveva meno spesso di quanto lei avrebbe voluto, ma la sua fede nel figlio non era diminuita e considerava il suo clamoroso successo come qualcosa di debito. Un legame profondo, fatto di risonanze lontane, di tratti comuni del carattere, esisteva tra la vecchia signora e Picasso e alla sua fedeltà di figlio spagnolo andava congiunta la gratitudine per averlo sempre sostenuto. Il suo dolore, come tutti i suoi sentimenti profondi, è muto e anche coloro che gli sono vicini non sanno se gioca d’astuzia con la pena o se in lui, abitudinario com’è, la lontananza ha attenuato la sofferenza.
Nell’estate del 1939 il Sud l’attira, come sempre. Ormai ha tutte le comodità per muoversi. Dispone di una macchina e di un autista, Marcelle, che d’altronde diventa un personaggio importante nella sua vita. Il personale che lo serve, come le cose di cui si serve, giungono ad essergli indispensabili per via di durata. Una volta entrati nella sua vita quotidiana sembrano prendervi un posto immutabile, di cui lui stesso si irrita a volte, senza tuttavia riuscire a rompere un legame che spesso è nato solo dal caso. Anche la sua sistemazione di quest’anno ad Antibes, sistemazione che avrà più tardi tanta importanza nella sua vita, si deve al caso: è Man Ray che gli consegna la chiave di un piccolo appartamento nel palazzo Alberto I.
Picasso sgombra i mobili dalla stanza più grande per trasformarla in studio. È preso allora da una sorta di impazienza, dal desiderio di cominciare un’opera di grande mole. Forse, grazie alla costante sensibilità che ha per il suo tempo, avverte che la quiete necessaria al lavoro ormai gli è misurata, che le ore di sollievo saranno ancora poche. Scosso dal suo recente lutto, è ancora più sensibile a quello che accade intorno a lui. Per spiegare il suo accanimento nel lavoro bada a ripetere a Sabartés: «È per non buttarmi dalla finestra».
Si avverte, nel suo fare, anche quel senso di fretta precipitosa che c’è nell’uomo inseguito. Se questa effettiva disperazione non diventa totale, al punto da paralizzare le sue facoltà creative, è per un sentimento assai simile a quello di chi sta annegando ma sa di poter contare su un colpo di reni così forte da poter risalire alla superficie.
Non ha ancora deciso il soggetto quando tende su tre pareti dello studio una grande tela che può essere tagliata successivamente. «Picasso vuole dipingere quello che gli passa per la testa senza doversi tenere alle dimensioni di un telaio», spiega Sabartés.
Ha assorbito profondamente l’atmosfera del luogo prima di mettersi al lavoro. A Sabartés fa vedere tutti i punti della costa che lo incantano, le mura che piombano bruscamente in mare, come il bastingaggio di una gigantesca nave di pietra, dominata dalla massa imponente del Castello Grimaldi, di cui il sole tinge di biondo i muri austeri. Per quanto sia fanatico del gran sole, questa volta non è il fulgore del giorno ad attirarlo, ma una scena notturna: come se queste notti d’estate, con la loro ricchezza di colore, gli apparissero più preziose delle rivelazioni della luce piena. Una scena di genere gli serve da punto di partenza. Nel porto di Antibes la notte si pesca a fiocina alla luce di fanali. Sul molo due ragazze guardano i pescatori al lavoro. Una, che regge una bicicletta, ha i tratti deformati di Dora Maar, l’altra ricorda Jacqueline Breton-Lamba. «Era caldo la sera che si fece il giro del porto, - racconta Dora Maar, - e si erano comprati dei coni gelati». La ragazza con la bicicletta lecca infatti con la lingua aguzza un doppio cono. Ma scena di genere ed aneddoto sono per Picasso solo pretesti per trasferire nel suo mondo una fantasmagoria notturna. Sullo sfondo del cielo d’un blu vellutato naviga un’enorme luna rossiccia che lascia filtrare la sua luce come tra due ciglia. Le torri e i tetti delle case si profilano violetti su questo caldo cielo d’estate; il mare smalta di un azzurro verde il molo azzurro, ma una murata di esso luccica verde sotto la luce artificiale; dal fondo della piccola barca, di un azzurro cupo sul viola, emergono dei pescatori come pallidi fantasmi. Gli esseri umani e gli oggetti non sono più che segni di un baluginare di forme in fondo a una notte di luna, nella quale le ombre rimaste trasparenti si urtano alla forza esplosiva delle luci. La deformazione che riscatta la sagoma volgare della bicicletta con le sue curve ondeggianti, le curve delle braccia, dei capelli, delle vesti, tutto prende un senso particolare, tutto sembra ridotto a una durata limitata, a una realtà appena intravista e già sul punto di dissolversi.
Chi ha vissuto le notti di questo agosto del 1939 nel Sud, le ricorda come struggenti di dolcezza e fulgore. La Péche de nuit à Antibes (New York, Museum of Modern Art), come inquadrata, ai due lati, dalla tela bianca, che funge da riflettore, prende uno splendore di cristallo.
Picasso ormai lavora accanitamente; lavora contro il tempo. I frequentatori del caffè di Place Victor-Massé commentano con angoscia crescente le gravi notizie del giorno. Ci si aggrappa alla speranza come se la quiete immobile di queste notti d’estate escludesse ogni mutamento. Picasso dipinge, quasi suo malgrado, un mondo stabile già pronto a saltare in aria. È solo una scena, quanto mai tranquilla, in un angolo del porto: in realtà è già il cataclisma del mondo che si preannuncia.
Le notizie si fanno sempre più allarmanti. Picasso si aggrappa alla sua vita operosa come volesse farsene una difesa. I primi manifesti di mobilitazione appaiono sui muri dei municipi. «Proprio ora che ho cominciato a lavorare!», brontola Picasso. Place Victor-Massé si è improvvisamente vuotata; il caffè è deserto. Autocarri attraversano la città carichi di soldati. Poi, all’improvviso, la difesa antiaerea ordina l’oscuramento. Una notte opaca si abbatte su Antibes. Le lanterne dei pescatori non ondeggiano più sull’acqua verde. Tutto è chiuso nelle tenebre. Si stacca in fretta la grande tela.
Ed è la Parigi delle voci contraddittorie, delle notizie, false o vere, scambiate come fossero confidenze segrete; è il panico irragionevole che si diffonde e l’affacciarsi di speranze più assurde ancora. Tutti corrono da Picasso, fin dal mattino, tutti quelli che, per la sua celebrità, lo credono meglio informato di tutti gli altri.
Anche se lui stesso è indeciso e disarmato, esercita tuttavia una singolare attrazione sui dubbiosi e gli agitati, come se comunicasse loro un po’ della forza che nel profondo resiste in lui. Tuttavia anch’egli si trascina alla cieca in questo mondo fantomatico di vigilia di guerra, di una guerra ancora senza volto. A Rue La Boétie e nel suo studio fa imballare i quadri, ma poi lascia i pacchi a mezzo, comincia a ordinare certe cose, ma poi lascia fare. Si comporta in pratica come tutti coloro che, pur sapendo la guerra inevitabile, si ribellano, in un sussulto del loro istinto vitale, contro la loro stessa certezza.
Parigi si vuota. Il fuggi fuggi generale è cominciato. «Ogni separazione sembra un addio per l’eternità», racconta Sabartés. Anche Picasso sfolla, accompagnato da Sabartés e sua moglie, da Dora Maar e il suo cane Kazbek. In questa notte del 1° settembre ci si attende la comparsa degli aerei tedeschi su Parigi.
Come tutti quelli che si rifanno alle esperienze della prima guerra mondiale, Picasso ha scelto per rifugio la zona costiera, che è considerata al riparo dall’avanzata nemica. Sulla strada di Royan l’auto incrocia dei gruppi di cavalli requisiti dall’esercito. Se ne vanno due a due o tre a tre, guidati da un uomo a piedi. Picasso è impressionato dall’aria sottomessa, stanca degli animali. Le sofferenze degli animali lo toccano sempre profondamente, in modo più forte forse di quelle degli uomini. «Sembra che capiscano, - osserva, - e capiscono certo che non vanno al loro solito lavoro». I primi disegni che butta giù a Royan, non appena ha un blocco di carta a disposizione, rappresentano dei cavalli requisiti.
Scende all’Hotel du Tigre e affitta una stanza nella villa «Gerbier de Joncs». Questa stanza, che serviva da sala da pranzo, è stipata di mobili, buffet, scrivania, mensole, tavolini, tutto il bric-à-brac che si trova in certi interni di provincia. «Muoversi tra questi mobili sovraccarichi è difficile come manovrare in un porto minato», osserva Sabartés. Picasso trova a stento posto per le tele, i colori, i pennelli. Tuttavia vuole mettersi subito al lavoro. «Tende sempre a risolvere ogni problema, per quanto grave, assoggettandosi a una cura di lavoro». Quando vede Sabartés disoccupato e irritato di questo ozio forzato, gli consiglia la stessa disciplina: «Scrivi, vecchio mio, scrivi... Scrivi quel che vuoi. Scrivi per te se vuoi, anche se sarà solo per te e vedrai che il cattivo umore se ne andrà...»
Da questo saggio consiglio è nato poi il libro Portraits et souvenirs, libro chiave per la conoscenza di Picasso. Ma quanto a Picasso, la ricetta non serve a difenderlo contro l’angoscia del momento. È venuto a sapere che i forestieri arrivati dopo il 25 agosto non hanno diritto di soggiornare in città, dichiarata zona di frontiera. La sua celebrità basterebbe a proteggerlo da ogni fastidio della polizia, ma questo eterno oppositore, questo indisciplinato feroce conserva uno strano rispetto per l’autorità. «Il fatto di sapere che non è del tutto in regola con la legge lo inquieta a tal punto che non riesce a lavorare». Corre a Parigi per ottenere il permesso di soggiorno necessario e l’indomani è di ritorno.
[...]
Nonostante la strana calma che regna nel mondo, che pure è in guerra, egli si preoccupa della sorte dei quadri che ha lasciato nei suoi vari domicili. Verso la metà di novembre, con Sabartés e Dora Maar, parte per Parigi. Arriva anche a Tremblay e a Boisgeloup per mettere in luogo sicuro tele e disegni e prendere dei colori e un vero cavalletto.
La ex sala da pranzo che gli serve da studio sembra farsi più piccola e meno luminosa via via che le giornate si accorciano. Picasso si decide alla fine ad affittare uno studio e una stanzetta all’ultimo piano della villa «Les Voiliers», una stretta casa incuneata tra i due grandi alberghi di Royan. Avrà una vista magnifica davanti. «Non ho bisogno, da solo, di un panorama così grande, - commenta, - ma non aver niente davanti a sé pesa molto». Quando vi si trasferisce, verso la fine di gennaio del 1940, indugia a lungo davanti alla finestra a contemplare il mare e il ciclo arrossato dal tramonto. «Andrebbe bene per qualcuno che fosse pittore», gli scappa detto, quasi con una punta d’invidia per tutti coloro che non si sentono investiti della missione di scomporre l’universo. Sembra che gli dispiaccia di aver lasciato la stanza scomoda e ingombra, dove bisognava piegarsi in due per lavorare. Così si porta dietro dei mobili bizzarri, una poltrona coperta di velluto verde oliva, un’altra fatta di legni flessibili ritorti e lavorati come giunchi.
Questa poltrona è uno degli accessori che s’imporranno, tirannici, nell’opera di Picasso come unico elemento di continuità nella sua perpetua dispersione. Dipinge, soprattutto facendo posare Dora Maar, una serie di ritratti sempre più distanti dal modello e sempre più tendenti alla maschera, alla magia terrifica. Le Donne sedute di questo momento, figure dai tratti decomposti, dipinte come fantasmi di carne beige su fondo grigio o involte in bluse multicolori giocate su accordi stridenti, sono il più delle volte ridotte a piani lineari, a forme geometriche infernali. Ma ritorna anche alle sue antiche figure da prua di nave, a forte rilievo. La Femme nue se coiffant, dipinta in quest’estate di Royan, è un monumento all’atroce dismisura del tempo. Il corpo che, con le sue curve abbondanti, sembra di legno tornito, a differenza delle bagnanti che compivano i loro gesti barcollanti da robot sullo sfondo del cielo e del mare, è incuneato tra muri verdi, in uno spazio così ristretto che ne urta i limiti con i gomiti, i piedi e la testa. Visto dal sotto in su, il nudo seduto su un guanciale violetto presenta anzitutto i suoi piedi giganteschi, la cui pianta enorme è dipinta in modo quasi realistico, e nei quali sono accuratamente segnate le unghie degli alluci. «Picasso vuole fare vero, più vero che la natura, - scrive Frank Elgar; - i suoi peggiori attentati contro la figura umana sono la contropartita malefica della sua passione di veridicità».
Il colosso dilaga nelle natiche e nel ventre, si strozza invece alla vita grazie a due pieghe fortissime; incavi profondi fanno risaltare le coste, i seni puntano verso l’alto, metà carne metà legno tagliato, con punte a forma d’occhio. Questo mostro si assottiglia in cima, il pezzettino di testa si scompone in un naso volto verso destra, in una bocca volta a sinistra, negli occhi che si urtano alle palpebre arrossate. Il tratto più spaventoso in questo viso devastato è che una delle narici freme ancora in questo legno tagliato e che, sulla superficie piallata, la bocca si allarga piatta, rossa, provocante di femminilità.
Questo modo di disarticolare i tratti delle figure ha avuto inizio con Guernica, come fa notare Sidney Janis, che aggiunge: «Proprio come la guerra, che da conflitto spagnolo, localizzato, è dilagata a lotta mondiale, così queste deformazioni si sono dilatate invadendo tutta la sua opera e dando inizio a una nuova fase della sua arte».
Si agita a quell’epoca in Picasso un sordo rancore contro l’umanità stravolta. «Ci crediamo superiori agli animali, - brontola, - è falso». Si ribella alle invenzioni dell’uomo, l’orologio, ad esempio, di cui denuncia i misfatti. «Con tutte le nostre scienze siamo arrivati a perdere il senso della direzione; ora non abbiamo che un residuo di istinto per portare la mano al punto del nostro corpo che vogliamo grattare quando ci prude».
Una nuova inquietudine si impadronisce di lui. Ha lavorato molto. Oltre ai quadri, ha dipinto a olio su carta innumerevoli schizzi, per lo più a monocromo. A volte, lasciando la tela che aveva nel cavalletto, ha fatto parecchi schizzi in un sol giorno. Per lui non sono che appunti, benché spesso si tratti di cose molto elaborate. «Questo accumulare idee pittoriche sulla carta, - ha spiegato più tardi, - è una eventuale aggiunta a qualche cosa che posso utilizzare nei quadri, benché non sia mai esattamente la stessa cosa».
Via via che l’inquietudine aumenta riduce il lavoro. Il momento è gravido di minacce. Si sente che la guerra ben presto cambierà fisionomia. Verso la metà di marzo Picasso parte con Dora Maar per Parigi. «Lavoro, dipingo e mi secco tremendamente», scrive in una cartolina a Sabartés. Una mostra di suoi acquarelli, guazzi e disegni dovrebbe aprirsi alla Galleria M. A. I. il 19 agosto. In questa Parigi tutta voci allarmanti gli prende nostalgia della quiete di Royan. Il 27, 28 e 29 marzo, tre giorni di seguito, dipinge delle nature morte. È il mercato di Royan che ha davanti agli occhi nel suo studio di Rue des Grands-Augustins quando scrive a Sabartés: «Ho lavorato. Ho fatto tre nature morte, dei pesci, con una bilancia, un grande granchio e delle anguille».
La grande offensiva tedesca è cominciata. Le proporzioni del disastro si immaginano a fatica. Una ventata di panico piomba su Parigi. Picasso ritorna a Royan il 17 maggio. Si butta al lavoro come per mettere un muro tra sé e gli avvenimenti. Ma la guerra prende un volto anche per coloro che non riuscivano a immaginarne l’orrore. Si scavano trincee, difesa irrisoria contro forze esplosive ignote. I primi rifugiati arrivano a Royan. Picasso incontra per la strada amici o conoscenti in fuga, uomini politicamente compromessi, artisti ebrei, che vogliono imbarcarsi a Bordeaux o rifugiarsi nel Sud.
Le truppe francesi ripiegano senza ancora aver capito quel che accade. I locali sono requisiti, i ristoranti rigurgitano di gente. Davanti ai fornai si formano le prime code. I tedeschi sono entrati a Parigi.

È un’altra razza, - brontola Picasso. - Si credono molto intelligenti e lo sono a volte... In ogni caso è certo che noi dipingiamo meglio di loro. Tante truppe, tante macchine, tanta forza e tanto spavento per venire fin qui... Immaginano d’aver preso Parigi. Per contro noi, senza muoverci di qui, da molto tempo siamo padroni di Berlino e non credo che saranno capaci di sloggiarcene.

Sembra parlare per rassicurare se stesso. Una sera le truppe tedesche arrivano a Royan. Picasso le vede sfilare dalla finestra del suo studio. La Kommandantur si insedia nelle immediate vicinanze dell’Hotel de Paris.
Il 15 agosto Picasso dipinge il Café a Royan. Ha profuso nella tela tutte le sonorità della sua tavolozza e la freschezza dei colori è ravvivata dal lucido degli smalti. Sopra i verdi, i lillà, i violetti della piazza si leva una casa gialla con le imposte azzurre entro cornici rosse. Il balconcino di legno al quale si è spesso affacciato suggerisce l’idea di un grazioso scenario teatrale, le tende che lo riparano sono a righe festose verdi e gialle.Il cielo d’un azzurro cristallo, toccato di verde per il riverbero del mare, sembra spazzato da un vento fresco. Il quadro è un’esplosione di gioia, di fede nella vita. È l’addio di Picasso a Royan.
Fra poco non resterà nulla della Royan che ha conosciuto. L’Hotel de Paris, dove i tedeschi si sono arrogantemente insediati, scomparirà sotto i bombardamenti. La villa «Les Voiliers», nella quale ha dipinto il volto felice della città, sarà anch’essa ridotta a macerie. Amici consigliano a Picasso di lasciare la Francia occupata. È l’esponente per eccellenza di quel «Kunstbolschevismus» contro il quale un pittore mancato, l’onnipotente vincitore del momento, riversa il suo rancore personale. È noto l’aiuto che l’autore di Guernica ha prestato ai repubblicani spagnoli e l’odio dei tedeschi tiene una contabilità precisa. Picasso riceve inviti da tutte le parti, dal Messico, dall’Argentina, dagli Stati Uniti. La sua grande mostra di New York ha attirato su di lui l’attenzione generale. Egli invece decide di rientrare a Parigi occupata. Al momento della partenza, quando sta per salire in macchina, con Kazbek dietro, un ufficiale tedesco, che se ne stava rigido davanti alla porta della Kommandantur, gli si accosta: «Bitte, - e facendo appello a tutte le sue conoscenze di francese, - le dispiacerebbe dirmi di che razza è il suo cane?»
È una Parigi deserta e triste quella in cui ritorna. Dapprima va ad abitare in Rue La Boétie. Ma i tragitti tra casa e studio divengono difficili. Decide così di trasferirsi in Rue des Grands-Augustins. Nel generale clima di freddo e di fame si mette al lavoro.
Gli ultimi giorni del soggiorno a Royan, quando già aveva imballato tutte le sue tele, ha dipinto ancora due ritratti sui coperchi delle casse d’imballaggio. Sempre a Royan, a un collega agitatissimo che gli chie­deva: «Cosa faremo con i tedeschi alle calcagna?», «Delle mostre», ha risposto. In realtà invece, compromesso com’è agli occhi dei tedeschi, gli sarà proibito di esporre a Parigi. Provvede a mettere al sicuro la maggior parte dei suoi quadri nei sotterranei blindati di una banca, ne trattiene però presso di sé più di un centinaio. E lavora.

Non era il momento per un artista di venir meno, di tirarsi indietro, di arrestarsi nel lavoro, - dirà più tardi; - non gli restava altro da fare che lavorare, seriamente, con fervore, che lottare per il cibo, che incontrare con calma gli amici, e aspettare la libertà.

La lotta anche semplicemente per sopravvivere è dura. Fa freddo nella grande casa di Rue des Grands-Augustins, dove l’impianto di riscaldamento centrale, messo di recente, è inutilizzabile. Le dita intirizzite reggono con fatica un pennello. Un giorno scova da qualche parte una immensa stufa a carbone che viene issata a fatica per la scala ripida e a curve strette. Non si riesce a trovare abbastanza carbone per alimentarla, ma Picasso trova che assomiglia a una scultura negra. Tuttora essa domina con la sua massa sgraziata lo studio di Rue des Grands-Augustins. Per semplificare le cose, gli prestano una cucina economica che riempie di fumo la stanza.
Ai primi di febbraio del 1941, «unicamente come passatempo, - dice Sabartés, - Picasso comincia a scrivere». Riempie un album di appunti. Gioca con le parole come con la carta pieghettata, il filo di ferro, i fogli di stagnola, i fiammiferi, i pezzi di crine o gli spaghi con i quali fa innumerevoli oggettini ricordo. Ma le sue dita impazienti sembrano spontaneamente arrivare a forme coerenti; le parole invece prendono in lui strade autonome. Il suo pensiero letterario non ha la disciplina, la sicurezza istintiva della sua visione plastica. Il surrealismo, che non ha influito sulla sua pittura, se si tolgono certi disegni del 1933, impronta invece sensibilmente il suo stile. Gli appunti di cui riempie i suoi taccuini prendono forma di una commedia che scrive guidato da idee vagabonde, da frammenti di quel che ha visto e sentito. Bruschi contrasti tra l’assurdo e il quotidiano formano arabeschi imprevisti, un pulviscolo di colori. Picasso si diverte molto a scrivere questa commedia che intitola Le désir attrappé par la queue.
L’opera conserva un’eco delle privazioni del tempo, da lui interpretate secondo il suo particolare senso dell’humour. L’inizio del secondo atto si svolge in un corridoio del Sordid Hotel con due piedi davanti a ogni porta che si torcono di dolore e urlano in coro: «I miei geloni! i miei geloni!...» C’è anche il ricordo della stufa che fa fumo, «la mia cuoca, schiava slavo-ispano-moresca e serva e padrona albuminurica». L’isolamento degli uomini fra gli egoismi ripiegati su se stessi, nella sete d’amicizia e nella diffidenza dei vicini, si rispecchia in questa battuta di uno dei personaggi, l’Angoscia magra: «Io batto il mio ritratto contro la mia fronte e offro la mercé del mio dolore contro le finestre chiuse a ogni misericordia». Le désir attrappé par la queue è un riso un po’ forzato, esploso attraverso le notti di Parigi.
Nel marzo del 1943 i Leiris invitano alcuni amici per una lettura dell’opera. È la Parigi del coprifuoco, delle perquisizioni a ogni ora, dei colpi violenti alla porta che sono l’incubo di ogni notte. È la Parigi cantata da Eluard con parole che ogni francese allora sapeva a memoria, è la Francia del terrore di cui ha fissato il volto:

Que voulez-vous la porte était gardée
Que voulez-vous nous étions enfermés
Que voulez-vous la me était barrée
Que voulez-vous la ville était matée
Que voulez-vous elle était affamée...

Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono di quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germain Hugnet, Jacques Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera, press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».
In un articolo pubblicato in «Comoedia» Vlaminck fulmina contro di lui, Camille Mauclair lo proclama responsabile della crisi dell’arte moderna, un volantino fascista americano lo accusa della decadenza della pittura e il suo nome figura degnamente in un libro di Vanderpyl dal titolo ben eloquente: L’Art sans patrie est un mensonge; le pinceau d’Israel.
È in questo momento che la forza d’astrazione di Picasso, quella sua impermeabilità a tutto ciò che può distoglierlo dalla sua strada, si manifesta a pieno. Come se, in un mondo in piena distruzione, volesse aggrapparsi a qualche cosa di stabile, egli varia all’infinito un unico motivo, quello della Donna seduta. Ma il senso di distruzione che è nell’aria s’insinua anche in lui e scatena le catastrofi che egli compie sul viso di Dora Maar. Ecco ad esempio la Femme au corsage bleu (Galleria Leiris), dove appare una blusa punteggiata di bolli bianchi che ritornerà a più riprese nei suoi quadri e che in realtà Dora Maar non ha mai portato.
Questo frammento di testa troppo pesante non è che un primo segno, si direbbe ancora timido, delle deformazioni future. Picasso dipinge Dora Maar a due riprese in un abito che ha veramente portato nell’estate del 1941: un corto giacchetto scozzese ad ampi risvolti, il bustino col colletto a punte. Ma tra questo abito elegante e il cappellino con una grande piuma si leva, sul minuscolo cuneo del collo, una testa immensa, costruita a forza di mutilazioni atroci, come per diffondere l’orrore. Il fondo del quadro rappresenta la solita cella di prigione, col soffitto così basso che il cappello vi urta. In questi quadri, in cui l’intero viso umano si decompone, l’unico elemento che perdura uguale è una poltrona metallica a schienale diritto con due palle in cima: una sorta d’armatura che resiste alla distruzione.
La poltrona, la cella e il soffitto basso, solcato da travi grigio acciaio, ritornano anche in un ritratto dipinto nell’inverno 1941-1942 (Milano, coll. Carlo de Angeli Frua), in cui il modello porta un elegante vestito azzurro con maniche a sbuffi e un cappello a minuscola calotta e orli ondeggianti. Le deformazioni dell’immensa testa, issata su una base aguzza, sono così accentuate che sembra essere stata tornita in legno prima d’essere stata mutilata.
In forme ugualmente scultoree è dipinto il Garçon à la langouste, con lo stesso gruppo naso-occhio che sporge verso l’alto mentre una bocca a mezzaluna con denti rari sorride, come sorridono i monelli di Murillo. La parte inferiore del corpo, con due enormi piedi, è nuda e scopre un piccolo sesso. È un ricordo di Royan che affiora in questa Parigi tormentata, un ricordo dei tempi felici in cui dei ragazzi giocavano ridendo con degli animali in riva al mare. Il ragazzetto del quadro è già una visione infernale, tipica di un mondo sconvolto.
Ma gli incubi di Picasso non infieriscono solo sui visi. I nudi che dipinge o disegna in questo tempo si presentano sempre più spesso, se pure sotto aspetti diversi, con i loro corpi stretti insieme senza elementi di passaggio. Essi sembrano evocare gli incubi di Goya, il Goya che nelle Disparates disegna donne con molte membra e con la testa di Giano. Picasso però non si propone, come Goya, di raffigurare le contraddizioni che si agitano in un essere umano, ma la simultaneità tormentosa della sua esistenza. Una serie di schizzi, eseguiti nel mese di maggio del 1941, studia, attraverso molte variazioni, la veduta circolare di un corpo disteso. Un disegno dai contorni quasi realistici mostra un nudo con due profili saldati insieme, una veduta da tergo unita alla veduta frontale.
Il tormento dei corpi persiste attraverso la tormenta del tempo. Su un letto appaiono una donna nuda, vista di fronte e di profilo, distesa, e una seconda donna seduta, vista anch’essa di schiena e di fronte, con le gambe penzoloni scostate sì che lasciano vedere il sesso ombreggiato. Picasso ripete più volte, soprattutto nel 1942, il motivo torbido delle due donne e le dipinge nude, con gran violenza di verdi, gialli, rossi, bruni e violetti: l’una in piedi, l’altra stesa sul divano in fondo al quale si leva un armadio a specchio.
Il tema delle due donne amorose, accentuato dalla presenza di uno specchio, si conclude nell’Aubade (Parigi, Museo d’Arte Moderna), nella quale una donna nuda, tutta contorta in modo da presentarsi da ogni lato, sta distesa su un divano a righe, mentre l’altra, dall’aria curiosamente di maschiaccio, sta seduta su una sedia, vestita, con un mandolino sulle ginocchia. I diversi aspetti simultanei del nudo sono resi a piani continui o a sfaccettature, spigoli aguzzi e ombre marcate, disseminate qua e là. In pratica però è l’incastro dei piani netti che prevale in lui, con contrasti violenti di colore.
Egli svolge metodicamente la sua visione con la serie delle Donne sedute, esercizio d’interpretazione condotto su vastissima scala. Le forme sfuggono sempre più in direzioni opposte, come se fossero prese dal panico. Della Femme assise dipinta in ottobre non rimane che un vestito azzurro appoggiato alla poltrona, molto scollato, contro un fondo arancione, mentre il triangolo del collo si è rifugiato su una spalla e sostiene sul suo fragile vertice i grossi triangoli e rettangoli che compongono il viso azzurro, lillà e rosso. Il tutto è sormontato da un cappello a guarnizioni complicate come se il nodo, il fiore o la penna che regge avessero il compito di legare l’indicibile e l’assurdo alla femminilità.
Nella Femme assise tenant un alphabet, eseguita nello stesso mese, la poltrona sormontata dalle palle rimane la sola struttura stabile di un mondo sconvolto. Come dice Barr, i tratti completamente centrifugati del viso avvicinano la figura a un totem rituale della Nuova Irlanda.
Nella serie delle Donne sedute i toni violenti si alternano a colori spenti. La Femme assise dipinta nel novembre porta un vestito nero a riflessi azzurri e la sola nota di colore in questo notturno è il lungo ovale rosa del viso mezzo mangiato da un’ombra azzurra. Secondo la legge intima di Picasso, le cose resistono mentre l’elemento umano va alla deriva, e il vestito, con il suo drappeggio complicato (inventato da lui, d’altronde, non copiato dal vestito della modella) è dipinto minuziosamente, al pari del fermaglio d’oro che lo chiude. Fra tutte le sue barbariche evocazioni di donne sedute, nelle quali l’urlo dei gialli, rossi e verdi si fa sempre più forte, questo ritratto fatto di penombra, con un occhio verticale accanto a uno orizzontale e la piccola macchia purpurea della bocca contro la guancia, è uno dei più allucinanti. Gli occhi, resi con una semplice macchia nera ovale, con un puntino al centro, sono invasi dalla paura. La donna seduta in nero potrebbe anch’essa servire da emblema a questi anni che scorrono tetri con appena un vago soffio di speranza.

Non ho dipinto la guerra, - ha detto Picasso dopo la Liberazione, - perché non sono di quei pittori che, come fotografi, vanno in cerca d’un soggetto. Ma non c’è dubbio che la guerra c’è nei quadri che ho dipinto allora. Più tardi forse uno storico dimostrerà che la mia pittura ha cambiato per effetto della guerra. Io, personalmente, non lo so.

La guerra c’è, in realtà, nei quadri di Picasso. C’è perfino nelle nature morte di quegli anni. La vita quotidiana di allora è fatta di privazioni sordide. Picasso, che ha nel sangue la grande sobrietà degli spagnoli, si adatta facilmente alle condizioni di vita più austere. Ma la crescente penuria di ogni cosa intacca perfino la sua indifferenza in fatto di cibo. Un giorno dipinge il Buffet du «Savoyard», il ristorante dove mangia spesso, con i pezzi forti dei pasti di quel tempo: un sanguinaccio nero e dei carciofi, e in più un grande coltello da cucina e una bottiglia. Il quadro è dipinto con gli stessi toni spenti del ritratto precedente e vi domina, secondo le parole stesse di Picasso, «un’atmosfera grigia e tetra come Filippo II»; i coltelli e le forchette spuntano dal cassetto «come anime del Purgatorio». Gli anni bui si riflettono anche nelle Nature morte col cranio di toro del 1942 (Parigi, Galleria Leiris), condotte in un verde crepuscolare contro un muro grigio, al di sopra di una tavola viola cupo, accanto a una pianta verde. Attraverso la finestra penetra obliquamente un’onda di luce rosa sul lillà, ma la finestra ha un’inferriata spessa come quella d’una prigione.
Gli anni di freddo e di fame si ritrovano, evocati con un humour nero, nella Femme assise avec chapeau aux poissons, dove il viso della figura, immerso in un’ombra d’un grigio verdastro segnato di nero, è sormontato, come fosse un cappello, da un piatto di un azzurro festoso sul quale posano una testa di pesce, un limone tagliato, un coltello e una forchetta.
Di quando in quando Picasso si concede una pausa, una breve evasione dalla tristezza dei tempi. Dei fiori appaiono sulla tavola, in una brocca di cristallo posta davanti a una finestra o a un muro chiaro, con in fondo uno specchio che capta tutta la luce. Altro momento di sollievo: un ritratto di Dora Maar (maggio 1941) che riproduce il suo vero volto oppure il ritratto di Nush Eluard (Parigi, Museo d’Arte Moderna) dell’agosto dello stesso anno. Sul busto nudo di un corpo giovanissimo si erge un collo fragile, sul quale la testa, con la sua massa di capelli, appare troppo pesante; nei lunghi occhi, mezzo abbassati sotto la frangia delle ciglia, sembra passare il sorriso che non c’è sulla bocca dolce, quasi infantile. Questo straordinario ritratto è un avvertimento del destino, è il viso, tessuto di luce, di quelli che non sono fatti per resistere e che già portano in sé una morte precoce.
I mostri continuano nell’opera di Picasso, prendendo volta a volta l’apparenza di tutti i terrori che ossessionavano l’uomo primitivo quando aveva freddo e fame, quando lottava per sopravvivere. Ecco la Femme tenant un artichaut, un carciofo grosso come una mazza irta di punte, idolo barbarico con un occhio-narice, un orecchio issato più in alto del sopracciglio, una bocca a mezzaluna (1942). Oppure quella personificazione della collera che è la Femme assise dell’anno dopo con gli occhi rivoltati, il vestito a pieghe che assomiglia a un’armatura d’acciaio, o ancora, quelle Donne in grigio che divengono sempre più allucinanti. Si direbbero vittime di una vendetta oscura che attribuisce loro occhi sovrapposti, folli e tristi, una cattiva bocca a mezzaluna oppure un rettangolo di denti messi a nudo. Dipinge anche donne il cui profilo invade il viso visto di fronte e che sembrano dipinte in una materia fosforescente. Tale è la forza di distruzione che emana da queste creature che sembrano mettere in pericolo tutto ciò che le circonda: quando si cullano su una poltrona a dondolo il pavimento a mattonelle si alza gonfiandosi come un’onda.
Ma il cerchio infernale della sua opera non ha presa su Picasso. Circondato da incubi e da violenze condotte contro il mondo visibile, egli tuttavia conserva quell’estrema sensibilità che lo porta a solidarizzare con tutte le sofferenze e tutta la sua lucidità di giudizio. La sua penetrazione psicologica e i grandi mezzi di cui dispone per rivelare intero un essere umano appaiono nel drammatico ritratto di Dora Maar dell’ottobre del 1942. Tuttavia questo viso dalle mascelle quadrate che si stringono è un viso chiuso; esso spicca, bianco e rosa, contro le ombre azzurre e verdi, entro la sua cornice di capelli scuri con riflessi che vanno dal rosso al verde. La veste che figura nel ritratto, e che in realtà Dora Maar non ha mai portato, è d’un tessuto a righe allegre, verdi e rosse, con un collettino bianco orlato di smerli. Ma contro il vestito vivace, che si tende sul petto alto, le braccia si stringono con un gesto freddoloso. Col suo ricco cromatismo questo ritratto era forse destinato a segnare uno dei momenti di speranza che illuminavano quegli anni, o uno dei sogni sul futuro che permettevano di resistere. Anche i tratti del modello spiravano calma: la fronte liscia oltre le sopracciglia, la bocca segreta e ferma; solo il fremito delle nari rivelava la forza emotiva della figura. Ma mentre il ritratto è ancora in lavorazione Dora Maar è sconvolta da un dolore famigliare: sua madre si ammala e muore prima che il ritratto sia finito. L’angoscia del modello è penetrata a poco a poco nel quadro e si rivela nella contrazione dolorosa della fronte, nelle ciglia corrugate, nello sguardo che si rifiuta di capire, in un muscolo della guancia che freme. Di fronte a questa donna che muta espressione via via che il ritratto procede, vestita d’un abito troppo festoso per la circostanza, Picasso si sforza di cogliere ciò che è quasi impossibile fissare: un viso umano che passa dalla spensieratezza all’apprensione, dall’apprensione alla certezza dolorosa. Tutto il quadro è permeato, e in modo evidente anche non conoscendo le circostanze, d’un sentimento drammatico. Il fondo con i suoi azzurri che schiariscono o incupiscono, i suoi bruni che s’infuocano o trapassano al verde, ha qualche cosa d’una tenda o d’un paravento chiuso su un mistero. Sempre seguendo la simbolica di quel senso di gelosia che assegnava a Dora Maar una stretta cella come sfondo dei suoi ritratti, anche qui Picasso aveva messo nel fondo un’inferriata, una brocca d’acqua e un pezzo di pane. Ma di fronte al dolore della sua bella prigioniera il feroce sentimento di possesso di Picasso scompare, e scompare anche l’inferriata sim­bolica del quadro.
Nel ciclo della donna prigioniera rientrano però ancora il Buste devant la fenétre (Galleria Leiris) dall’apparenza di un manichino di modista con un doppio profilo giustapposto. Una gabbia di uccelli, uno dei simboli cari a Picasso, e la pianta nel vaso sottolineano questo carattere di figura sottratta alle tentazioni del mondo.
Il Buste è condotto nella tonalità spenta di cui Raynal ha detto: «La tavolozza di Picasso si era messa in lutto». Questo periodo è stato anche chiamato «l’epoca grigia». Ma la sua gamma consta di lillà, verdi, azzurri, bruni, di tutto il ricco gioco di sfumature che si dispiega al crepuscolo, e che è simile all’effetto delle voci che, parlando basso, rivelano una cantilena segreta. C’è nelle nature morte di questo periodo un fondo di mistero e Picasso stesso sembra preso dalla magia da lui creata. Capita spesso in un ristorante vicino a casa sua e che porta un nome suggestivo per lui: «Le Catalan». Verso la fine di maggio del 1943 dipinge in due riprese la Desserte del ristorante, contro un fondo giallo con le cornici barocche di un mobile scuro alle quali corrispondono le curve dei piatti. Ha raccontato più tardi:

Desinavo al «Catalan» da mesi e da mesi guardavo il buffet senza pensare altro che: «È un buffet». Un giorno decido di farne un quadro. Lo faccio. Il giorno dopo, quando arrivo, il buffet non c’è più, il suo posto è vuoto. Dovevo averlo preso senza accorgermene, dipingendolo.

Come tante altre battute di Picasso, anche questa nasconde un grano di verità: il suo stupore di fronte a tutto ciò che gli succede di strano, di fronte ai suoi rapporti, del tutto speciali, con gli oggetti che la vita convoglia per depositarglieli accanto. Le sue nature morte, anche quando la tavolozza si schiarisce, anche quando riversa sulla tela tutta la festa dei suoi colori, rimangono permeate da un senso di dramma. Così la Nature morte ù la colombe suggerisce con poderoso realismo l’idea di una creatura morta, come se l’uccello non avesse un triangolo appena abbozzato per testa e due occhi uno sopra l’altro.
La Nature morte avec la guitare et l’épée de matador sembra fatta anch’essa d’accenti festosi, d’un accostamento d’oggetti piacevoli, ad esempio il sigaro che si consuma in un portacenere di cristallo.
Si nota allora in Picasso, così restio ad ammettere soggetti nuovi, un desiderio di novità. Nelle sue nature morte introduce oggetti che finora non gli erano mai serviti. Un campo nuovo si apre nella sua opera: l’infanzia. Tanto il soggetto che il modo di trattarlo sono del tutto imprevisti. Un grosso bimbo paffuto sta seduto a terra, vicino a una sedia sulla quale stanno appollaiate due colombe, una sul sedile, l’altra sullo schienale. Nella testa tonda del bambino gli occhi appaiono sbarrati con insistenza. Non si è servito di modello, tuttavia i tratti della figura hanno qualcosa di vagamente famigliare. «L’abbiamo chiamato Churchill, - spiega Picasso ridendo; - abbiamo trovato che gli somigliava». Dello stesso anno 1943 sono anche Les premiers pas. Picasso non ha rappresentato l’incanto del goffo muoversi dei bambini, la grazia di un corpicino appena formato, ma l’immensità dello sforzo sostenuto da questo bimbo più grande del vero, il dinamismo della sua conquista del mondo. Il bimbo in un primo tempo doveva figurare da solo nel quadro; solamente più tardi Picasso vi ha aggiunto la madre piegata su di lui. La scelta del soggetto è dovuta al caso o non indica invece qualcosa come un impeto di tenerezza, che non sa ancora che un giorno sarà soddisfatta?
Fra i soggetti rari in Picasso (e tanto più significativi quando sporadicamente fanno la loro comparsa) sono anche i paesaggi. Il primo è la Fenêtre de l’atelier, con una cascata di tetti e di camini che rappresenta un termine di passaggio tra le nature morte davanti a una finestra e il paesaggio vero e proprio. L’elemento più significativo di questo quadro è quella manopola di radiatore smisurata che rappresenta da sé sola un sogno di calore, l’attesa di tempi migliori in cui di nuovo non ci sarà che da girare la manopola per non avere più da soffrire il freddo (quando l’inverno verrà, beninteso, dato che il quadro è stato dipinto in piena estate).
L’estate del 1943 è illuminata dalla speranza. L’incubo regna ancora nel cuore della città, il passo dei soldati tedeschi risuona ancora sui selciati, il terrore s’aggrava, trovando sempre nuovi mezzi, ma i rovesci degli eserciti tedeschi in Russia preannunciano una svolta nella guerra. La vittoria sta cambiando campo. Picasso non aveva quasi mai passato l’estate a Parigi, ma dal suo rientro da Royan non viaggia più: gli spostamenti sono difficili per gli stranieri. Tuttavia uscendo di casa vede, proprio a due passi, come se lo vedesse per la prima volta, il giardinetto del Vert-Galant, ai piedi del Pont-Neuf, con i suoi alberi che sembrano parte integrante dell’architettura e, nel fondo, la statua equestre di Enrico IV. Il giardino è luogo d’appuntamento per gli innamorati e Picasso li dipinge in forma grottesca, con occhi tondi, baffi appoggiati contro la mezzaluna rovesciata di un viso di donna e il cerchio della bocca. Il Vert-Galant e la serie degli innamorati che si baciano mostrano che la tendenza a cambiare si va accentuando. Il moto pendolare del suo lavoro lo porta dalle forme lineari, dai piani di colore, chiusi da un segno scuro, a un rilievo sempre più marcato.
Dipinge in questo momento una delle sue sfingi più strane; egli la intitola ancora Femme assise, ma in realtà è solo un monumento della sua inquietudine, intagliato nel legno duro. Nella piramide tronca della massa dei capelli è inserito l’uovo appuntito di un viso dai tratti indicati sommariamente, che ondeggia piccolo, troppo piccolo, sopra le masse immense dei seni. La plasticità del quadro rivela il desiderio sempre maggiore di esprimersi in scultura.
Dal 1941 Picasso si era rimesso a scolpire: gatti di grande mole, uccelli, teste vagamente umane, oggetti senza una base precisa, da tenere nel cavo della mano. Da Boisgeloup fa venire dei gessi degli anni tra il 1931 e il 1933, dato che da una decina d’anni aveva quasi completamente abbandonato la scultura. Le difficoltà per farli fondere in bronzo sono molto grandi in questo momento in cui gli occupanti portano via le statue dalle piazze e dalle strade di Parigi per fame cannoni.
Forse in questo ritorno alla scultura c’è anche un gesto di sfida, che viene ad aggiungersi all’audacia del suo stile. Le opere di scultura di questi anni sono infatti senza legame alcuno con il lavoro fatto finora, senza alcuna continuità con il passato, né con la sua visione pittorica. Il suo spirito inventivo vi si scatena con allegra furia. Per le sue sculture egli si serve di tutto ciò che gli capita sotto mano, degli oggetti più umili, più negletti. Uno stampo da torte sembra aver servito per il suo Fauceur au grand chapeau. Un giorno scova da qualche parte un manichino da sarta di forma antiquata, col busto alto, e lo trasforma in donna «belle époque», con la sottana lunga e senza piedi, che bilancia una testa asimmetrica su un collo vezzoso. Al contrario la Femme a l’orange è costituita da un fusto stretto che si apre in rami che sono braccia, coronato da una placca quadrata che funge da testa: le scanalature del busto si devono al cartone ondulato che gli era stato messo intorno per la fusione. L’acutezza della sua visione si palesa nel modo straordinario con cui sa scoprire una parentela tra il fatto quotidiano, l’oggetto famigliare e l’insolito che vi si nasconde, invisibile per tutti tranne che per lui. Un giorno il suo sguardo (e si pensa a quale inventore avrebbe potuto essere) cade su una sella e un manubrio di bicicletta. Nella sella Picasso scopre un cranio di bue e il manubrio fornirà le corna. L’illusione è sorprendente. L’abilità della trasformazione, compiuta quasi in spregio alla «bella materia», ha assicurato a questa Tête de taureau una strepitosa celebrità. Quando fu esposta dopo la Liberazione Picasso la guardò con aria divertita.

Una metamorfosi c’è stata, - dichiara allora a Andre Warnod, - ma ora vorrei che ne avvenisse un’altra in direzione opposta. Mettete che la mia testa di toro sia gettata nei rifiuti e che un giorno arrivi uno e dica: «Ecco qualcosa che potrebbe servirmi come manubrio per la mia bicicletta». In questo modo la metamorfosi sarebbe stata doppia...

Picasso sembra particolarmente soddisfatto di aver potuto, grazie alla sua abilità manuale, dimostrare la fondamentale identità di tutte le cose. Cocteau l’ha chiamato un giorno: il re dei cenciaioli. In questo suo gusto per la roba vecchia c’è il rispetto per la cosa creata e nello stesso tempo un interesse appassionato per le possibilità di trasformazione che sono in essa, come se, scoprendole, partecipasse lui stesso al divenire e si facesse anello di una catena senza fine.
Fra le sculture eseguite in questi anni ritorna a più riprese un teschio, non però reso come un cranio scarnificato, ma come un blocco segnato da qualche piccola cavità. Queste teste di bronzo hanno piuttosto l’aria di pietre che abbiano rotolato per un tempo infinito, scavate e levigate dalle onde.
La guerra domina senza possibilità d’equivoco in questi teschi, dei quali il più intenso data del 1944, del momento in cui il conflitto si conclude nell’orrore. L’apertura tonda degli occhi dà sul vuoto, il naso pare roso dalla lebbra, la bocca assomiglia a una cicatrice mal chiusa. Questo teschio non ha nulla in comune con i crani che ripetono il terribile monito dal fondo degli ossari, come è lontano dagli scheletri ghignanti che lungo tutto il corso dell’arte spagnola ricordavano ai vivi la vanità delle cose: con i suoi occhi vuoti, la carne tagliuzzata della bocca, sembra l’immagine stessa del terrore, dedicata ai morti anonimi.
Tutto quello che Picasso crea negli ultimi anni della guerra esprime il suo rifiuto di capitolare, la sua volontà di resistere. Amici della Resistenza si incaricano di trasportare di notte i gessi verso le fonderie clandestine. È il tempo delle cose inconcepibili, quando si diffonde un manifestino qualunque a rischio della vita, senza stare troppo a chiedersi se l’effetto di questo foglio di carta valga una morte sotto la tortura. I gessi di Picasso, per fondere i quali si sottrae materiale bellico, sono avviati, coperti di rifiuti, in carrettini a mano sotto il naso delle pattuglie tedesche, e i bronzi vengono riportati nello stesso modo. Quel che importa è la sfida in sé, l’affermazione di vita contro la volontà di distruzione del nemico.
Picasso si mette a una grande opera di scultura. La prepara attraverso molti schizzi e disegni, che un critico americano fa ammontare a un centinaio. La preparazione è così approfondita, la concezione così completa, definita anche nei minimi particolari, che la statua, alta due metri, viene eseguita dall’artista in una sola giornata di lavoro, nel febbraio del 1943. L’opera appare senza alcun rapporto con il presente e senza radici nel passato di Picasso: un tema isolato nella sua opera. Soprattutto è di una estrema semplicità. «Nessuno è mai riuscito a superare la scultura primitiva», diceva Picasso a Sabartés nel corso di una delle loro conversazioni a Royan.
Picasso, il cerebrale, sembra aver ritrovato il segreto dell’istinto primitivo quando scolpisce l’Homme au mouton. Questa immagine, spoglia all’estremo, è apparsa, cosa curiosa, davanti agli occhi d’un uomo di città che fa una vita da assediato.
I precedenti artistici dell’Homme au mouton, se di precedenti si può parlare, potrebbero risalire al Buon Pastore dei primi tempi cristiani. Ma la presentazione della figura umana e il suo modo di tenere l’animale smentiscono ogni intenzione simbolistica. La figura è piantata sui suoi enormi piedi che escono appena dal suolo, il nudo corpo sale alto sopra le lunghe gambe. Non è un giovane nel pieno vigore delle forze, che confronta la bellezza del suo corpo con il vigore dell’animale, né uno di quei robusti apostoli che portavano allegramente sulle spalle un agnello. Picasso l’ha fatto con la barba tonda e la testa calva. Il suo corpo, che già invecchia, invecchia bene, è secco come un ceppo di vigna e dritto come un pioppo, la testa è gettata indietro come per schivare i colpi dell’animale. Le braccia sono abbastanza forti per poter chiudere la bestia nella loro stretta. La bestia è pesante; guardandola di lato si scopre tutta la sua greve massa dominata a fatica. La statua è modellata a colpi rapidi, differenziando il corpo liscio dell’uomo dalla superficie a bioccoli della pecora. All’uscire da questi anni di guerra l’opera si leva come l’incarnazione stessa della sopravvivenza: non un giovane David trionfante, ma un uomo calmo, dal corpo indurito e smagrito dalle privazioni. Stranamente solenne nel suo gesto semplice, esso si pone sulla stessa linea di tutti coloro che hanno dominato la vita, salvando la specie e la dignità dell’uomo.
Gli ultimi guizzi della guerra arrivano a fine. La liberazione è ormai vicina e proprio allora il terrore si fa più duro, l’odio si esaspera. Ogni giorno arriva la notizia della scomparsa di un amico, di un ebreo che fino allora era rimasto nascosto, di un militante della Resistenza. Max Jacob, sfollato a Saint-Benoît-sur-Loire non sfugge alla persecuzione razziale, alla discriminazione che equivale alla segregazione dei lebbrosi: «Felice tu, rospo! Tu non hai la stella gialla», scrive.
L’arresto della sorella lo colpisce dolorosamente, ma non fa nulla per sfuggire alla stessa sorte, non lascia nemmeno il villaggio dove è troppo conosciuto. Arrestato nel febbraio del 1944, morirà a Drancy. Quando riportarono la sua salma a Parigi per seppellirla nel cimitero di Ivry, Picasso fu tra i rari amici che osarono seguire il corteo funebre. C’è qualche cosa di ben spaventoso in questa serie di morti dell’ultima ora. La solitudine infittisce intorno a quelli che restano.
Le notti di Parigi sono sconvolte dai bombardamenti alleati, sempre più frequenti. Un giorno bombe lanciate da aerei inglesi provocano danni rilevanti nei paraggi della Gare du Nord: un quadro di Picasso, che si trovava allora presso lo stampatore Lacourrière, viene colpito da schegge di vetro. È la Nature morte à la lanterne chinoise, dipinta agli inizi dell’anno, col suo frammento di cielo stellato, il cielo pauroso dei bombardamenti. Picasso è particolarmente attratto da questa Parigi minacciata e la fissa in termini durevoli rappresentando il paesaggio che ha davanti agli occhi, cioè i lungosenna, come il Greco dipingeva Toledo, facendovi convergere motivi sparsi che gli sono cari. Pare vagheggi, secondo Sydney Janis, una grande opera, una versione della Grande Jatte nel gusto del nostro tempo. Al pari di tanti stranieri che hanno terribilmente sofferto della disfatta della Francia, si esalta dei fremiti d’eroismo che la scuotono, dei suoi eroi anonimi. Dipinge così, il 14 luglio, due quadri con la veduta di Notre-Dame. Il primo anno del suo soggiorno parigino aveva dipinto la festa popolare con l’allegria di quel fuoco d’artificio che era allora la sua tavolozza. Gli occupanti hanno proibito di celebrare le feste nazionali, ma la Francia ha dato prova di saper ancora prendere delle Bastiglie. Forse Picasso non si è mai sentito tanto francese come questo 14 luglio, quando dipinge la Parigi eterna.
Ai primi d’agosto gli eserciti alleati avanzano. Picasso indugia alla finestra dello studio. In un vaso cresce una pianta di pomodoro. La pianta vigorosa solleva l’arabesco dei suoi rametti contro un fondo di muri grigi verso il cielo sereno. I frutti sono per lo più ancora verdi. Picasso sembra meravigliato della tenacia di questa pianta prigioniera. Ogni giorno ne esamina i frutti, li vede colorirsi di un rosso scarlatto e, tra il 3 e il 10 agosto, dipinge quattro quadri sullo stesso soggetto: Tomates.
La guerra s’avvicina. La fucileria scoppia per le strade. Si diffonde la voce che i tedeschi, prima di abbandonare Parigi, la faranno saltare. Nessuno più è sicuro di sopravvivere alla grande distruzione. Il 21 e il 22 agosto Picasso dipinge due ritratti della figlia Maia: sono due ritratti realistici, condotti all’acquarello, di quelli che si fanno con particolare cura per lasciarli ai posteri.
Il 24 agosto la battaglia infuria per le strade. Tedeschi e miliziani si sono asserragliati al Luxembourg. La prefettura, vicina com’è alla Senna, è diventata il quartier generale della Resistenza. Giovanotti, per lo più ancora ragazzi, muniti di fucile e di bracciale, montano la guardia agli incroci. Domani Parigi sarà punteggiata di steli commoventi applicate ai muri delle case con la scritta laconica: «Qui è morto per la Francia...» I giovani che muoiono in queste ore estreme non avevano ancora raggiunto, per lo più, l’età adulta.
I carri armati passano su e giù. La fucileria crepita fitta sul Boulevard Saint-Michel. Nello studio di Picasso i vetri tremano. Egli deve spezzare questa tensione troppo forte, riempire questa attesa, fare qualche cosa d’altro, qualcosa di così diverso che non possa in nessun modo riportarsi all’angoscia dell’ora.
Tra il 24 e il 29 agosto rifà, secondo i principi della sua visione, il Baccanale di Poussin. Un giorno dice a Kahnweiler: «Prenda Poussin, quando dipinge l’Orfeo, ecco, è raccontato. Tutto, anche la più piccola foglia, racconta il mito». Sono affinità segrete quelle che spingono Picasso a curvarsi su un’opera d’arte, come per carpirne il segreto. «I capolavori, sono quelli degli altri», ha detto una volta a Malraux. Nel gran quadro di Poussin è la frenesia del movimento che sembra averlo sedotto, e quell’ossessione della voluttà che è tipica di chi sfiora la morte da vicino. «Non omettendo quasi nulla dell’opera di Poussin, cambia quasi tutto», scrive John Lucas. Il Baccanale, ridotto a un quarto del suo formato, eseguito ad acquarello e non a olio, è diventato una pagina tipica dell’erotismo di Picasso, dei suoi sogni e dei suoi incubi. La coppia centrale è rappresentata qui da una di quelle coppie che sono consuete a Picasso: il fauno barbuto e una ninfa più vicina a Goya che all’Antico, col suo profilo aguzzo e il collo segnato da rughe, con le anche immense e i suoi seni serrati. Il capro al suo fianco ha due occhi segnati da una profonda tristezza umana. Il quadro presenta esempi di quasi tutti gli stili di Picasso. La donna col canestro di frutta dal profilo classico, le baccanti con la testa a forma di minuscola sfera, un nudo a sfaccettature cubiste, giù giù fino ai mostri con la testa di Giano. Dai grovigli dei corpi escono piedi smisurati, enormi seni gonfi, mani a paletta. Uno strano turbine antropomorfo percorre il quadro, nel quale gli alberi si torcono come corpi inarcati dal desiderio e le membra umane si trasformano in alberi e foglie.
Picasso dipinge febbrilmente durante la battaglia di Parigi: dipinge in un frastuono di finestre sbattute, di carri armati che passano con rombo di tuono, tra il fragore del cannone e della fucileria vicinissima, delle pallottole che rimbalzano da una casa vicina. A chi più tardi si meraviglierà che abbia potuto essere così presente al suo lavoro, così assorbito in esso, risponderà: «Era un esercizio di disciplina».

Le truppe alleate entrano in Parigi liberata. Si era sparsa la voce che Picasso era stato arrestato, che era morto in prigione o in un campo di concentramento. I corrispondenti dei giornali americani che fanno il bilancio delle rovine della Francia vogliono controllare la notizia; i giornali sono immediatamente informati: «Picasso è sano e salvo!» E la notizia di colpo appare molto importante anche a coloro che hanno solo un’idea molto vaga della sua opera.

© per le foto di Giancarlo Mauri










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